Roma

La teologia della Croce di Papa Francesco Bergoglio

La teologia della Croce di Papa Francesco

 

di padre Antonio Rungi, passionista

 

Fin dai suoi primi interventi magisteriali, dal 13 marzo scorso, esattamente un mese fa, Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, religioso della Compagnia di Gesù (Gesuiti) ha sottolineato l’importanza del mistero della Croce di Cristo e soprattutto del Cristo Crocifisso. Si tratta di un magistero sulla teologia della Croce o della Sapienza della Croce che è opportuno analizzare nella sua profondità dottrinale, ma anche pastorale e soprattutto ascetica.

La formazione teologica di Papa Bergoglio è una formazione tipicamente gesuita e come tale, nella spiritualità di Sant’Ignazio di Lojola, ha a cuore il mistero del redentore. La società di Gesù, la compagnia di Gesù non è solo un’istituzione religiosa di grande supporto al papato di ogni tempo, ma una realtà profondamente spirituale, nella chiesa e oltre i suoi confini, che ci fa toccare con mano, come San Tommaso Apostolo, quanti sia fondamentale l’approccio spirituale, biblico, teologico e pastorale per comprendere il mistero della redenzione del genere umano che fissa lo sguardo su due momenti importantissimi della vita di Cristo: la passione-morte in Croce e la sua Risurrezione.

Papa Francesco si ferma come il suo padre fondatore, Ignazio di Lojola, prima sul calvario o lungo la via del Calvario e poi davanti al mistero del sepolcro vuoto, che è il segnale evidente che Cristo è vincitore della morte e soprattutto di ogni morte che non considera Gesù Cristo come unico, vero salvatore del mondo. Rispondendo al saluto augurale del Preposito generale dei Gesuiti, per l’elezione al soglio pontificio di Papa Francesco, il Santo Padre scrive: “La ringrazio di cuore per questo segno di stima e vicinanza, che ricambio con piacere, chiedendo al Signore che illumini e accompagni tutti i Gesuiti affinché, fedeli al carisma ricevuto e sulle orme dei santi del nostro amato Ordine, possano essere, con l’azione pastorale ma soprattutto con la testimonianza di una vita interamente consacrata al servizio della Chiesa, Sposa di Cristo, lievito evangelico nel mondo, alla ricerca incessante della gloria di Dio e del bene delle anime” (1). Rispondendo al messaggio dell’Arcivescovo di Canterbury, Papa Francesco così scrive: “Il ministero pastorale è una chiamata a camminare nella fedeltà al Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo”(2).

Tanti i richiami fatti al mistero della morte in Croce di Gesù, sia nelle omelie, che nei discorsi, nelle udienze generali, nelle preghiera dell’Angelus e del Regina coeli, negli incontri ufficiali, nei messaggi e nelle lettere. Possiamo già indicare una linea di sviluppo della teologia della croce, secondo Papa Bergoglio.

Parto da due testi molto espliciti e specifici relativi alla Passione di Cristo. Il Video-messaggio per l’ostensione virtuale della Sacra Sindone e il discorso a conclusione della Via Crucis al Colosseo. Scrive Papa Francesco: “L’Uomo della Sindone ci invita a contemplare Gesù di Nazaret. Questa immagine – impressa nel telo – parla al nostro cuore e ci spinge a salire il Monte del Calvario, a guardare al legno della Croce, a immergerci nel silenzio eloquente dell’amore. Lasciamoci dunque raggiungere da questo sguardo, che non cerca i nostri occhi ma il nostro cuore. Ascoltiamo ciò che vuole dirci, nel silenzio, oltrepassando la stessa morte. Attraverso la sacra Sindone ci giunge la Parola unica ed ultima di Dio: l’Amore fatto uomo, incarnato nella nostra storia; l’Amore misericordioso di Dio che ha preso su di sé tutto il male del mondo per liberarci dal suo dominio. Questo Volto sfigurato assomiglia a tanti volti di uomini e donne feriti da una vita non rispettosa della loro dignità, da guerre e violenze che colpiscono i più deboli.

Nella sua breve riflessione a conclusione della Via Crucis al Colosseo, Papa Bergoglio riporta l’attenzione di tutti i presenti il mistero della sofferenza e morte di Gesù: “In questa notte deve rimanere una sola parola, che è la Croce stessa. La Croce di Gesù è la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo. A volte ci sembra che Dio non risponda al male, che rimanga in silenzio. In realtà Dio ha parlato, ha risposto, e la sua risposta è la Croce di Cristo: una Parola che è amore, misericordia, perdono. E’ anche giudizio: Dio ci giudica amandoci. Ricordiamo questo: Dio ci giudica amandoci. Se accolgo il suo amore sono salvato, se lo rifiuto sono condannato, non da Lui, ma da me stesso, perché Dio non condanna, Lui solo ama e salva. La parola della Croce è anche la risposta dei cristiani al male che continua ad agire in noi e intorno a noi. I cristiani devono rispondere al male con il bene, prendendo su di sé la Croce, come Gesù… Allora continuiamo questa Via Crucis nella vita di tutti i giorni. Camminiamo insieme sulla via della Croce, camminiamo portando nel cuore questa Parola di amore e di perdono. Camminiamo aspettando la Risurrezione di Gesù, che ci ama tanto. E’ tutto amore”.

Nell’udienza al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Papa Francesco, il 22 marzo scorso, precisava anche il motivo della scelta del nome del Povero d’Assisi, dicendo senza mezze misure che la sua povertà e la sua vicinanza alla sofferenza umana che lo aveva convinto immediatamente per optare per questo nome, ma anche il tema della pace e della fraternità, che trovano la loro sorgente in Gesù Cristo e nel suo sacrificio sulla Croce: “Uno dei primi è l’amore che Francesco aveva per i poveri. Quanti poveri ci sono ancora nel mondo! E quanta sofferenza incontrano queste persone! Sull’esempio di Francesco d’Assisi, la Chiesa ha sempre cercato di avere cura, di custodire, in ogni angolo della Terra, chi soffre per l’indigenza e penso che in molti dei vostri Paesi possiate constatare la generosa opera di quei cristiani che si adoperano per aiutare i malati, gli orfani, i senzatetto e tutti coloro che sono emarginati, e che così lavorano per edificare società più umane e più giuste.  Ma c’è anche un’altra povertà! È la povertà spirituale dei nostri giorni, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi”.

Significativo è il discorso di Papa Francesco sul tema della croce, all’incontro con i rappresentanti delle chiese e delle comunità ecclesiali e delle altre religioni, tenuto il 20 marzo 2013. Egli scrive: L’anno della fede è “una sorta di pellegrinaggio verso ciò che per ogni cristiano rappresenta l’essenziale: il rapporto personale e trasformante con Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza. Proprio nel desiderio di annunciare questo tesoro perennemente valido della fede agli uomini del nostro tempo, risiede il cuore del messaggio conciliare… Noi possiamo fare molto per il bene di chi è più povero, di chi è debole e di chi soffre, per favorire la giustizia, per promuovere la riconciliazione, per costruire la pace.

Non dimentica, Papa Francesco, il tema del dolore, della croce, quando si rivolge ai giornalisti, durante l’udienza particolare concessa a loro, il 16 marzo 2013.

Gli eventi ecclesiali non sono certamente più complicati di quelli politici o economici! Essi però hanno una caratteristica di fondo particolare: rispondono a una logica che non è principalmente quella delle categorie, per così dire, mondane, e proprio per questo non è facile interpretarli e comunicarli ad un pubblico vasto e variegato. La Chiesa, infatti, pur essendo certamente anche un’istituzione umana, storica, con tutto quello che comporta, non ha una natura politica, ma essenzialmente spirituale: è il Popolo di Dio, il Santo Popolo di Dio, che cammina verso l’incontro con Gesù Cristo. Soltanto ponendosi in questa prospettiva si può rendere pienamente ragione di quanto la Chiesa Cattolica opera. Cristo è il Pastore della Chiesa, ma la sua presenza nella storia passa attraverso la libertà degli uomini: tra di essi uno viene scelto per servire come suo Vicario, Successore dell’Apostolo Pietro, ma Cristo è il centro, non il Successore di Pietro: Cristo. Cristo è il centro. Cristo è il riferimento fondamentale, il cuore della Chiesa. Senza di Lui, Pietro e la Chiesa non esisterebbero né avrebbero ragion d’essere”

Papa Bergoglio nel riportare quanto è avvenuto nel conclave, pone la sua attenzione sul discorso dei poveri. La croce è amore per i poveri e scelta di povertà nella chiesa: “Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il Clero, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico, un grande amico! Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: “Non dimenticarti dei poveri!”. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. E’ per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? E’ l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero … Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”.

Se qualche accenno diretto o indiretto al tematica della croce lo troviamo nei documenti fin qui citati, nel discorso del Santo Padre Francesco, a tutti i Cardinali, in occasione della sua elezione a Romano Pontefice, è più preciso sul rapporto tra croce e gioia: “Non cediamo mai al pessimismo, a quell’amarezza che il diavolo ci offre ogni giorno; non cediamo al pessimismo e allo scoraggiamento: abbiamo la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra (cfr At 1,8). La verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana, annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi come lo fu all’inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande espansione missionaria del Vangelo.

Così pure un richiamo indiretto lo troviamo nel primo saluto del Santo Padre, a qualche ora dalla sua elezione, parlando dalla loggia delle benedizioni ed impartendo la benedizioni Urbi et Orbi a tutti i fedeli presenti in Piazza San Pietro il giorno 13 marzo 2013 vero le 21.00 di sera e a quanti avevano seguito la sua elezioni per televisione e con altri mezzi di comunicazione moderna, dove la croce è intesa come cammino di Chiesa, come comunione e fratellanza:  “E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza.

Il magistero di Papa Francesco sul mistero della passione e morte in croce di Gesù si evidenzia in modo teologicamente e biblicamente supportato nelle varie omelie che finora ha tenuto il Papa in occasione di varie celebrazioni.

Parto in questa sintesi del suo pensiero passiologico dalla prima omelia tenuta durante la messa, celebrata con tutti i cardinali, all’indomani della sua elezione a Romano Pontefice, il giorno 14 marzo 2013. In questa catechesi e meditazione sulla Passione di Cristo, Papa Bergoglio ci dona il programma di come metterci alla sequela di Cristo e come imitarne il suo comportamento: “Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore. Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia, abbiamo il coraggio, proprio il coraggio, di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti.  Camminare, edificare, confessare Gesù Cristo Crocifisso”. Così sia.

Nella domenica delle Palme, domenica della Passione, con la solenne liturgia della benedizione delle Palme, in Piazza San Pietro, il giorno 24 marzo, Papa Francesco, ritorna sul tema della croce. Ecco la sua attenta riflessione, che diventa motivo di meditazione sul mistero della croce e del Crocifisso: “Gesù ha risvegliato nel cuore tante speranze soprattutto tra la gente umile, semplice, povera, dimenticata, quella che non conta agli occhi del mondo. Lui ha saputo comprendere le miserie umane, ha mostrato il volto di misericordia di Dio e si è chinato per guarire il corpo e l’anima. Questo è Gesù. Questo è il suo cuore che guarda tutti noi, che guarda le nostre malattie, i nostri peccati. E’ grande l’amore di Gesù. E così entra in Gerusalemme con questo amore, e guarda tutti noi. E’ una scena bella: piena di luce – la luce dell’amore di Gesù, quello del suo cuore – di gioia, di festa…Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù…Gesù non entra nella Città Santa per ricevere gli onori riservati ai re terreni, a chi ha potere, a chi domina; entra per essere flagellato, insultato e oltraggiato, come preannuncia Isaia nella Prima Lettura (cfr Is 50,6); entra per ricevere una corona di spine, un bastone, un mantello di porpora, la sua regalità sarà oggetto di derisione; entra per salire il Calvario carico di un legno. E allora ecco la seconda parola: Croce. Gesù entra a Gerusalemme per morire sulla Croce. Ed è proprio qui che splende il suo essere Re secondo Dio: il suo trono regale è il legno della Croce! … Perché la Croce? Perché Gesù prende su di sé il male, la sporcizia, il peccato del mondo, anche il nostro peccato, di tutti noi, e lo lava, lo lava con il suo sangue, con la misericordia, con l’amore di Dio. Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all’umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole, sete di denaro, che poi nessuno può portare con sé, deve lasciarlo. Mia nonna diceva a noi bambini: il sudario non ha tasche. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il creato! E anche – ciascuno di noi lo sa e lo conosce – i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera creazione. E Gesù sulla croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua risurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati e di fare un pochettino quello che ha fatto Lui quel giorno della sua morte…Con Cristo il cuore non invecchia mai! Però tutti noi lo sappiamo e voi lo sapete bene che il Re che seguiamo e che ci accompagna è molto speciale: è un Re che ama fino alla croce e che ci insegna a servire, ad amare. E voi non avete vergogna della sua Croce! Anzi, la abbracciate, perché avete capito che è nel dono di sé, nel dono di sé, nell’uscire da se stessi, che si ha la vera gioia e che con l’amore di Dio Lui ha vinto il male. Voi portate la Croce pellegrina attraverso tutti i continenti, per le strade del mondo! La portate rispondendo all’invito di Gesù «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (cfr Mt 28,19), che è il tema della Giornata della Gioventù di quest’anno. La portate per dire a tutti che sulla croce Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia, che separa gli uomini e i popoli, e ha portato la riconciliazione e la pace”.

Non mancano riferimenti puntuali alla croce, al dolore nelle altre omelie che finora ha pronunciato Papa Francesco, come quella della Domenica in Albis: “Vorrei sottolineare un altro elemento: la pazienza di Dio deve trovare in noi il coraggio di ritornare a Lui, qualunque errore, qualunque peccato ci sia nella nostra vita. Gesù invita Tommaso a mettere la mano nelle sue piaghe delle mani e dei piedi e nella ferita del costato. Anche noi possiamo entrare nelle piaghe di Gesù, possiamo toccarlo realmente; e questo accade ogni volta che riceviamo con fede i Sacramenti… É proprio nelle ferite di Gesù che noi siamo sicuri, lì si manifesta l’amore immenso del suo cuore.  Questo è importante: il coraggio di affidarmi alla misericordia di Gesù, di confidare nella sua pazienza, di rifugiarmi sempre nelle ferite del suo amore. Forse qualcuno di noi può pensare: il mio peccato è così grande, la mia lontananza da Dio è come quella del figlio minore della parabola, la mia incredulità è come quella di Tommaso; non ho il coraggio di tornare, di pensare che Dio possa accogliermi e che stia aspettando proprio me. Ma Dio aspetta proprio te, ti chiede solo il coraggio di andare a Lui…Gesù è diventato nudo per noi, si è caricato della vergogna di Adamo, della nudità del suo peccato per lavare il nostro peccato: dalle sue piaghe siamo stati guariti. Ricordatevi quello di san Paolo: di che cosa mi vanterò se non della mia debolezza, della mia povertà? Proprio nel sentire il mio peccato, nel guardare il mio peccato io posso vedere e incontrare la misericordia di Dio, il suo amore e andare da Lui per ricevere il perdono…Nella mia vita personale ho visto tante volte il volto misericordioso di Dio, la sua pazienza; ho visto anche in tante persone il coraggio di entrare nelle piaghe di Gesù dicendogli: Signore sono qui, accetta la mia povertà, nascondi nelle tue piaghe il mio peccato, lavalo col tuo sangue. E ho sempre visto che Dio l’ha fatto, ha accolto, consolato, lavato, amato” (3).

Diversi gli accenni del Santo Padre al mistero della morte di Cristo, nell’omelia tenuta durante la veglia pasquale, sabato santo, 30 marzo 2013, in Basilica: Le donne “avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro… Non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui…Nulla rimane più come prima, non solo nella vita di quelle donne, ma anche nella nostra vita e nella nostra storia dell’umanità. Gesù non è un morto, è risorto, è il Vivente! Non è semplicemente tornato in vita, ma è la vita stessa, perché è il Figlio di Dio, che è il Vivente (cfr Nm 14,21-28; Dt 5,26; Gs 3,10). Gesù non è più nel passato, ma vive nel presente ed è proiettato verso il futuro, Gesù è l’«oggi» eterno di Dio. Così la novità di Dio si presenta davanti agli occhi delle donne, dei discepoli, di tutti noi: la vittoria sul peccato, sul male, sulla morte, su tutto ciò che opprime la vita e le dà un volto meno umano. E questo è un messaggio rivolto a me, a te, cara sorella, a te caro fratello. Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza… e lì sta la morte. Non cerchiamo lì Colui che è vivo!.. Accetta allora che Gesù Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con fiducia: Lui è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo passo: ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta di rischiare: non sarai deluso. Se ti sembra difficile seguirlo, non avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che Lui ti è vicino, è con te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui vuole… Fare memoria di quello che Dio ha fatto e fa per me, per noi, fare memoria del cammino percorso; e questo spalanca il cuore alla speranza per il futuro. Impariamo a fare memoria di quello che Dio ha fatto nella nostra vita!

Andando a ritroso nel suo parlare della croce di Cristo, significativi riferimenti troviamo nell’omelia dettata durante la messa del crisma, Giovedì santo, 28 marzo 2013, alla presenza dei cardinali, vescovi e soprattutto per i sacerdoti:  “Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, “le periferie” dove il popolo fedele è più esposto all’invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede. La gente ci ringrazia perché sente che abbiamo pregato con le realtà della sua vita di ogni giorno, le sue pene e le sue gioie, le sue angustie e le sue speranze. E quando sente che il profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore: “preghi per me, padre, perché ho questo problema”, “mi benedica, padre”, “preghi per me”, sono il segno che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché viene trasformata in supplica, supplica del Popolo di Dio. Quando siamo in questa relazione con Dio e con il suo Popolo e la grazia passa attraverso di noi, allora siamo sacerdoti, mediatori tra Dio e gli uomini. ..Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco – non dico “niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione – si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini.

Altri riferimenti troviamo sul tema della croce nell’omelia, pronunciata durante la santa messa per l’imposizione del pallio e la consegna dell’anello del pescatore, in occasione dell’ inizio del ministero petrino, coinciso con la solennità di San Giuseppe, sposo castissimo della Beata Vergine Maria e Patrono della chiesa universale, il 19 marzo 2013.

“Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, Giuseppe accompagna con premura e tutto l’amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù. Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!.

Il dolore, la croce, Papa Bergoglio la vede anche nelle vicende tristi della storia di ieri e di oggi: “In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna. Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!”.

Facendo riferimento alla sua persona, Papa Francesco ha detto: Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire!”. E qui il tema della Croce si evidenzia in tutta la sua portata di servizio, fino al martirio di se stesso come Gesù Crocifisso.

Un accenno ai questi temi di teologia della croce, troviamo poi, anche nel testo dell’omelia, pronunciata durante la messa nella parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, il 17 marzo 2013, nella quinta domenica del tempo quaresimale: “Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore: la misericordia. Ma Lui stesso l’ha detto: Io non sono venuto per i giusti; i giusti si giustificano da soli.Io sono venuto per i peccatori (cfr Mc 2,17)…Non è facile affidarsi alla misericordia di Dio, perché quello è un abisso incomprensibile. Ma dobbiamo farlo! Torniamo al Signore. Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si stanca di perdonare. Chiediamo questa grazia.

Le tematiche di carattere passiologico vengono accennate anche nelle diverse meditazioni prima della recita dell’Angelus e del Regina coeli delle domeniche e feste. Molto significative sono le parole dette da Papa Francesco al Regina coeli della domenica in Albis, intiotolata dal Beato Giovanni Paolo II alla Divina Misericordia: “In ogni tempo e in ogni luogo sono beati coloro che, attraverso la Parola di Dio, proclamata nella Chiesa e testimoniata dai cristiani, credono che Gesù Cristo è l’amore di Dio incarnato, la Misericordia incarnata. E questo vale per ciascuno di noi! Agli Apostoli Gesù donò, insieme con la sua pace, lo Spirito Santo, perché potessero diffondere nel mondo il perdono dei peccati, quel perdono che solo Dio può dare, e che è costato il Sangue del Figlio (cfr Gv 20,21-23). La Chiesa è mandata da Cristo risorto a trasmettere agli uomini la remissione dei peccati, e così far crescere il Regno dell’amore, seminare la pace nei cuori, perché si affermi anche nelle relazioni, nelle società, nelle istituzioni. E lo Spirito di Cristo Risorto scaccia la paura dal cuore degli Apostoli e li spinge ad uscire dal Cenacolo per portare il Vangelo. Abbiamo anche noi più coraggio di testimoniare la fede nel Cristo Risorto! Non dobbiamo avere paura di essere cristiani e di vivere da cristiani! Noi dobbiamo avere questo coraggio, di andare e annunciare Cristo Risorto, perché Lui è la nostra pace, Lui ha fatto la pace, con il suo amore, con il suo perdono, con il suo sangue, con la sua misericordia”.

Nel Regina coeli del Lunedì dell’Angelo, il 1 aprile 2013, Papa Francesco fa risaltare l’importanza della risurrezione di Gesù, come momento culminante del piano della redenzione dell’uomo: “Cristo ha vinto il male in modo pieno e definitivo, ma spetta a noi, agli uomini di ogni tempo, accogliere questa vittoria nella nostra vita e nelle realtà concrete della storia e della società”. Non dimentica il Papa, l’importanza del duplice sacramento del battesimo e dell’eucaristia: “E’ vero, il Battesimo che ci fa figli di Dio, l’Eucaristia che ci unisce a Cristo, devono diventare vita, tradursi cioè in atteggiamenti, comportamenti, gesti, scelte. La grazia contenuta nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme per l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni sociali. Ma tutto passa attraverso il cuore umano: se io mi lascio raggiungere dalla grazia di Cristo risorto, se le permetto di cambiarmi in quel mio aspetto che non è buono, che può far male a me e agli altri, io permetto alla vittoria di Cristo di affermarsi nella mia vita, di allargare la sua azione benefica. Questo è il potere della grazia! Senza la grazia non possiamo nulla. Senza la grazia non possiamo nulla! E con la grazia del Battesimo e della Comunione eucaristica posso diventare strumento della misericordia di Dio, di quella bella misericordia di Dio”.

Nel mistero della croce entra anche il mistero della Vergine Maria. Nelle parole dette dal Papa, prima della preghiera dell’Angelus, nella domenica delle Palme, troviamo questo riferimento importante alla Madonna Addolorata e alle sofferenze della Madre del Signore: “Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria affinché ci accompagni nella Settimana Santa. Lei, che seguì con fede il suo Figlio fino al Calvario, ci aiuti a camminare dietro a Lui, portando con serenità e amore la sua Croce, per giungere alla gioia della Pasqua. La Vergine Addolorata sostenga specialmente chi sta vivendo situazioni più difficili”.

Al primo Angelus da Vescovo di Roma e da Romano Pontefice, Papa Francesco, il 17 marzo parla della misericordia di Dio: “In questa quinta domenica di Quaresima, il Vangelo ci presenta l’episodio della donna adultera (cfr Gv 8,1-11), che Gesù salva dalla condanna a morte. Colpisce l’atteggiamento di Gesù: non sentiamo parole di disprezzo, non sentiamo parole di condanna, ma soltanto parole di amore, di misericordia, che invitano alla conversione. “Neanche io ti condanno: va e d’ora in poi non peccare più!” (v. 11). Eh!, fratelli e sorelle, il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza. Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi? Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito. “Grande è la misericordia del Signore”, dice il Salmo…Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza”.

Nell’udienza generale del 10 aprile, Papa Francesco parla di Dio Padre e ritorna sul tema della speranza cristiana, che nasce dalla morte e risurrezione di Gesù: “Oggi vorrei riflettere sulla sua portata salvifica. Che cosa significa per la nostra vita la Risurrezione? E perché senza di essa è vana la nostra fede? La nostra fede si fonda sulla Morte e Risurrezione di Cristo, proprio come una casa poggia sulle fondamenta: se cedono queste, crolla tutta la casa. Sulla croce, Gesù ha offerto se stesso prendendo su di sé i nostri peccati e scendendo nell’abisso della morte, e nella Risurrezione li vince, li toglie e ci apre la strada per rinascere a una vita nuova”. Sviluppa poi una riflessione sul valore del battesimo che ci pone nella condizione di figli adottivi di Dio: “ Questa relazione filiale con Dio non è come un tesoro che conserviamo in un angolo della nostra vita, ma deve crescere, dev’essere alimentata ogni giorno con l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, la partecipazione ai Sacramenti, specialmente della Penitenza e dell’Eucaristia, e la carità. Noi possiamo vivere da figli! E questa è la nostra dignità – noi abbiamo la dignità di figli -. Comportarci come veri figli! Questo vuol dire che ogni giorno dobbiamo lasciare che Cristo ci trasformi e ci renda come Lui; vuol dire cercare di vivere da cristiani, cercare di seguirlo, anche se vediamo i nostri limiti e le nostre debolezze. La tentazione di lasciare Dio da parte per mettere al centro noi stessi è sempre alle porte e l’esperienza del peccato ferisce la nostra vita cristiana, il nostro essere figli di Dio… Dobbiamo avere noi per primi ben ferma questa speranza e dobbiamo esserne un segno visibile, chiaro, luminoso per tutti. Il Signore Risorto è la speranza che non viene mai meno, che non delude (cfr Rm 5,5). La speranza non delude. Quella del Signore! Quante volte nella nostra vita le speranze svaniscono, quante volte le attese che portiamo nel cuore non si realizzano! La speranza di noi cristiani è forte, sicura, solida in questa terra, dove Dio ci ha chiamati a camminare, ed è aperta all’eternità, perché fondata su Dio, che è sempre fedele. Non dobbiamo dimenticare: Dio  sempre è fedele; Dio sempre è fedele con noi. Essere risorti con Cristo mediante il Battesimo, con il dono della fede, per un’eredità che non si corrompe, ci porti a cercare maggiormente le cose di Dio, a pensare di più a Lui, a pregarlo di più. Essere cristiani non si riduce a seguire dei comandi, ma vuol dire essere in Cristo, pensare come Lui, agire come Lui, amare come Lui; è lasciare che Lui prenda possesso della nostra vita e la cambi, la trasformi, la liberi dalle tenebre del male e del peccato. ..Mostriamo la gioia di essere figli di Dio, la libertà che ci dona il vivere in Cristo, che è la vera libertà, quella che ci salva dalla schiavitù del male, del peccato, della morte! Guardiamo alla Patria celeste, avremo una nuova luce e forza anche nel nostro impegno e nelle nostre fatiche quotidiane. E’ un servizio prezioso che dobbiamo dare a questo nostro mondo, che spesso non riesce più a sollevare lo sguardo verso l’alto, non riesce più a sollevare lo sguardo verso Dio”.

Nell’udienza generale del 3 aprile, Papa Francesco ritorna sul tema della risurrezione di Gesù e riprende le catechesi sull’anno delle fede, partendo proprio dall’accettazione incondizionata del mistero centrale della nostra fede: la passione, morte e risurrezione del Signore:  “All’alba, le donne si recano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù, e trovano il primo segno: la tomba vuota (cfr Mc 16,1). Segue poi l’incontro con un Messaggero di Dio che annuncia: Gesù di Nazaret, il Crocifisso, non è qui, è risorto (cfr vv. 5-6). Le donne sono spinte dall’amore e sanno accogliere questo annuncio con fede: credono, e subito lo trasmettono, non lo tengono per sé, lo trasmettono. La gioia di sapere che Gesù è vivo, la speranza che riempie il cuore, non si possono contenere. Questo dovrebbe avvenire anche nella nostra vita. Sentiamo la gioia di essere cristiani! Noi crediamo in un Risorto che ha vinto il male e la morte! Abbiamo il coraggio di “uscire” per portare questa gioia e questa luce in tutti i luoghi della nostra vita! La Risurrezione di Cristo è la nostra più grande certezza; è il tesoro più prezioso! Come non condividere con gli altri questo tesoro, questa certezza? Non è soltanto per noi, è per trasmetterla, per darla agli altri, condividerla con gli altri. E’ proprio la nostra testimonianza.

Gesù si rende presente in modo nuovo: è il Crocifisso, ma il suo corpo è glorioso; non è tornato alla vita terrena, bensì in una condizione nuova. All’inizio non lo riconoscono, e solo attraverso le sue parole e i suoi gesti gli occhi si aprono: l’incontro con il Risorto trasforma, dà una nuova forza alla fede, un fondamento incrollabile. Anche per noi ci sono tanti segni in cui il Risorto si fa riconoscere: la Sacra Scrittura, l’Eucaristia, gli altri Sacramenti, la carità, quei gesti di amore che portano un raggio del Risorto. Lasciamoci illuminare dalla Risurrezione di Cristo, lasciamoci trasformare dalla sua forza, perché anche attraverso di noi nel mondo i segni di morte lascino il posto ai segni di vita. Ho visto che ci sono tanti giovani nella piazza. Eccoli! A voi dico: portate avanti questa certezza: il Signore è vivo e cammina a fianco a noi nella vita. Questa è la vostra missione! Portate avanti questa speranza. Siate ancorati a questa speranza: questa àncora che è nel cielo; tenete forte la corda, siate ancorati e portate avanti la speranza. Voi, testimoni di Gesù, portate avanti la testimonianza che Gesù è vivo e questo ci darà speranza, darà speranza a questo mondo un po’ invecchiato per le guerre, per il male, per il peccato. Avanti giovani!”.

Nell’udienza generale della domenica delle Palme, Papa Francesco, presenta il significato dell’intera settimana santa, che è soprattutto la settimana della Passione: “Con la Domenica delle Palme abbiamo iniziato questa Settimana – centro di tutto l’Anno Liturgico – in cui accompagniamo Gesù nella sua Passione, Morte e Risurrezione. Ma che cosa può voler dire vivere la Settimana Santa per noi? Che cosa significa seguire Gesù nel suo cammino sul Calvario verso la Croce e la Risurrezione? Nella sua missione terrena, Gesù ha percorso le strade della Terra Santa; ha chiamato dodici persone semplici perché rimanessero con Lui, condividessero il suo cammino e continuassero la sua missione; le ha scelte tra il popolo pieno di fede nelle promesse di Dio. Ha parlato a tutti, senza distinzione, ai grandi e agli umili, al giovane ricco e alla povera vedova, ai potenti e ai deboli; ha portato la misericordia e il perdono di Dio; ha guarito, consolato, compreso; ha dato speranza; ha portato a tutti la presenza di Dio che si interessa di ogni uomo e ogni donna, come fa un buon padre e una buona madre verso ciascuno dei suoi figli. Dio non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi. Gesù ha vissuto le realtà quotidiane della gente più comune: si è commosso davanti alla folla che sembrava un gregge senza pastore; ha pianto davanti alla sofferenza di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro; ha chiamato un pubblicano come suo discepolo; ha subito anche il tradimento di un amico. In Lui Dio ci ha dato la certezza che è con noi, in mezzo a noi. «Le volpi – ha detto Lui, Gesù – le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Gesù non ha casa perché la sua casa è la gente, siamo noi, la sua missione è aprire a tutti le porte di Dio, essere la presenza di amore di Dio.  Nella Settimana Santa noi viviamo il vertice di questo cammino, di questo disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Gesù entra in Gerusalemme per compiere l’ultimo passo, in cui riassume tutta la sua esistenza: si dona totalmente, non tiene nulla per sé, neppure la vita. Nell’Ultima Cena, con i suoi amici, condivide il pane e distribuisce il calice “per noi”. Il Figlio di Dio si offre a noi, consegna nelle nostre mani il suo Corpo e il suo Sangue per essere sempre con noi, per abitare in mezzo a noi. E nell’Orto degli Ulivi, come nel processo davanti a Pilato, non oppone resistenza, si dona; è il Servo sofferente preannunciato da Isaia che spoglia se stesso fino alla morte (cfr Is 53,12). Gesù non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi. Sulla croce Gesù «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Ciascuno di noi può dire: Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Ciascuno può dire questo “per me”.

Che cosa significa tutto questo per noi? Significa che questa è anche la mia, la tua, la nostra strada. Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù non solo con la commozione del cuore; vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi – come dicevo domenica scorsa – per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore!

Vivere la Settimana Santa è entrare sempre più nella logica di Dio, nella logica della Croce, che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita. E’ entrare nella logica del Vangelo. Seguire, accompagnare Cristo, rimanere con Lui esige un “uscire”, uscire. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la sua misericordia che salva e dona speranza. Anche noi, se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo “uscire”, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana. Ricordate bene: uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi.

Qualcuno potrebbe dirmi: “Ma, padre, non ho tempo”, “ho tante cose da fare”, “è difficile”, “che cosa posso fare io con le mie poche forze, anche con il mio peccato, con tante cose? Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una Messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di “uscire” per portare Cristo. Siamo un po’ come san Pietro. Non appena Gesù parla di passione, morte e risurrezione, di dono di sé, di amore verso tutti, l’Apostolo lo prende in disparte e lo rimprovera. Quello che dice Gesù sconvolge i suoi piani, appare inaccettabile, mette in difficoltà le sicurezze che si era costruito, la sua idea di Messia. E Gesù guarda i discepoli e rivolge a Pietro forse una delle parole più dure dei Vangeli: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Dio pensa sempre con misericordia: non dimenticate questo. Dio pensa sempre con misericordia: è il Padre misericordioso! Dio pensa come il padre che attende il ritorno del figlio e gli va incontro, lo vede venire quando è ancora lontano… Questo che significa? Che tutti i giorni andava a vedere se il figlio tornava a casa: questo è il nostro Padre misericordioso. E’ il segno che lo aspettava di cuore nella terrazza della sua casa. Dio pensa come il samaritano che non passa vicino al malcapitato commiserandolo o guardando dall’altra parte, ma soccorrendolo senza chiedere nulla in cambio; senza chiedere se era ebreo, se era pagano, se era samaritano, se era ricco, se era povero: non domanda niente. Non domanda queste cose, non chiede nulla. Va in suo aiuto: così è Dio. Dio pensa come il pastore che dona la sua vita per difendere e salvare le pecore.

La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie – che pena tante parrocchie chiuse! – dei movimenti, delle associazioni, ed “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione”.

Nel messaggio Urbi et orbi per il giorno di Pasqua, Papa Francesco, nelle sue parole esprime il linguaggio della risurrezione e della vita per le singole persone e per l’intera umanità. La croce aperta alla risurrezione, diventa la risurrezione, che include la passione. Una passione per la vita e per la gioia di vivere. Una passione ad alimentare la speranza e la vera gioia: “Che grande gioia per me potervi dare questo annuncio: Cristo è risorto! Vorrei che giungesse in ogni casa, in ogni famiglia, specialmente dove c’è più sofferenza, negli ospedali, nelle carceri… Soprattutto vorrei che giungesse a tutti i cuori, perché è lì che Dio vuole seminare questa Buona Notizia: Gesù è risorto, c’è la speranza per te, non sei più sotto il dominio del peccato, del male! Ha vinto l’amore, ha vinto la misericordia! Sempre vince la misericordia di Dio! Anche noi, come le donne discepole di Gesù, che andarono al sepolcro e lo trovarono vuoto, possiamo domandarci che senso abbia questo avvenimento (cfr  Lc 24,4). Che cosa significa che Gesù è risorto? Significa che l’amore di Dio è più forte del male e della stessa morte; significa che l’amore di Dio può trasformare la nostra vita, far fiorire quelle zone di deserto che ci sono nel nostro cuore. E questo può farlo l’amore di Dio! Questo stesso amore per cui il Figlio di Dio si è fatto uomo ed è andato fino in fondo nella via dell’umiltà e del dono di sé, fino agli inferi, all’abisso della separazione da Dio, questo stesso amore misericordioso ha inondato di luce il corpo morto di Gesù, lo ha trasfigurato, lo ha fatto passare nella vita eterna. Gesù non è tornato alla vita di prima, alla vita terrena, ma è entrato nella vita gloriosa di Dio e ci è entrato con la nostra umanità, ci ha aperto ad un futuro di speranza. Ecco che cos’è la Pasqua: è l’esodo, il passaggio dell’uomo dalla schiavitù del peccato, del male alla libertà dell’amore, del bene. Perché Dio è vita, solo vita, e la sua gloria siamo noi: l’uomo vivente.  Cristo è morto e risorto una volta per sempre e per tutti, ma la forza della Risurrezione, questo passaggio dalla schiavitù del male alla libertà del bene, deve attuarsi in ogni tempo, negli spazi concreti della nostra esistenza, nella nostra vita di ogni giorno. Quanti deserti, anche oggi, l’essere umano deve attraversare! Soprattutto il deserto che c’è dentro di lui, quando manca l’amore di Dio e per il prossimo, quando manca la consapevolezza di essere custode di tutto ciò che il Creatore ci ha donato e ci dona. Ma la misericordia di Dio può far fiorire anche la terra più arida, può ridare vita alle ossa inaridite (cfr Ez 37,1-14). Allora, ecco l’invito che rivolgo a tutti: accogliamo la grazia della Risurrezione di Cristo! Lasciamoci rinnovare dalla misericordia di Dio, lasciamoci amare da Gesù, lasciamo che la potenza del suo amore trasformi anche la nostra vita; e diventiamo strumenti di questa misericordia, canali attraverso i quali Dio possa irrigare la terra, custodire tutto il creato e far fiorire la giustizia e la pace. E così domandiamo a Gesù risorto, che trasforma la morte in vita, di mutare l’odio in amore, la vendetta in perdono, la guerra in pace. Sì, Cristo è la nostra pace e attraverso di Lui imploriamo pace per il mondo intero.

 

In conclusione, Papa Francesco, fin dalle sue parole è andato al centro della dottrina cattolica e al mistero centrale della nostra fede: quello della morte e risurrezione del Signore. Certo, il fatto, che sia stato eletto nel periodo di quaresima e prossimo alla Settimana Santa e al tempo pasquale, ha permesso a Papa Bergoglio di incentrare, per necessità di cosa e del tempo liturgico, il suo magistero ordinario sulla passione, morte e risurrezione del Signore. E da tutti i testi finora esaminati possiamo ben dire che egli ama i temi cristologici e passiologici in particolare, perché li rapporta con la vita quotidiana, dove la sofferenza è visibile in tanti volti di esseri umani che portano con dignità la loro croce e completano con la loro sofferenza ciò che manca alla passione di Gesù. Papa Francesco è un religioso gesuita, ma io lo ritengo nello spirito, nell’azione pastorale, nell’insegnamento finora espresso un “papa passionista”, nel senso che oltre ad esprime un grande amore verso Gesù Crocifisso e la Vergine Addolorata, vive, anche oggi come Romano Pontefice, vicino alle sofferenze degli uomini e donne del nostro tempo, facendo toccare con mano che quello che dice è prima di tutto vissuto e testimoniato con la sua vita di povertà, distacco dai beni della terra, di semplicità, essenzialità, di amore preferenziale, come Cristo, verso gli ultimi e bisognosi della terra, senza escludere nessuno dalla sua azione pastorale che ha un respiro mondiale, essendo lui il Pontefice massimo, colui che deve creare ponti per far passare il gregge e portarlo tutto unito nel recinto di Gesù Cristo Buon Pastore e unico salvatore dell’umanità.

 

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NOTE

 

(1).LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO  AL PREPOSITO GENERALE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,  PADRE ADOLFO NICOLÁS PACHÓN.

(2).MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALL’ARCIVESCOVO DI CANTERBURY JUSTIN WELBY  IN OCCASIONE DELLA CERIMONIA DI INTRONIZZAZIONE  [21 MARZO 2013]

(3).CAPPELLA PAPALE PER L’INSEDIAMENTO,  DEL VESCOVO DI ROMA SULLA CATHEDRA ROMANA, OMELIA DEL  SANTO PADRE FRANCESCO.

 

 

Roma. In Udienza da Papa Francesco, ieri mercoledì 10 aprile 2013

DSC07861.JPGUn gruppo di 50 fedeli, soci dell’Associazione nazionale dei Carabinieri, Sezione di Marcianise (Ce), mercoledì 10 aprile 2013, è stata in Udienza generale da Papa Francesco, in Piazza San Pietro ed ha visitato i Musei Vaticani, il maggior centro mondiale di cultura ed arte, per l’eccezionale patrimonio artistico che conserva in una vasta area, che giustamente viene definiti come “Musei”  e non Museo, in quanto è un insieme di tante espressioni artistiche.Il gruppo era accompagnato dall’assistente spirituale, padre Antonio Rungi, religioso passionista  e dal Luogotenente in pensione, Davide Morrone, presidente della sezione locale di detta affermata amata associazione di volontariato. Partenza da Marcianise alle ore 7,30 ed arrivo a Roma alle ore 11.00. Il gruppo ha fatto in tempo, data la distanza e il traffico, a partecipare all’Udienza generale in Piazza San Pietro, dove migliaia di fedeli provenienti da ogni parte del mondo ha seguito la catechesi di Papa Francesco, incentrata sulla paternità di Dio e sul tema della speranza cristiana che nasce dalla Pasqua di morte e risurrezione di Cristo. Conclusa l’Udienza generale un gruppetto dell’Associazione è stato intervistato in diretta da TV2000, la Tv dei Vescovi italiani. A nome di tutti ha parlato padre Antonio Rungi, assistente spirituale, sul tema della catechesi del Papa, e il maresciallo Davide Morrone che ha sottolineato alcuni aspetti importanti della figura di Papa Francesco. Subito dopo, il gruppo, accompagnata da Elisabetta, si è trasferito presso i vicini Musei Vaticani e tutto unito ha visitato, con la guida di Gabriele, un esperto del settore, che ci ha illustrato buona parte del patrimonio artistico conservato nei Musei Vaticani. In particolare ci ha presentato tutto ciò che è stato realizzato negli anni nella Cappella Sistina dai vari artisti che vi hanno messo mano ed hanno realizzato l’opera più bella ed espressiva del mistero di Dio, Creatore, Salvatore, Redentore del genere. Le varie immagini sono state presentate e commentate, calate nel contesto biblico, teologico e storico. Una grande lezione di fede e di catechesi per un cristiano che è particolarmente attento ai suoi bisogni spirituali. La visita ai musei vaticani e alla Cappella Sistina iniziata alle 12,30 si è conclusa alle 14,30. Dopo di ciò il gruppo percorrendo a piedi altri tratti della zona del Vaticano ha raggiunto un locale, in Borgo Pio, dove in fraternità è stato consumato il pranzo, impegnato circa un’ora e mezzo. Alle 16,30 concluso il pranzo, ognuno dei componenti ha avuto la possibilità di muoversi liberamente nella zona del Vaticano. Chi ha visitato la Basilica, chi ha fatto acquisto di ricordini, chi è rimasto in Piazza San Pietro e chi si è ritagliato uno spazio personale per la preghiera, raggiungendo la Chiesa di Sant’Anna, appena si entra nel Vaticano. Il gruppo si è ritrovato alle 17,15 in Piazza San Pietro per poi trasferirsi, accompagnato da Elisabetta, al Terminal del Gianicolo, per prendere l’Autobus e fare ritorno a casa. Da Roma, il gruppo è partito alle ore 18,00 circa ed è arrivato a Marcianise alle 22,15. La giornata bellissima da un punto di vista spirituale, culturale e sociale è stata anche bella da un punto di vista meteo. Il sole primaverile che ha accompagnato lo svolgersi della giornata romana ha fatto sì che tutti i componenti del Gruppo potesse godersi i vari momenti programmati e rispettati al millesimo. La grande folla presente in Piazza San Pietro non ha permesso di vedere da vicino il Papa, ma si è visto benissimo da lontano e sui maxi-schermi che inquadravano la persona di Papa Francesco in tutti i momenti più belli del suo percorso in mezzo alla gente, con la papamobile, abbracciando numerosi bambini e salutando tantissime persone presenti in Piazza San Pietro per la sua terza udienza generale del mercoledì, alla quale partecipano sistematicamente migliaia di fedeli provenienti da ogni parte del mondo. L’elezione di Papa Francesco ha determinato un entusiasmo nuovo che è percepibile stando in mezzo alla gente, soprattutto durante le Udienze generali e la partecipazione alla preghiera domenicale della Regina coeli, che si recita in questo tempo di Pasqua, tempo di gioia, risurrezione, vita e speranza come ha ricordato Papa Francesco, nuovamente, mercoledì 10 aprile 2013, nella sua terza udienza generale, davanti ad oltre 50.000 fedeli che si sono radunati intorno al Santo Padre, per ascoltare parole di speranza, che trovano la loro sorgente nel mistero di Dio Padre e di Cristo Salvatore dell’umanità.
E il Gruppo si prepara, come ogni anno, a travalicare i confini nazionali, con il pellegrinaggio internazionale, che quest’anno si svolgerà a Medijugorie a fine agosto 2013.
 

Riflessione. Le periferie dell’esistenza umana

21dc0e6578352908781f32ea8db1cfbd.jpgLa periferia dell’esistenza

 

di Antonio Rungi

 

Il Santo Padre, Papa Francesco, in questi giorni di inizio del suo ministero petrino, spesso nei suoi interventi, discorsi, omelie, riflessioni, annotazioni, aggiunte fa riferimento al tema della periferia dell’esistenza umana e sociale entro la quale il cattolico deve operare e muoversi per agire da cristiano, per annunciare il vangelo, per ridare speranza alla gente, povera, indifesa, umiliata, emarginata di ogni parte del mondo.

Tutti conosciamo le periferie dei piccoli o grandi centri della nostra Italia, della nostra Europa e del resto del mondo. Le megalopoli hanno creato ed alimentato le varie periferie geografiche e di conseguenza hanno determinato strutturalmente le più significative e drammatiche periferie dove vivono gli uomini che non contano nella società, dove il criterio fondamentale per valutare la sua dignità è il denaro, il successo, la bellezza, la salute, la ricchezza, l’efficienza. Il misero, il drogato, il povero, il carcerato, il solitario, il barbone, il senza casa, il divorziato e separato, l’offeso, l’umiliato, il violentato non trovano posto nella vita di questa società, sempre più distratta dall’effimero e dal passeggero e meno concentrata sui grandi ideali della vita e della dignità di ogni essere umano.

Dall’enciclopedia delle Scienze sociali della Treccani, traggo alcune considerazioni e riflessioni per approfondire il tema e capirne di più, anche per inquadrare teoricamente e pastoralmente la problematica alla luce del Magistero di Papa Francesco.

Al centro delle parole del Pontefice la Settimana Santa, iniziata con la Domenica delle Palme lo scorso 24 marzo, c’è la necessità di uscire da noi stessi, dai nostri recinti ed andare verso gli altri, verso le periferie dell’esistenza. Come dire bisogna avere il coraggio di osare, di affrontare il mondo con tutti i suoi drammi e problemi, senza paura, ma con il coraggio e la forza dell’amore che viene dal Signore.

“È necessario uscire da se stessi — ha detto il Papa — e da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo ‘uscire’, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana”.

“Dio — ha aggiunto —  non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. E Gesù non ha casa, perché la sua casa è la gente”.

Un appello, quindi, ad uscire e andare verso quelle “periferie dell’esistenza” che Bergoglio più volte ha ricordato in questi giorni.

Capiamo bene questa nuova categoria teologica, sociologica, umanitaria che Papa Bergoglio ci sta proponendo ripetutamente ai cristiani di oggi.

 

A partire dai primi anni sessanta i due concetti correlativi di ‘centro’ e ‘periferia’ sono stati ampiamente utilizzati nell’analisi politica. Tuttavia, mentre il loro rapporto è stato interpretato in molti modi, la loro applicazione allo studio della politica non è stata esente da critiche. Sono stati espressi dubbi sulla loro sottigliezza concettuale e sul loro valore esplicativo. Il più delle volte, comunque, tali critiche hanno poggiato su un’interpretazione troppo strettamente geografica di centro e periferia, mentre centro e periferia non sono solo concetti spaziali: essi costituiscono un paradigma che denota gli elementi geografici di differenziazione sociale e di divergenza politica, cioè le origini e le basi territoriali di raggruppamenti politici, i cui interessi possono anche essere economici e/o culturali. In altre parole, non si può sostenere semplicemente che le diverse convinzioni politiche e i diversi comportamenti politici, riscontrabili in territori differenti, dipendano da caratteristiche intrinseche di unità puramente spaziali e a queste siano circoscritte. Il territorio in quanto tale è un concetto politicamente neutro; diventa politicamente significativo in virtù dell’interpretazione e del valore attribuitigli dalla gente, e di conseguenza diventa “un concetto creato dalla gente che organizza lo spazio per i propri scopi”.

Il paradigma centro-periferia riguarda quindi il grado di distanza sia geografica che sociale dall’asse centrale di una società e può riferirsi tanto al territorio quanto ai gruppi sociali. La distanza può essere psicologica oltre che fisica, e può così ingenerare, nella periferia, sentimenti di dipendenza verso quei luoghi/gruppi che diffondono i valori e le norme dominanti della società, e viceversa sentimenti di superiorità tra coloro che vivono al centro.

Sono vari i tipi di periferia a carattere sociali che si analizzano nelle scienze umane. Il tipo di periferia più ovvio è la periferia esterna, che è in genere geograficamente lontana dal centro ed è esposta all’influenza di un solo centro. In Europa periferie di questo tipo si trovano generalmente ai margini del continente e tendono a essere arretrate economicamente, meno vitali o non sviluppate affatto.

Diametralmente opposte alle periferie esterne sono le periferie interfaccia. Si tratta di territori marginali che si trovano in mezzo a due o più centri dominanti appartenenti a Stati diversi. Anche se sono collegate in qualche modo con tutti i centri limitrofi, queste periferie non sono mai pienamente integrate in nessuno di essi.

Si possono individuare altri due tipi di periferie: i centri falliti e le periferie enclaves. I centri falliti sono territori  che in passato praticarono l’imperialismo temporale costruendo proprie strutture centrali, ma che successivamente dovettero cedere di fronte a più efficaci iniziative di annessione promosse da altri centri. Nella fase imperialistica i centri falliti hanno creato un’infrastruttura istituzionale a sostegno della propria legittimità e della propria identità. Nella misura in cui elementi di questa infrastruttura sono sopravvissuti all’annessione, possono contribuire a conservare i confini tra periferia e centro.

Le periferie enclavi, infine, a prescindere dalle loro caratteristiche specifiche, hanno in comune di essere completamente circondate dalla cultura dominante. Dato questo accerchiamento geografico, le enclavi sono sottoposte alla pressione costante delle istituzioni centrali e la loro capacità di sopravvivere è probabilmente minore di quella degli altri tipi di periferia.

Quattro tipologie, quindi, di periferie: esterna, interfaccia, i centri falliti, le enclave.

Tali tipologie sociologiche ci rimandano indirettamente a quattro tipologie di periferie umane e pastorali. La periferia esterna, quella che non interessa o la si vede marginalmente in un progetto pastorale e di vicinanza alle persone in difficoltà. La periferia interfaccia, in cui l’impegno pastorale è più diretto ed immediato e gli operatori pastorali interagiscono con l’ambiente e lo migliorano con il loro umile servizio, disinteressato. I centri falliti, in cui tutte le iniziative di carattere pastorale sono stati posti in essere, ma non hanno raggiunto l’obiettivo proposto ed individuato. Tanti i fallimenti da questo punto di vista, soprattutto perché non sempre il progetto pastorale è seguito ed accompagnato bene. Infine, le enclavi, una sorte di zone felici e produttive a livello pastorali e spirituali che sono chiuse in se stesse e pur funzionali non contribuiscono al bene complessivo dell’area. Penso alle poche parrocchie efficienti e operative che restano isole felici in certe realtà metropolitane ove la povertà e la miseria morale e spirituale è enorme e alla quale non si riesce a far fronte.

A tal proposito, scrive don Luigi Ciotti, il prete che ha fatto delle periferie dell’esistenza umana, segnata dalla droga, dalla violenza, dall’ingiustizie il suo fondamentale impegno apostolico anche attraverso la sua associazione “Libera”:  “L’invito di Papa Francesco ad «annunciare il Vangelo nelle periferie» è un’esortazione profetica. Nelle sue parole la «periferia» è un luogo al tempo stesso geografico e spirituale. Così come ci sono le periferie urbane, luoghi di esclusione e di povertà, c’è una periferia dell’anima che va abitata con la prossimità, con l’accoglienza, con una solidarietà che abbia come fine la giustizia sociale, il riconoscimento della centralità e della dignità di ogni persona. È per questo che l’esortazione del Papa ha un carattere profetico e, in senso lato, politico. Una Chiesa che abbia a cuore il destino di tutta l’umanità non può sottrarsi alla provocazione e alla «convocazione» delle periferie. Deve saper trasformare spazi abbandonati in luoghi di opportunità, di una convivenza fondata sul rispetto dei diritti e della dignità di ciascuno. L’attenzione del Papa per i poveri, più che per la dottrina, il suo presentarsi semplice e dimesso, il suo rifiuto di ogni ostentazione e di ogni lusso fanno bene sperare in un forte impegno in questa direzione. Non possiamo infatti costruire speranza se non partendo da chi dalla speranza è stato escluso, dai tanti disperati che affollano la faccia di questa terra. Sono i poveri a offrirci le coordinate sociali, etiche, politiche, economiche del nostro impegno. È a partire da loro che possiamo sperare di nuovo. Perché la speranza o è di tutti o non è speranza.

LA PASQUA AL SANTUARIO DELLA CIVITA

DSC05116.JPGIniziate le celebrazioni pasquali con la Via Crucis presieduta dall’Arcivescovo di Gaeta, mons. Fabio Bernardo D’Onorio, al santuario diocesano della Civita, in Itri (Lt), affidato alla cura spirituale e pastorale dei passionisti, in questi giorni di Pasqua è stato un susseguirsi di presenze numericamente rilevanti alle celebrazioni, durante le quali i fedeli si sono accostati ai sacramenti della confessione e della comunione, partecipando alle varie messe in programma dalla prima mattinata fino alla tardi serata. I fedeli provenienti dalle varie parti del Lazio, della Campania e dell’Italia si sono radunati ai piedi della Vergine Santa, soprattutto per pregare e chiedere grazie per se stessi e per gli altri. Anche il Santuario della Civita, come tanti altri luoghi di culto, soprattutto mariani, ha beneficiato dell’effetto dell’elezione del nuovo Papa, Francesco Bergoglio, per cui l’afflusso al Santuario è stato continuativo soprattutto nel triduo pasquale, nella Domenica della Risurrezione ed oggi, Lunedì dell’Angelo. I sei sacerdoti passionisti impegnati al servizio del Santuario in questi giorni di festa hanno garantito a tutti il sacramento della confessione, amministrando la misericordia di Dio, come ha ricordato Papa Francesco, con abbondanza di doni spirituali, registrandosi profonde conversioni del cuore e della vita. La Pasqua quale mistero di vita e risurrezione è molto avvertita al santuario mariano della Civita che ha una storia di oltre 1000 anni. La fede popolare, la devozione sincera alla Madonna spingono molti fedeli in questi giorni di festa a fare 50-60 Km a piedi per raggiungere il santuario, quale forma personale di conversione e rinnovamento spirituale. Anche nella giornata di pasquetta, nonostante il tempo inclemente al Santuario della Civita sono arrivati migliaia di fedeli che hanno vissuto nella preghiera la vera esperienza della Pasqua, che è dono di grazia e di riconciliazione. Per tutta la settimana in Albis il santuario funzionerà a pieno regime nel servizio ai fedeli che continueranno a raggiungere la struttura situata al circa 800 metri sul livello del mare, a 15 Km dalla città di Itri, nel cui territorio entra il Santuario e a 30 Km da Gaeta e Formia.

 

ITRI (LT). LA CELEBRAZIONE DELLA SETTIMANA SANTA DAI PASSIONISTI

SETTIMANASANTA2013.jpgPADRI PASSIONISTI

 CONVENTO DI ITRI-CITTA’ (LT)

 

FUNZIONI RELIGIOSE

DELLA SETTIMANA SANTA

ANNO 2013

 

DOMENICA DELLE PALME – 24 MARZO 2013

ORE 8.00: NEL PIAZZALE BENEDIZIONE DELLE PALME

PROCESSIONE E SANTA MESSA CON LETTURA DEL PASSIO

ORE 17.00: MESSA DELLA DOMENICA DELLE PALME

 

LUNEDI’ SANTO – 25 MARZO 2013

ORE 7,00 ROSARIO- ORE 7,30 MESSA FERIALE

 

MARTEDI’ SANTO  – 26 MARZO 2013

ORE 7,00 ROSARIO- ORE 7,30 MESSA FERIALE

 

MERCOLEDI’ SANTO – 27 MARZO 2013

ORE 7,00 ROSARIO- ORE 7,30 MESSA FERIALE

ORE 18,30: MESSA CRISMALE A GAETA CON IL VESCOVO

 

GIOVEDI’ SANTO – 28 MARZO 2013

ORE 9,00-12,00: CONFESSIONI

ORE 18.00: MESSA IN COENA DOMINI

ORE 20,00-24.00: ADORAZIONE EUCARISTICA

 

VENERDI’ SANTO – 29 MARZO 2013

ORE 9,00- 12,00: CONFESSIONI

ORE 17,00: COMMEMORAZIONE DELLA PASSIONE DI GESU’

 

SABATO SANTO – 30 MARZO 2013

ORE 9,00-12,00; 16,00-19,00: CONFESSIONI

ORE 20,00: VEGLIA PASQUALE

CELEBRAZIONE EUCARISTICA DELLA RISURREZIONE

 

DOMENICA DI PASQUA – 31 MARZO 2013

ORE 8.00: MESSA SOLENNE DI PASQUA

ORE 18.00: MESSA DI PASQUA

 

LUNEDI’ IN ALBIS – 1 APRILE 2013

ORE 7,00: SANTO ROSARIO- ORE 7,30: MESSA DELL’ANGELO

 

Augurissimi Papa Francesco!

PapaFrancesco.jpgPapa Francesco, Jorge Mario Bergoglio ha 76 anni, è un religioso gesuita ed è il primo papa di questa Congregazione religiosa. Nato in una famiglia di origine piemontese, proveniente da località Bricco Marmorito di Portacomaro Stazione, frazione di Asti non lontana da Portacomaro, è figlio di Mario Jose, funzionario delle ferrovie, e di Regina Maria Sivori, una casalinga con sangue piemontese e genovese. Durante gli anni giovanili ha studiato dapprima come perito chimico, lavorando per qualche anno e avendo una fidanzata. Decide poi di entrare in seminario, quindi nel 1958 comincia il suo noviziato nella Compagnia di Gesù, trascorrendo un periodo in Cile e tornando a Buenos Aires per laurearsi in filosofia.
Dal 1964 ha insegnato per tre anni letteratura e psicologia nei collegi di Santa Fe e Buenos Aires, ricevendo poi l’ordinazione sacerdotale il 13 dicembre 1969.
Dopo altre esperienze di insegnamento e la nomina a Superiore Provinciale dell’Argentina (dal 31 luglio 1973 al 1979) è stato rettore della facoltà di teologia e filosofia a San Miguel e, nel 1986, è stato in Germania per il completamento del dottorato, prima del ritorno in patria, nella città di Córdoba, dove è diventato direttore spirituale e confessore della locale chiesa della Compagnia di Gesù.
Il 20 maggio 1992 è nominato vescovo ausiliare di Buenos Aires e titolare di Auca.
Il 3 giugno 1997 è nominato arcivescovo coadiutore di Buenos Aires. Succede alla medesima sede il 28 febbraio 1998, a seguito della morte del cardinale Antonio Quarracino. Diventa così primate d’Argentina. Dal 6 novembre dello stesso anno è anche ordinario per i fedeli di rito orientale in Argentina.
Dopo la nomina cardinalizia da parte di papa Giovanni Paolo II, il 21 febbraio 2001 con il titolo di San Roberto Bellarmino, è stato eletto a capo della Conferenza Episcopale Argentina, carica ricoperta dal 2005 al 2011. Bergoglio è stato da sempre considerato uno dei candidati più in vista per l’elezione a Pontefice nel conclave del 2005.
La ricostruzione più puntuale del conclave del 2005, raccolta dal vaticanista Lucio Brunelli, e che consiste nel diario di un cardinale elettore, indica in Bergoglio il cardinale più votato dopo Ratzinger.
La sera del 13 marzo 2013 è stato eletto papa assumendo il nome di Francesco. È il primo papa ad assumere tale nome, il primo gesuita a divenire papa e il primo pontefice sudamericano.
Nel suo primo discorso nelle vesti di vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica, innanzitutto ha chiesto di pregare per il papa emerito, Benedetto XVI, recitando insieme a tutti i fedeli la preghiera del Padre Nostro, dell’Ave Maria e del Gloria al Padre. Ha poi chiesto ai fedeli di pregare anche per lui, sottolineando questo momento chinando il capo e rimanendo in silenzio per qualche istante; ha poi impartito la benedizione Urbi et Orbi in latino, concedendo l’indulgenza plenaria. Si è presentato alla folla senza mozzetta nè rocchetto. Solo al momento della benedizione il nuovo pontefice ha indossato la stola, che poi ha subito tolto.

ECCO IL PRIMO DISCORSO DEL NUOVO PAPA

Fratelli e sorelle, buonasera!

Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo … ma siamo qui …

Vi ringrazio dell’accoglienza.

La comunità diocesana di Roma ha il suo Vescovo: grazie!

E prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito, Benedetto XVI.

Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca.

[Recita del Padre Nostro, dell’Ave Maria e del Gloria al Padre]

E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo.

Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese.

Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi.

Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro.

Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza.

Vi auguro che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo e nel quale mi aiuterà il mio Cardinale Vicario, qui presente, sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella!

E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo.

Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me. […].

Adesso darò la Benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

[Benedizione].

Fratelli e sorelle, vi lascio.

Grazie tante dell’accoglienza.

Pregate per me e a presto!

Ci vediamo presto: domani voglio andare a pregare la Madonna, perché custodisca tutta Roma.

Buona notte e buon riposo.

In preghiera per 24 ore per l’elezione del nuovo Papa

cardinali20.jpgP.Rungi. Ventiquattro ore di preghiera per l’elezione del nuovo Pontefice

E’ inziata alle ore 19.00 di questa sera la giornata di preghiera “24 Ore Pro erigendo Romano Pontifice” promossa su Facebook e Twitter da padre Antonio Rungi, in attesa della elezione del nuovo papa. A tutti fruitori di Fb padre Rungi ha chiesto di pregare a turno liberamente fino a quando, domani sera, alle ore 19.00 è prevista la prima fumata per l’elezione del nuovo Papa. “Tutti ci auguriamo che possa essere bianca -scrive nel suo profilo di Fb padre Rungi – e che i cardinali abbiano raggiunto già un’intesa su chi eleggere per portare avanti il peso non leggero della barca di Pietro, in questo momento storico difficile, ma anche carico di attesa, che riguarda la chiesa con l’elezione del nuovo pontefice”. Già dai primi minuti di lancio della iniziativa, padre Antonio Rungi ha ricevuto vasta adesione da parte dei credenti che usano internet anche per uno scambio di intenzioni di preghiera e di sostegno spirituale reciproco. Qualora domani sera non ci sarà il nuovo Papa, l’iniziativa continuerà in modo ininterrotto fino alla proclamazione dell’Habemes Papam che non dovrebbe arrivare molto tardi, è quando si augura il mondo cattolico in questo momento importante per la Chiesa. “La nostra preghiera è anche per il Papa emerito, Benedetto XVI, che sicuramente in queste ore di vigilia sarà particolarmente impegnato nella preghiera personale, perché si giunga ad un’intesa ed unione all’interno del collegio cardinalizio”. Il sacerdote ha anche composto una preghiera per l’elezione del nuovo pontefice, che quanti aderiscono all’iniziativa recitano personalmente o in gruppo ogni 15 minuti in successione temporale, senza soluzione di continuità. Una speciale catena di preghiera per arrivare al fatidico “Habemus Papam” già forse tra 24 ore esatte.

Ecco il testo dell’orazione:

Signore, che doni la tua grazia  a quanti confidano in Te, 

ti preghiamo umilmente, 

donaci quanto prima il nuovo Romano Pontefice. 

 

Dona al nuovo pastore universale della chiesa, 

una lunga e salutare vita apostolica, 

per il bene del popolo di Dio e dell’intera umanità. 

 

Nel costante servizio alla verità, alla vita,  

alla giustizia e alla pace universale, 

fa che ogni sua parola, proclamata nel Tuo nome, 

possa raggiungere il cuore di quanti credono, 

e di quanti non credono,  

di quanti sono artefici delle sorti delle nazioni  

e di quanti sono operatori di violenza di ogni genere. 

 

Non permettere, Signore della vita e della storia, 

che il nuovo successore di Pietro,  

in questo inizio del suo ministero petrino, 

soffra a causa della poca fede nella chiesa e nel mondo, 

della scarsa carità non vissuta dai piccoli e dai grandi, 

dell’assenza della speranza che più non alberga 

nel cuore del genere umano. 

 

In questa tappa importantissima  

della storia della chiesa e dell’umanità 

dona al nuovo Papa la serenità, la pace, 

il sorriso e la gioia di vivere da uomo di Dio,  

quale pastore universale della chiesa santa e peccatrice, 

sparsa su tutta la terra e in cammino verso i pascoli eterni. 

 

Conservalo nelle energie fisiche, umane e spirituali,  

perché possa svolgere al meglio 

il suo alto magistero in mezzo all’umanità, 

segnata da tanti dubbi, incertezze e smarrimenti, 

perché la sua parola, pronunciata nel Tuo nome, Dio di verità, 

ne possa illuminare la strada e indicarne la direzione finale. 

 

Dona, o Signore, al Nuovo Papa,  

che portiamo già nel nostro cuore 

e già vogliamo bene profondamente, 

la tua santa benedizione dal cielo,  

e per intercessione della Vergine benedetta, 

concedi a lui il vigore spirituale 

per far camminare secondo il tuo cuore 

l’immenso popolo cristiano tra le vicende del mondo. 

 

Possa il suo cuore e la sua mente,  

di sapiente ed oculato Maestro e Pastore, 

godere di una lunga e serena vita, 

come semplice e umile dispensatore della Parola del Signore. 

Amen.

Padre Antonio Rungi, passionista

I racconti più recenti di padre Antonio Rungi

La croce del porto

Per la gente del porto era la croce dei giovani. Quella croce, altra circa 20 metri, sul modello dei tralicci che oggi si usano per i ripetitori Tv o dei telefonini, era stata collocata al centro della piazza del porto di una piccola isola del mare nostrum. Alla sera, specialmente d’estate, si radunavano intorno ad essa centinaia di giovani per discutere, per mangiare una pizza, per giocare e qualcuno anche purtroppo per drogarsi. Un giorno capitò una tragedia, che fece discutere il paese intero e pose la quastione se continuare o meno a tenere quella croce in mezzo al piazzale del porto turistico della città. Infatti, durante una delle bravate che i giovani usano fare per mettersi in mostra, una notte un giovane arrampicandosi su quella croce di tubi innocenti cadde a terra e morì. Aveva battuto violentemente la testa sul basamento in cemento armato, del scondo scalino, che era a tre gradini quadrangolari ed aveva un preciso significato teologico, indicando così la Santissima Trinità ; come la Divinità nella sua interezza era presente nel mistero della salvezza, nel momento in cui Gesù Cristo moriva per la salvezza del mondo in quell’unico storico venerdì di passione e morte.

Il primo gradino, quello più grande, che si ergeva da terra era dedicato al Padre, il secondo, più stretto, era dedicato al Gesù Cristo, il terzo più piccolo ancora era dedicato allo Spirito Santo. I nomi della Trinità erano stati scritti e incisi nel cemento armato con cui era stato realizzato il piedistallo della croce del porto. Quando nella notte arrivarono i carabinieri è costatare il decesso del giovane e soprattutto la folla che aveva saputo la notizia e si era raccolta numerosa intorno alla croce del porto, tutti notarono dove aveva battuto la testa e morto il giovane ragazzo, che faceva uso di droga: sul secondo scalino. Le riflessioni e le considerazione al riguardo si moltiplicarono all’istante e nei giorni successivi.

In quell’isola il giovane viveva con i nonni paterni, dal momento che il papà era un marittimo e praticamente non c’era mai su quell’isola; la madre aveva preso un forte esaurimento nervoso e veniva curata sul continente presso una struttura per malati mentali. I due nonni erano piuttosto anziani e controllavo poco l’unico nipote che avevano e non comprendevano affatto se il giovane facesse uso di sostanze stupefacenti. Certo notavano che in casa mancavano frequentemente dei soldi e che lo stesso Nico, questo il nome del giovane, chiedeva continuamente denari per motivi di studio, frequentando un istituto superiore in una scuola vicina al suo paese d’origine.

Quella morte violenta e tragica lasciò nella popolazione locale un terribile dubbio: forse quella croce era una tentazione per i giovani e quindi era meglio che venisse abbattuta e rimossa.

Una sottoscrizione partì in tal senso tra alcuni cittadini che da sempre avevano visto di malocchio la presenza di questo simbolo di culto della fede cattolica.

La sottoscrizione raggiunse un buon numero di adesioni e pertanto venne discussa in un consiglio comunale aperto al pubblico. Il sindaco e i consiglieri discutevano sulla questione e tra loro non c’era accordo, come in tutte le cose politiche. Ad un certo punto il sindaco chiese ai cittadini presenti se qualcuno volesse intervenire e parlare a nome dei cittadini, di quelli che non avevano firmato la sottoscrizione. Mentre calò il silenzio su tutta l’assemblea, tra i presenti una piccola mano si alzò per chiedere la parola. Era un bambino delle scuole elementari del paese che pure durante il giorno insieme ai compagni di classe ed ai suoi amici si trovavano insieme presso la Croce del porto per giocare e parlare, perché quello era l’unico ritrovo dei giovani della città. Il ragazzo con grande coraggio disse esattamente le cose come stavano: “Non è colpa della croce, ma è colpa nostra se ci comportamo male e succedono fatti gravi”. Ed aggiunse: “Abbiamo fatto un sondaggio tra noi ragazzi e tutti siamo contrari alla rimozione della croce, perché per noi è una compagnia e soprattutto una protezione”. Espresse la solidarietà ai nonni del ragazzo morto, perché neppure in quella circostanza di lutto, i due genitori si erano fatti vivi, e chiesero che venisse respinta la petizione popolare e che la croce continuasse a restare li.

Dopo tale intervento ce ne furono altri cento del genere, tanto che il consiglio comunale iniziato alle tre del pomeriggio continuò senza soluzione di sosta, fino alle tre di notte. Dopo aver ascoltato i vari interventi dei cittadini, il sindaco mise a votazione la questione: votare o meno l’abbatimento della croce del porto. Tutti i consiglieri furono contrari e la demolizione non passò. Al contrario si decise di fare della croce del porto un momumento alla memoria del giovane morto. E da quel giorno non si chiamò più la croce dei giovani, ma la croce di Nicola.

Un ultimo providenziale prrovedimento del consiglio comunale per evitare che ci fossero altri incidenti. La croce fu messa in sicurezza, ricordando essa uno storico evento per quella città, di 100 anni prima, alla cui memoria era stata eretta dall’amministrazione del tempo.  

Si reallizzò una inferriata protettiva di tutta il basamento della croce in modo che i ragazzi non potessero salirvi sopra. L’inferriata veniva aperta due volte l’anno: nell’anniversario della morte del ragazzo morto e in Venerdì Santo, quando la Via Cruci si fermava alla Croce del porto per la XII stazione, in cui si ricorda la morte in croce di nostro Signore. Ed ogni anno in quella circostanza tutti ricordavano nella preghiera il giovane morto ai piedi della croce sul secondo gradino dedicato al Figlio di Dio.

Con Cristo morto in croce, tutti dobbiamo fare i conti. Bisogna battere la testa con questa pietra angolare per capire il vero senso della vita umana.

 L’edicola della Vergine Maria

Aveva almeno 300 anni di vita e di storia ed era sistemata in un posto centrale dell’antico borgo mediovale del paese.

Da lì passava praticamente tutta la gente, ogni mattina, dai più piccoli ai più grandi e per tutti quella piccola edicola della Beata Vergine Maria con bambino era un buon auspicio per la giornata.

C’era chi si faceva la croce e sostava un attimo a pregare e poi con la mano a toccare quelle bellissime piastrelle di maiolica che costituivano il mosaico della Madonnina, dolce e tenerissima con Gesù bambino tra le sue braccia, nell’atto di donargli il latte materno.

Altri facevano un semplice gesto del capo in segno di riverenza e saluto e gli anziani invece si toglievano il cappello ed abbassavano la testa in senso di rispetto. Era una liturgia mattutina e diurna, un insieme di lodi e vespri, un vero rito soprattutto di mattutino che lasciavano nel cuore di chi osservava da vicino o da lontano il segno dell’amore verso la Madre del Signore.

Un amore sincero ed un rispetto totale espresso anche attraverso il culto delle immagini sacre.

Una mattina di primavera, quell’icona non c’era più nella sua cappellinna. Era stata portava via da mano sacrileghe, che con mestiere ed esperienza avevano rimosse tutte le piastrelle con componevano la bellissima immagine della Madonna con Bambino.

In quel posto erano impegnati da mesi per lavori pubblici operai che nel loro linguaggio corrente non facevano nulla se non facevano scappare una bestemmia contro Madonna e il Padre Eterno. Anche davanti alla bellissima immagine della Vergine Santa non avevano ritegno di bestemmiare.

Restavano impressionati i bambini che vedevano ogni giorno quello sperpetuo contro la Madonna, i giovani che per quanti si dice comunque sono rispettosi della fede propria ed altrui ed hanno una grande venerazione per la Madre di nostro Signore, gli anziani che per loro quella immagine era familiare e cara e quando la si toccava con la bestemmia scattava in loro un forte risentimento a chi offendeva la religione e il culto delle immagini.

Tra i tanti operai c’erano vari che non credevano affatto o erano di altre sette e confessioni che non ammettono il culto alle immagine sacre. Si pensò subito in paese che potesse essere qualcuno di loro a portare via una immagine della Vergine Santa così bella ed espressiva. Perché si pensava che un cattolico vero oltre a non rubare nulla agli altri, non ruba particolarmente le immagini sacre, perché commette un reato, ma anche un peccato grave.

Sta di fatto che in quella cappellina l’immagine della Madonna con Bambino non tornò più. Ma la cappellina non poteva restare assolutamente così, vuota.

E allora la popolazione di organizzò e fece fare un copia esatta della stessa immagine della Madonna con Bambino e con lo stesso materiale in maiolicato. Il mosaico fu ricomposto anche perché tutti avevano l’immagine della loro Madonnina impressa sulle figurine o sui telefonini. Molti l’avevano messa come immagine di apertura del loro telefono cellulare, in modo che il pensiero fosse costantemente rivolta alla Madre di Dio ogni volta che questo squillava.

Il legame con quella immagine era profondo e solo chi era stato allevato al culto della Vergine Santa e a venerarla con sincerità poteva comprendere il vuoto che aveva lasciato nel loro cuore di ciascuno di loro, chi aveva portato via la loro Madonnina.

Si pregò a lungo per le mani sacrileghe, affinché ritornasse l’immagine originale; ma passarono anni e tutto rimase tale e quale.

La copia che era stata sistemata allo stesso posto, e questo aveva fatto  dimenticare in parte il gravissimo fatto, ma non eliminarlo del tutto dalla coscienza di quel popolo particolarmente devoto della loro Madonna, tanto da dedicare a lei la festa più importante del paese.

Un giorno per puro caso, un operatore ecologico andò a rovistare in mezzo ai detriti di una casa abbandonata e che era ceduta durante una forte scossa di terremoto. Praticamente di quella casa e di quella famiglia non era rimasta pietra su pietra e  ossa su ossa.

Tra le macerie trovò l’immagine spezzettata, come carta, della sua Madonna, senza poterla ricuperarla in toto, in quanto era stata praticamente annientata.

Si cercò anche di rimetterla a posto, ma non fu possibile.

I pochi pezzetti di maiolica di quell’immagine non potevano assolutamente ricostruire tutta la Madonnina, perché mancava la parte più importante: Gesù Bambino.

Una mamma senza il suo figlio, pensò il netturbino, è una vita senza amore e un amore con grande dolore. Ed un figlio senza la madre è una vita dimezzata e senza significato. Maria è Gesù in un inscindibile rapporto di amore e di redenzione, erano il chiaro messaggio a quanti la veneravano in quell’immagine dell’unità e dell’armonia familiare.

Rimettere la Madonna al suo posto, senza Gesù bambino, non sembrò giusto e allora si pensò bene a continuare a venerare la copia della sacra immagine nella sua completezza iconografica.

Perché così era stata realizzata dall’inizio e così doveva giustamente ritornare dopo il sacrilego gesto del trafugamento  fatto da mani indegne di toccare un’immagine sacra, cara a tutta la comunità, anche a chi credente non era.

I piccoli frammenti di quella immagine sacra, con oltre 300 anni di storia da raccontare, furono conservati nel museo della città, a perenne memoria di una vicenda di offesa al culto cattolico delle immagini, che solo una persona arrabbiata con Dio e il mondo intero poteva aver compiuto in una delle notti più oscure della sua vita di buio.

Sarà stata una circostanza, una casualità, ma quella casa in cui fu portata la Madonnina rubata non ci fu mai pace a quanto si seppe dopo il ritrovamento e quella famiglia finì con i suoi componenti sotto le macerie di un terremoto, distruggendo ogni cosa e lasciando visibile solo un pezzetto di paradiso: il doce viso della Madonnina.

  

Il barbone della stazione

 In tre mesi era cambiata radicamente la sua vita. Il fallimento dell’azienda di famiglia di cui era il direttore generale e soprattutto il fallimento del suo matrimonio con Angela, di cui era profondamente innamorato. Due figli piccoli, Luca e Matteo, di 7 e 5 anni, rispettivamente. Dopo il fallimento di entrambi le cose, dovette lasciare casa e paese, per trasferirsi altrove. Il giudice aveva pure stabilito il mantenimento dei figli e della moglie, rimasti senza nulla, anche con la casa ipotecata, ma con il permesso di abitarci. Stefano che provò a trovare lavoro altrove, dopo aver dato lavoro a tutti, non trovò nulla da nessuna parte. Aveva nel suo cuore il desiderio di non far mancare nulla alla sua famiglia. Cosa fare, di fronte alla chiusura totale di prospettive? Trovò una soluzione poco onorevole e non auspicabile per nessuno, anche se rispettabilissima, di fronte ad altre più difficili e problematiche decisioni. Decise di fare il barbone presso la stazione di una grande metropoli del nord. Ogni mattina, di buon ora si alzava e praticamente si travestiva per non farsi riconoscere, dal momento che era una persona in vista, noto ed un volto familiare. Parrucca, vestiti stracciati, barba incolta, una maschera di uomo per nulla riconoscibile, neppure ai più scaltri detective. Appenna arrivato alla stazione si posizionava all’inizio del binario ove arrivavano i pendolari. Evitava i binari della Freccia Rossa e degli Intercity sui quali viaggiavano i ricchi. Il motivo era semplice da capirsi: sono i poveri che aiutano altri poveri, mentre i ricchi difficilmente lo fanno. D’altra parte anche forte della conoscenza del vangelo, lui cattolico convinto, Stefano sapeva benissimo, una volta caduto in disgrazia, su quale versante operare per vivere la sua nuova sfida. La giornata praticamente trascorreva alla stazione a chiedere l’elemosina. Rientrava alla sera con l’ultimo treno delle 18,00, quando le fabbriche e i negozi chiudevano e, terminati i turni, gli operai ed i pendolari facevano ritorno a casa. Aveva per spostarsi un vecchio motorino che aveva fatto aggiustare e con il quale viaggiava senza neppure essere assicurato. Appena arrivava a casa si metteva in ordine, in quel bugigattolo che aveva avuto in prestito da un vecchio amico che abitava lontano e fuori l’Italia. Si era adattato alla meno peggio in quel monolocale a qualche km dalla sua vecchia e bellissima casa di proprietà, ove continuavano a vivere la moglie e i due figli. Ogni giornata riusciva a fare con la raccolta dai 30 ai 40 euro. Tolto qualche panino per lui e lo stretto necessario, il resto lo metteva da parte per dare l’assegno familiare alla moglie ed ai figli per non far mancare loro ciò di cui avevano bisogno. Anche i bambini avevano dovuto ridimensionare le aspettative, dopo che la madre e i parenti avevano detto esattamente come stavano le cose. Stefano soffriva per la mancanza della moglie, ma soprattutto dei suoi due piccoli angeli, una vera tempesta di gioia e felicità quando le cose andavano bene. Ora erano tristi, non tanto per le cose che mancavano, ma perché non potevano vedere il padre. Il tribunale dei minori aveva revocato al genitore la patria potestà, per incapcità di guidare la famiglia. Una sofferenza immensa, un colpo al cuore di questo ex-dirigente e imprenditore dell’Italia bene. Prima di scendere alla stazione, divenuta il luogo del suo lavoro, passava davanti casa per cercare di vedere i suoi bambini. Non gli riusciva mai, perché gli orari non confacevano. Egli doveva arrivare di buon mattino al capofila dei treni dei pendolari perché doveva racimolare qualcosa  per loro. E così succedeva. Nella postazione fissa che aveva preso, ormai la gente che passava di buon mattino o durante la giornata lasciava sempre qualcosa nel cestino che portava con sé e dove i viaggatori lasciano cadere qualche piccolo o più una più consistente mometina. Qualcuno di loro si era riproposto di fare la prima azione buona della giornata lasciando 1 euro al giorno a Stefano, l’ex-industriale, che ora viveva sotto mentite spoglie. Un giorno, ricorda bene il barbone della stazione, fu di quelli che ti restano per sempre nella memoria. Come sempre stava all’inizio del binario per chiedere l’elemosina. Ad un certo momento tra la folla dei pendolari, che correvano fuori della stazione, vede arrivare una giovane signora con un bambino tenuto per mano. A man mano che si avvicinava riconobbe che era la sua moglie e il primo dei suoi figli, che erano vestiti abbastanza bene. Erano scesi in città dal paese per un controllo medico per il bambino. Quando furono a pochi metri e la signora fece finta di non vedere, Luca, il primo figlio di Stefano, disse con candore alla mamma. “Mamma diamo qualcosa a questo signor, vedi in quale condizione si trova?”. La mamma trasse dal suo borsello 1 euro e lo passò a Luca per posarlo nel cestino del barbone. A quel punto guardando negli occhi quel signore, disse spontaneamente. “Papà. Ma tu sei il mio papa?”. “Ti sbagli” replicò Sfefano. Anche Angela aveva capito che sotto quelle mentite spoglie c’era suo marito. Strattonò Luca dicendogli che si era confuso e che doveva camminare altrimenti si faceva tardi per arrivare all’ospedale. Ma il bambino insisteva, che era suo padre. Appena si furono allontanati, Stefano si alzò dalla postazione dell’elemosina e corse nel bagno della stazione e incominciò a piangere senza fermarsi più. Quel giorno smise di chiedere l’elemosina e preso il motorino, ritornò a casa per non farsi vedere in quello stato dalla moglie e dal figlio. Nella sua mente risuonava la voce del bambino che più si allontanava e più chiamava: papà. Uno choc emotivo di quelli che ti segnano la vita. Da quel giorno, Stefano non scese più alla stazione per chiedere soldi e l’elemosina, per una questione di dignità per la sua famiglia. Ormai la moglie lo sapeva come racimolava il poco necessario per mantenerli a tutte e tre. Il giorno seguente Angela, dopo aver accompagnati i bambini a scuola, si recò da Stefano per chiarire la cosa. Entrambi convennero che non poteva andare avanti così e propose a Stefano suo marito di andare a lavorare con il padre di lei in campagna, a fare il contadino, pur di salvare la dignità sua, quella dei bambini e della sua famiglia. Stefano accettò e la giornata lavorativa che pecepiva di 50 euro al giorno con i contributi permise alla famiglia di vivere meglio e a Stefano di non fare una vita da mendicante della stazione per il bene della sua famiglia, ormai perduta ed in parte ritorovata. Angela, infatti, non volle che Stefano ritornasse a casa, ma permise di vedere i bambini e fece in modo che il tribunale revocasse, attraverso il suo legale, il dispositivo sulla patria potestà e sul frequentare i bambini. Un piccolo passo in avanti Stefano lo aveva fatto ed era più sereno, pur ammettendo i tanti errori gestionali che aveva fatto quando era dirigente dell’azienda familiare e faceva sprechi di ogni genere. Investimenti sbagliati, acquisti di auto, amava il lusso, la bella vita, le ferie all’estero, giocare, divertirsi perché i soldì erano tanti. Ma la crisi era arrivata anche per la sua azienda e l’aveva travolto buttandolo sul lastrico e coinvolgendo in questa cattiva gestione tutta la sua parentela e i vari dipendenti. Aveva imparato la lezione, ma dovette lavorare per anni per uscire dall’emergenza. I figli una volta diventati maggiorenni frequentarono regolarmente il papà, mentre Angela decise di rimanere sola e farsi una vita nel campo della professione, essendo ormai un architetto ben avviato.

 

 

La modella

 Da piccola sognava di diventare una delle modelle più belle e richieste, oltre che pagate del mondo. Non c’era dubbio. Era una bellissima ragazza. Tutto a posto per fare questo lavoro e magari anche per partecipare ad uno dei concorsi, quelli che si fanno per essere apprezzate e anche ben pagate. Il suo curriculum professionale si era svolto tutto regolare, aveva superato prove, aveva fatto provini, e si era sempre classificata tra le prime se non la prima in senso assoluto. In lei aumentava la stima e la personale autovalutazione arrivò alle stelle, tanto che nessuno si poteva più avvicinare per parlarle. Era una star almeno nella sua zona, anche se non ancora era decollata a livello nazionale e internazionale. In questo suo desiderio di realizzazione nel mondo della moda o dello spettacolo o della televisione era sostenuta dalla mamma che pure aveva sognato di fare lo stesso discorso, ma non le era stato permesso dai genitori, che la pensavano diversamente da lei. Non mancò anche il sostegno del padre, che pur di accontentare la figlia, con tanta sofferenza, vedeva sfilare la sua bambina, ormai donna, tra ali di uomini, molti dei quali cittadini del luogo. Gli apprezzamenti anche in dialetto locale non mancavano verso la figlia. Ed il padre nel silenzio doveva sopportare tutto, considerato che la figlia ormai si era esposta. Venne il giorno in cui ci furono le selezioni per un concorso importante e tra le aspiranti modelle c’era propria la sua figlia diletta. Doveva trasferirsi dal paese alla capitale per partecipare alle selezioni. La partenza dal paese fu in ritardo e qundi per arrivare in tempo con l’auto, guidata dal fidanzato della ragazza sulla quale c’erano leì e i due genitori, si correva a mille all’ora. Una corsa folle, senza rispettare limiti di velocità, facendo sorpassi azzardati, non considerando i rilevatori di velocità disseminati abbondanti lungo tutto il percorso. Nulla in quel momento era più importante: arrivare in tempo alla selezione, perché sarebbe stata un’ottima occasione per decollare nel campo della moda e dello spettacolo a livello internazionale ed avere un contratto lavorativo considerevole. Tutto bene fino alla periferia della città. I 300 Km di distanza il ragazzo l’aveva percorso in poco più di un’ora, alla media di 200 Km all’ora. Ma il dramma si sarebbe consumato a lì a poco, quando l’auto ad alta velocità in una curva sbandò e andò a sbattere davanti al muro. I sistemi di sicurezza dell’auto non causarono grossi traumi ai viaggianti,. Tutti gli airbag erano scattati e aveva protetti i quattro passeggeri da morte certa. La macchina distrutta e i viaggianti con vari escorazioni e ferite. Chi ebbe la peggio in questo terribile incidente fu proprio l’aspirante modella, che ebbe varie lesioni al viso e ferite più o meno profonde alle altre parti del corpo. Tutti i quattro furono portati in ospedalle per gli accertamenti e per le cure del caso. Tre poterono lasciare l’ospedale alla sera stessa, per la ragazza ci vollero diversi giorni per mettere a posto tutto il suo corpo e soprattutto la sua anima e la sua psiche. Il sogno di una vita si era infranto davanti ad un muro sull’autostrada. Ma da quella triste esperienza usci profondamente segnata, ma altrettanto matura per capire che la vita, vale più di una gara per modelle o di un posto di lavoro nel mondo dello spettacolo e della moda. La bellezza fisica non sempre gioca a favore di chi è in possesso di questo singolare dono di Dio, perché più importante è la bellezza del cuore e dell’anima che se ben curata e custodita ci accompagna per tutta la vita, mentre la bellezza esteriore si deturpa con il passare delle ore, dei giorni, dei mesi e degli anni. Da quel giorno Melissa non gareggiò più, si accontentò di trovare un onesto lavoro e sposarsi con il suo Giorgio, anch’ egli traumatizzato per il grave incidente. La più “suonata” di tutta la vicenda fu la madre di Melissa, che da quel giorno avvertiva un senso di colpa che portò con se fino alla tomba. Melissa ebbe tre bellissime bambine, anch’esse aspiranti miss. Ma come madre ormai forte della triste espienza non forzò la volontà delle sue figlie, né chiedeva di premere sull’acceleratore quando le ragazze viaggiano con i rispettivi fidanzati per partecipare ad un concorso di bellezza. Aveva il terrore che potesse succedere anche a loro, ciò che era successo a lei. Prevenire è meglio che curare si era detto nella sua mente di non più figlia, condizionata dalla madre, ma di madre che amava teneramente le sue figlie e non le esponeva a nessun pericolo né alllo sguardo indiscreto di tante persone che lavorano nel campo della moda e dello spettacolo.

 

Naim l’africano

 Era in quella scuola del Sud il primo bambino di colore che faceva ingresso nella scuola dell’obbligo ed aveva appena sei anni, come i tanti bambini italiani che in quell’anno facevano ingresso nella scuola elementare. Era originario del Benin ed è era un bambino bellissimo e simpaticissimo, sprigionava da tutti i suoi pori la voglia e la gioia di vivere. In quella prima classe della scuola elementare tutti gli altri erano bambini del posto, di colore bianco, e tra loro c’era un bambino dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Di quei bambini figli dei grandi signori delle aree del sud con l’aria della persona superiore. Vestiva benissimo, alla moda, aveva tutti i libri a posto, zaino firmato e tutto il resto di marca. Il bambino nero, pulitissimo, aveva pochissime cose con sé, l’essenziale per la scuola, ma era volenteroso nello studio. Comprendeva perfettamente e subito la lezione delle maestre, che insegnavano su quel modulo di classi elementari. In poche parole divenne subito il primo della classe, attirandosi, da un lato la benevolenza delle maestre, e dall’altra la gelosia del bambino biondo che poco riusciva negli studi. I dispetti quotidiani si rinnovavano ogni giorno e non solo in classe, ma anche durante l’orario del gioco all’aperto e durante la mensa. Qui scattava l’odio raziale del bambino bianco, che era stato mal educato dai genitori, perché essi non amavano per nulla i neri ed erano evidentemente persone per nulla tolleranti verso gli extracomuniari. Quel bambino biondo era cresciuto nell’odio razziale e quindi non vedeva di buon occhio la presenza dell’africano nella sua classe e per di più anche il primo in assoluto negli studi. Un giorno mentre giocavano negli spazi aperti della scuola, il bambino biondo cadde e si ruppe la gamba. Il primo a soccorrerlo fu l’africano che con parole di adulto cercava di incoraggiare e sostenere il bambino biondo nella sua sofferenza, in attesa che arrivassero i genitori e soprattutto l’autoambulanza per portarlo in ospedale. Senza farlo muovere, si accostò a lui e nel suo perfetto italiano che aveva appreso benissimo in pochi mesi, gli raccontava delle storie del suo paese d’origine, proprio quando i bambini cadevano e si facevano male e non potevano arrivare né dottore, né autoambulanza, ma solo la mamma o il padre quando c’erano ed erano capaci. A intervenire in quelle circostanze erano solo le suore missionarie o i sacerdoti missionari che in qualche modo cercavano di lenire il dolore dei piccoli e dei grandi con i pochi rimedi medici che avevano a disposizione. Di racconto in racconto, dopo quasi 10 minuti dall’incidente, arrivarono i due genitori del bambino biondo e trovano l’africano vicino al loro figlio. In un primo momento con la rabbia sul volto pensarono che fosse stato l’africano a far male al loro bambino. Il loro figlio capì dagli sguardi e nonostante il dolore che aveva in quel momento si fece avanti dicendo: “Mamma, papà, grazie a Naim sono qui a soffrire di meno. Lo ringrazio di cuore perché è stato un tesoro con me, mentre i miei compagni sono andati via per paura o per non darmi una mano”. I genitori del piccolo Alex, il bambino biondo, presero tra le braccia Naim, lo baciarono e lo ringraziarono per aver fatto compagnia al loro bambino. Nel frattempo arrivò l’autoambulanza e con tutti gli accorgimenti e la prudenza del caso il bambino fu portato in ospedale, curato ed ingessato. Dovette stare 40 giorni al letto e in casa. Ad andarlo a trovare tutti i giorni a fargli fare i compiti e a spiegare le lezioni ad Alex era Naim, l’africano, che nel colore della pelle del suo amico Alex non vedeva né il bianco, né il biondo dei capelli, né gli azzurri occhi del suo compagno, ma solo un suo caro amico al quale voleva bene. La lezione del piccolo Naim per lo stesso Alex e soprattutto per i suoi genitori fu efficace e da allora in poi, in quella famiglia il razzismo scomparve per sempre dai pensieri e dai comportamenti di quei nobili signori di un paese del Sud.

 

Il pianto del ragazzo

 Era tutto solo nella chiesa della Madonna del Carmine e piangerva a dirotto, davanti al santissimo sacramento dell’altare. Da poco si era conclusa la celebrazione eucaristica, durante la quale il sacerdote, nell’omelia, aveva trattato temi importanti come l’unità della famiglia. Evidentemente il ragazzo era rimasto scosso dalle parole del predicatore e riviveva nel suo cuore il dramma dei genitori separati e rivedeva tutte le volte che tra loro due c’erano stati diverbi e come essi avevano segnato la sua psicologia. Nella chiesa vuota era rimasto il ragazzo e una suora. La quale si avvicina al giovane per chiedere: come mai piangesse. “Niente, sorella”, disse. “Voglio stare un altro poco qui davanti a Gesù, per chiedere lumi sul mio futuro”. La suora lascia il ragazzo a meditare davanti all’altare e continua a fare le sue cose, visto che alla chiesa del Carmine era annesso il monastero delle Carmelitane di vita attiva. A distanza di un’ora ritorna nella stessa chiesa per vedere se il ragazzo era ancora lì a pregare e a piangere. Con grande gioia, nota che non c’era più, era andato via. La suora si accingeva a chiudere la porta della chiesa, quando all’improvviso sopraggiunge novamente il ragazzo con le lacrime agli occhi e con un magone nel cuore.La suora sconcertata e preoccupata dello stato d’animo del ragazzo, pensando che potesse farsi del male, chiede aiuto al sacerdote che era ancora in sacrestia a svolgere il suo ministero di padre spirituale. “Padre correte –grida la suora – un giovane si sente male ed ha bisogno di voi”. Il sacerdote lascia quello che stava facendo, dice alla penitente che stava confessandosi di aspettare un attivo che sarebbe ritornato subito. Va in chiesa e si accosta al giovane che continua a piangere a dirotto. Lacrimoni cadono abbondanti dal viso del giovane.  

“Cosa ti è successo, ragazzo mio” chiede il sacerdote.  

“Nulla padre, ho bisogno di pregare, di stare davanti a Gesù Sacramentato”.  

Al che il sacerdote disse di rimanere li finquando voleva.  

Il giovane rimase ancora un’altra ora davanti al santissimo sacramento e poi usci di nuovo.  

Il sacerdote visto che non c’era più nessuno in chiesa, incominciò a chiudere la porta dell’ingresso, quando all’improvviso nuovamente arriva il ragazzo, che piange fortissimamente e chiede conforto al sacerdote.  

“Cosa è successo?”, domandò il prete.  

“Una cosa terribile”, padre, ho visto mia madre nella macchina di un altro uomo, che non è mio padre, che stava in atteggiamento affettuoso, per non dire altro, con questo uomo. E’ stato un colpo mortale per me. Sono corso in chiesa a pregare, perché non sapevo cosa fare in quel momento. Ho chiesto l’aiuto al Signore. Ho aspettato un’ora e sono uscito con la speranza che mia madre avesse salutato quell’uomo e fosse tornata a casa. Invece non era così. Ogni ora sono uscito, ma lei stava sempre lì. Anche in questo momento sta con quella persona. Se vuole, padre, può rendersi conto personalmente della cosa”.  

Al che il prete: “Ti credo figlio mio, non ho bisogno di verificare nulla. Questi fatti purtroppo capitano sempre più frequentemente ai nostri giorni. Non  ci dobbiamo rassegnare alla situazione che si è creata. Ma ti chiedo cosa possiamo fare?”. 

Il ragazzo, replicò subito al sacerdote. “Tanto per iniziare, non le faccia più insegnare il catechismo, visto che è una sua collaboratrice, padre. Quale messaggio di vita cristiana può dare ai ragazzi che si preparano alla cresima?”.  

Al che il sacerdote. “Non posso che darti ragione figlio mio. L’insegnamento della vita vale più di un anno di catechismo. Tua madre da domani in poi, se è vero quello che dici, non potrà più insegnare ai bambini e tantomeno essere credibile per quello che ti raccomanda di fare a te che sei suo figlio. Ma ti posso chiedere una cosa?, aggiunse il sacerdote. 

 “Certo”, rispose il ragazzo.  

“Quando rientrerai –disse il prete- a casa e vedrai tua madre, fa finta di nulla di quello che hai visto. Aspetta che sia lei a dirti la verità, dal momento che sei l’unico figlio e l’unica persona con cui vive ufficialmente, nascondendo agli occhi degli altri la sua vera condotta di vita”.  

Al che il ragazzo. “E se non dovesse dirmi nulla?”.  

Replicò il sacerdote: “Fai una cosa semplice, evangelica, vai da lei e con un grande gesto di amore e di tenerezza, dille: mamma solo un figlio può amare sinceramente la sua mamma e sola una mamma vera può amare davvero il suo figlio”.  

E chiedele: “Mi vuoi ancora bene?. Se ti dice di sì sappi che sta attraversando un momento difficile della sua vita e tu come figlio devi starle vicino per recuperarla all’amore e alla famiglia”.  

Al che il ragazzo: “Io devo stare vicino a mia madre? Ma deve essere lei ad essere vicino a me”.  

Al che il sacerdote disse al ragazzo: “Chi più capisce, più comprende e patisce. Tu hai capito ora che tua madre non è quella che tu pensavi. Lei ora ha bisogno di te, più che tu di lei. Perché tu hai Gesù e sei corso da Lui in questo momento di sconforto. Lei purtroppo è corsa in braccia di un altro uomo, pensando di aver risolto i suoi problemi interiori. Non è così. Lei sta più male di te ed ha bisogno del tuo amore per uscire fuori da questa situazione di immoralità. Fammi il piacere –disse il sacerdote – ora che esci dalla chiesa e vai a casa, fa come ti ho detto e domani passa a dirmi come è andata”.  

Il ragazzo tornò il giorno dopo dal sacerdote, tutto felice e contento, ringraziando il padre per i buoni consigli che gli aveva dato.  

La mamma in quella sera stessa aveva chiamato il suo amante ed aveva detto che era finito, in quanto era più importante l’educazione dei figli che soddisfare i propri istinti e che era disonesto a svolgere il ministero di catechista, vivendo in quella situazione di immoralità, avendo ancora un marito ed un figlio, non solo sulla carta, ma ancora nel cuore.  

La conversione era avvenuta, frutto anche di quella preghiera e del pianto di quel ragazzo, preoccupato di perdere l’amore della mamma e la sua famiglia per sempre.  

La signora non tornò a fare catechismo, anzi fu lei stessa a dire al prete che non se la sentiva e svuotò il sacco di tutta la situazione personale che si era portata avanti da anni, subito dopo la nascita di quel bambino, ormai ragazzo, che tanta preoccupazione ed ansia le procurava in quanto era l’unico vero bene della sua vita.  

L’errore commesso richiedeva una seria purificazione e il modo per attuarlo fu quello di lasciare la parrocchia, dove la notizia in parte era risaputa, e ritarsi a pregare e a frequentare altri ambienti religiosi, ove non era conosciuta e pertanto poteva continuare a vivere la sua esperienza di fede, dopo una sincera confessione fatta al santuario della Madonna del Carmine, ai cui piedi versò tante lacrime di pentimento e di purificazione.  

Maria ormai si era pentita e incominciava una nuova vita, portando la gioia e il sorriso nella sua famiglia. Fece in modo che anche il marito ritornasse a casa e si ricominciasse tutti e tre insieme l’avventura della vita coniugale e familiare, nella sincerità dei rapporti interpersonali.

 

Il falso cieco 

Un giorno, un uomo non vedente, non conosciuto da quella gente, stava seduto, (come tanti specie di domenica) sui gradini di una chiesa con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: “Sono cieco, aiutatemi per favore”.  

Un signore che stava entarndo in chiesa si fermò a leggere il cartello e soprattutto a controllare quanto aveva finora racimolato. Notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello. Si chinò e versò altre monete. Poi, senza chiedere il permesso a quell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase: “Aiutatemi, perché ho una famiglia e non ce la faccio a vivere, sono senza lavoro”.  

Quello stesso pomeriggio il signore tornò dal finto non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote. 

Il miracolo della solidarietà e della carità si era rinnovato anche davanti a quella chiesa, dove di veri e finti chiechi si alternavano per chiedere l’elemosina ai fedeli che entravano ed uscivano dal luogo di culto. 

Il finto non vedente lo riconobbe e lo ringraziò per la scritta vera che aveva fissato sul cartello. Quel signore rispose: “No devi ringraziarmi di niente.  Ho solo scritto la verità, ben conoscendoti e sapendo le tue condizioni. Questa gente non ti conosce e non sanno chi sei. Ma non devi strumentalizzare coloro che davvero soffrono per la cecità”. Sorrise e andò via. 

Dire la verità, non vergognarsi della propria povertà, chiedere aiuto a chi può darlo è un atto di amore e rispetto verso di se e verso quanti dipendono dalle nostre sorti.  

Certo che non bisogna falsificare le carte o le condizioni di salute per ottenere un beneficio, sapendo di poter agire sulla sensibilità degli altri. 

I non vedenti veri sono in primo luogo ad essere nelle attenzioni delle persone sensibili, ma non bisogna sfruttare questa categoria di persone  per ottenere favori, quali pensioni ed altro, perché alla fine prima o poi i finti invalidi vengono scoperti.  

Ma al di là di questo è soprattutto la coscienza che dovrebbe mordere a chi non ha diritto ad una pensione di invalidità. Lo stesso chiedere l’elemosima fingendosi per cieco, offende la dignità, la sensibilità e la sofferenza di chi cieco è davvero.

 

Il testo della meditazione di questa mattina al Gruppo di Pagani

CENACOLO DI PREGHIERA “TOMMASO M. FUSCO” – PAGANI

RITIRO SPIRITUALE 3 MARZO 2013 – STELLA MARIS – MONDRAGONE

Fede e santità della vita

Tutti siamo chiamati ad essere santi, ognuno secondo il proprio stato di vita. E per aspirare alla santità è necessario avere una carica spirituale fortissima ed una fede convinta e matura, coraggiosa e speranzosa. Partiamo da un dato concreto: non è possibile testimoniare Gesù Cristo, non è possibile educare alla vita bella del Vangelo, come ci ricordano i vescovi italiani nel progetto nazionale che ci sta accompagnando negli ultimi anni, se noi non facciamo un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella nostra vita. E questo perché la santità è anche un racconto… il racconto della mia esperienza viva di Gesù Cristo.

Qualche premessa. 

Che cos’è la santità? E’ la vita nello Spirito di Dio: niente di più, niente di meno.

E che cos’è la spiritualità? E’ la mia esperienza concreta davanti a Dio.

La santità è solo questo, e niente di eccezionale… la vita nello Spirito di Dio. È la vita nuova nello Spirito del Cristo risorto. E la spiritualità è la mia esistenza concreta davanti a Dio: sono quello che sono davanti a Dio, non quello che vorrei essere. In questa ottica la santità è accessibile a tutti. La santità, infatti, è la vita, la crescita nella grazia come ci indica lo Spirito del Cristo risorto; è la grazia battesimale che ci trasforma sin dal nostro primo istante della esistenza. 

Domande di fondo

E’ possibile educare alla santità, parlare di santità in questo tempo di crisi? Ma quando della forza del Vangelo viene meno attraverso il nostro stile di vita? Le nostre chiese, i nostri conventi, le nostre parrocchie hanno ancora qualcosa da dire al mondo e alla società? Si può ancora parlare di santità, di pretesa cristiana, di identità cristiana? Si può essere santi in questo tempo di crisi?

Parto da un’affermazione di Papa Benedetto XVI, che giovedì 28 marzo, alle 20,00 conclude il suo ministero petrino, in seguito alle libere dimissioni date il 11 febbraio 2013, al quale va tutta la nostra gratitudine, che nella sua Lettera Apostolica “La porta della fede”, pubblicata in forma di Motu Proprio l’11 Ottobre 2011, al n. 2 afferma: “capita ormai, non di rado, che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali, politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come a un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene persino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto, nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori del Vangelo, oggi non sembra essere più così nei grandi settori della società, a motivo della grande crisi di fede che ha toccato molte persone”. Questo grande dono della fede non rappresenta più un valore di unità nelle nostre comunità e nella stessa società: quindi questa crisi è sicuramente una crisi di fede. Quindi parlare della santità significa certamente andare a rivedere il nostro percorso di fede, il nostro percorso di incontro con Gesù Cristo. Ogni racconto, anche spirituale, nasce da un’esperienza! Se io faccio un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella mia vita, allora lo posso anche io raccontare. Se Gesù Cristo diventa una dottrina, un rito, una tradizione, anche, se volete, un’identità culturale … e spesso nelle nostre parrocchie si è cristiani per identità culturale, la santità, invece, intesa come via della crescita nello Spirito, richiede un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella propria vita. Quindi annunciare Cristo Redentore non significa parlare di una dottrina, né di un contenuto di una sapienza da meditare. Annunciare significa testimoniare Cristo nella propria vita. Potremo dire che la santità è la testimonianza di Cristo nella propria vita.

Santità e conversione

Tempo di Quaresima, tempo di conversione e di maggiore impegno nella santità. La metanoia, la conversione non è uno sforzo etico, non è una questione di buona volontà, ma come ci ha detto il grande profeta Gioele, nella Prima Lettura della Messa del Mercoledì delle Ceneri, convertirsi è ritornare a Dio con tutto il cuore. Ora si tratta di capire che cosa è il cuore.

Nella Scrittura il cuore è la sede della volontà , della conoscenza, dell’intelligenza, della nostra razionalità. Si pensa con il cuore, si ragiona con il cuore. Nella Scrittura non c’è questa separazione tra fede e ragione, intelligenza e volontà, come nella nostra società moderna.

Nella Scrittura il cuore è la sede dei sentimenti, ma soprattutto della volontà. “Ritornare a Dio con tutto il cuore” significa recuperare unità nel nostro essere ‘persona’.

La santità è esperienza di unità, di comunione con Dio e i fratelli. Il peccato, invece, è un’esperienza di divisione e di separazione da Dio e, ovviamente, anche dai fratelli, dal corpo della Chiesa. “Ritornare a Dio con tutto il cuore” è un cambiamento del modo di agire e di essere, e cambiamento anche del nostro modo di pensare, perché noi non siamo convertiti e, per l’appunto, innanzitutto nel modo di pensare la fede, la parrocchia, il nostro rapporto con Gesù Cristo.

Nel termine “metanoia”, “santità” metteteci quanto più c’è di carnale, di umano, ed eliminate tutto ciò che sa di spiritualità disincarnata.

Nel termine spiritualità, nel termine conversione, mettete tutto ciò che è carnale, perché il cristianesimo è una religione carnale. 

Qual è il proprium della fede cristiana? E’ la Risurrezione … ma la risurrezione di che cosa? La risurrezione della carne, perché oggi molti credono nella risurrezione non si sa di che cosa… dell’anima, dello spirito.

La fede, la mia esperienza con Gesù Cristo passa sempre attraverso delle relazioni. San Francesco, ad esempio, riprendeva sempre qualche frate orante che si infastidiva se qualche altro frate si avvicinava per chiedergli qualcosa, perché non voleva essere disturbato nella preghiera. Noi cristiani non professiamo la salvezza delle anime, ma della persona: non si salvano le anime, ma le persone. Con il tema della conversione occorre recuperare tutta la dimensione antropologica e quindi far cadere tanti idoli nel nostro cammino di fede, nel nostro cammino di santità: l’individualismo esasperante nelle nostre comunità, il carrierismo anche dei fedeli laici nella parrocchia, le gelosie presenti anche nelle comunità cristiane. Se non curiamo queste ferite, cioè se non recuperiamo l’uomo, non ci possiamo presentare da nessuna parte a parlare di Gesù Cristo, proprio perché, in questo caso, non siamo delle persone credibili.

La santità del Beato Tommaso Maria Fusco passa attraverso scelte coraggiose di vita, attraverso la croce, la sofferenza, l’incomprensione.

Santità e missione

La missione è l’annuncio del Vangelo oggi, in ogni contesto, in un mondo che è già cambiato! Il mondo è cambiato, e noi, come Chiesa ce ne siamo accorti in ritardo. La proposta cristiana è sempre più ai margini della nostra società. Quindi non esiste più alcuna pretesa. Noi annunciamo, parliamo di Gesù Cristo, ma sempre con la pretesa di essere riconosciuti, che gli altri ci dicano bravo!. Noi pretendiamo che gli altri ci ascoltino, che gli altri riconoscano che Gesù Cristo è la Verità.

Noi pretendiamo, come religiosi o fedeli laici di essere una fiaccola o una luce, ma sul cammino di chi? C’è chi la luce non la vuole vedere, come c’è chi non vuole nessuno annuncio, chi non vuole essere salvato. Nel concetto di missione, evidentemente, dobbiamo mettere in cantiere una possibile esperienza di fallimento, che non ci deve abbattere, ma che rientra anche nel nostro cammino di santità, di vissuto, di annuncio del Vangelo. Quindi un tema serio da trattare nelle nostre comunità, come anche nelle nostre famiglie, è il tema della marginalità. I cristiani sono ai margini della società. Il servizio socio-caritativo di molte nostre Chiese, di parrocchie, di diocesi, per i poveri, il lavoro delle Caritas, per il mondo laico, non credente, è visto come un’affermazione di potere della Chiesa. La società ci vede come Chiesa ai margini e non riconosce nel nostro impegno per il Vangelo il servizio, ma una forma di potere. Educare, formarsi alla vita bella del Vangelo significa anche mettere in cantiere questa esperienza di fallimento.

Nel concetto di missione mettiamoci anche la parrocchia, che non è la panacea per tutti i mali: parocia significa casa in esilio tra le case in esilio. Non è la casa tra le case: nelle nostre parrocchie la percentuale dei fedeli che partecipano alla vita parrocchiale è il 2-3% in generale nei grossi centri urbani, anche se in varie città si raggiunge, per fortuna, ancora un numero più elevato.

Nell’intuizione del compianto vescovo pugliese, don Tonino Bello, la parrocchia è la fontana della piazza, dove ci deve stare sempre l’acqua: quando incontriamo una fontana senza l’acqua restiamo delusi. La parrocchia è la fontana ove c’è sempre l’acqua fresca che sgorga: c’è chi la usa per rinfrescarsi, per dissetarsi, chi ci gioca un po’… chi la sciupa … chi la guarda e se ne va …

In una parrocchia ci deve stare sempre l’acqua viva. Dobbiamo anche accettare che non tutti verranno alla fontana ad attingere.

In questa esperienza di conversione, dunque, cambiamo anche il nostro modo di pensare, di essere Chiesa, di essere sempre giusti al servizio degli altri.

La santità, dunque, come l’annuncio, la conversione, come la testimonianza, è un problema di fede e di libertà: di fede perché se la fede è dare il cuore, se la fede è camminare dietro il Cristo crocifisso e risorto, allora essa è la santità, la crescita nello Spirito; di libertà perché è una questione di scelta. Mi piace ricordare, al proposito, un teologo del secolo scorso, Karl Rahner, il quale già negli anni ’70 parlava di una sorta di ateismo preoccupato.

Rahner diceva che i cristiani, perché si sentono in minoranza, si sentono emarginati, praticano un ateismo “preoccupato”, cioè la vergogna di testimoniare, di parlare di Gesù Cristo. Ma… noi … a dire il vero, nelle nostre parrocchie parliamo di Gesù, raccontiamo la nostra esperienza di Gesù quando preghiamo, partecipiamo all’eucaristia, insegniamo? Nelle nostre comunità religiose parliamo di Gesù tra di noi, raccontiamo l’esperienza spirituale?

Il nostro approccio alla fede è sempre ancora dottrinale, ci vergogniamo ancora di raccontare la nostra esperienza concreta di Gesù Cristo. Questa vergogna esiste tra i preti, tra i frati, tra i fedeli laici … Noi dobbiamo raccontare la nostra esperienza di Gesù Cristo nella nostra vita: quindi è una questione di fede e di libertà. Il Papa ci dice che viviamo in una società in cui i valori cristiani sono stati messi da parte e, quindi, ognuno pratica una verità, ognuno pratica un percorso di fede di liberazione. Quindi nessuno più si ente obbligato a confrontarsi con la proposta cristiana. Se tu oggi vuoi essere santo vuoi essere un profeta, vuoi essere luce, la prima cosa che devi fare ci devi credere, devi praticare quel percorso e devi andare contro corrente: ecco perché è una questione di libertà. Mi convinco nel tempo che il cammino di conversione che dobbiamo fare come Chiesa è proprio un cammino di libertà, andando contro i luoghi comuni, contro i pregiudizi, i giudizi superficiali, contro il plauso che cerchiamo dalla folla. L’insegnamento di Papa Benedetto XVI con le sue dimissioni dal soglio pontificio ci dicono molto su questo versante.

Spesso valutiamo le nostre parrocchie, il nostro successo pastorale dal fatto che le chiese sono piene o sono vuote: questo è un falso valore. La santità è questione di fede: nella vita bisogna fidarsi di qualcuno: se ci fidiamo di Dio e vogliamo essere dei discepoli, allora saremo anche dei credenti.

Dice Dio in Geremia, capitolo 1, 8: “Io sono con te”, cioè sono sempre dalla tua parte, sono sempre vicino a te, sono presente alla tua vita. Quindi se  ci fidiamo di Dio, allora la nostra vita cambierà di significato.

Due sono le malattie che colpiscono la vita spirituale nostra: la sclerocardia (indurimento del cuore) e l’indifferenza.

Innanzi ai segni dei tempi, ai segni della storia, un cristiano che non si lascia interpellare da certi cambiamenti epocali, da certi segni della società è un ammalato di porosis, di indifferenza, al punto da non essere neanche più un profeta.

Ecco due immagini che possono aiutarci  come cristiani, nel cammino della santità.

La prima immagine è la metafora del vetro: dobbiamo essere persone trasparenti.

Se sono trasparente come il vetro, rifletto la luce, splendo di questa luce, allora sarò significativo nel mondo di oggi, allora potrò educare alla vita bella del Vangelo. Ma se sono opaco non avrò niente da dire.

Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, parla del volto di Cristo nella Chiesa e la Chiesa come volto di Cristo. La Chiesa attraverso il peccato opacizza il volto di Cristo. Il falso moralismo non ci rende credibili, e questo è vero anche per chi esercita autorità.

L’altra immagine è quella del giardino. I Padri della Chiesa hanno riletto il fatto che Adamo è collocato nel Giardino dell’Eden con l’idea che quel Giardino è Cristo. Adamo, anche dopo il peccato non viene scacciato dal Giardino, ma viene ricollocato nel Giardino che è Cristo. Questo significa che dobbiamo veicolare attorno all’uomo una santità, un cammino spirituale, un cammino di annuncio. Un cammino di annuncio che non gira attorno all’uomo non è vero ed autentico. Quindi l’immagine del Giardino significa che noi dobbiamo prenderci cura dell’uomo. Al riguardo, nella Lettera agli Ebrei si parla del Figlio di Dio sacerdote eterno, Gesù Cristo, che si è preso cura della stirpe di Abramo.

Girare attorno all’uomo: la santità passa sempre per un discorso che è antropologico. Adamo non è cacciato dal giardino, ma è messo nella storia della salvezza. La Chiesa deve prendersi cura di Adamo, cioè orbitare attorno all’uomo, alle nuove esigenze antropologiche. Evangelizzare, formarsi, convertirsi, essere santi è imparare a girare intorno all’uomo, conoscere le nuove frontiere antropologiche dell’umanità.

La metafora del giardino e del vetro denunciano, forse, un problema di crisi di fede, alcuni mali del nostro agire da cristiani, l’individualismo, il trionfalismo, il fideismo. Non è possibile che in una comunità cristiana ci sia un vuoto di formazione spirituale e dottrinale.  Questo è un problema di fede, perché se non so cosa mi dà la mia religione, posso aderire facilmente ad un’altra religione. Se non conosco il proprium della mia fede… Quale prodotto mi offre il cristianesimo?, ci chiediamo quasi in termini commerciali. Quali risposte mi offre. Se non so cosa è la risurrezione della carne allora posso cadere in una sorta di relativismo, in qualsiasi momento della nostra vita.

Allora cosa dobbiamo fare?

Dobbiamo tentare di essere anti-segno: questo è il nostro impegno. I Greci cercavano la sapienza, gli Ebrei i segni della sapienza. Noi invece predichiamo Cristo crocifisso e risorto. Quindi non dobbiamo convincere nessuno. Dobbiamo essere anti-segno, ripartire da questa esperienza di marginalità. Ma voi credete veramente che Paolo ad Efeso aveva fondato delle Chiese? Le Chiese di Paolo era quattro case, tre famiglie … Ad Efeso, nell’esempio, chi ascoltava Paolo? Poche persone. Però Paolo annunciava Gesù Cristo, questa proposta di vita nuova, alla persone di buona volontà. Quindi non ci dobbiamo vergognare di Gesù Cristo, né sentirci inferiori a chicchessia, o cercare carrierismo o trionfalismo. Noi siamo essere umani, abbiamo bisogno a volte di certezze: se la chiesa è piena, se ad un incontro vi sono tante persone il parroco è contento … ma non è quello che ci deve dare sicurezza. Anche se ci sono solo tre persone di buona volontà nella nostra parrocchia, noi vogliamo essere anti-segno, andare contro-corrente. Questa è l’unica risposta che noi abbiamo. Ci vergogniamo di annunciare il Vangelo, di predicare la parola della fede, in ogni occasione, dice Paolo a Timoteo, opportuna e inopportuna (2 Tim 1,2). Quindi dobbiamo raccontarci la nostra esperienza vera di Gesù Cristo; dobbiamo fare scelte impopolari e poco seducenti per la società, allontanandoci dalla mentalità di questo secolo. Ad esempio, se una coppia non è preparata, consigliatele di non sposarsi in chiesa; se una coppia viene a ricevere il sacramento della Cresima solo perché si deve sposare, ma ditegli che si possono sposare anche senza il Sacramento della Cresima: essere anti-segno!

Interroghiamoci frequentemente su questa possibilità di essere anti-segno, impopolari, senza avere la pretesa di sedurre le persone.

L’esempio di Tommaso Maria Fusco

Tommaso Maria Fusco, settimo di otto figli, nacque a Pagani (SA), in diocesi di Nocera-Sarno, il 1° dicembre 1831, dal farmacista dott. Antonio, e dalla nobildonna Stella Giordano, genitori di integra condotta morale e religiosa che seppero formarlo alla pietà cristiana e alla carità verso i poveri.

Fu battezzato lo stesso giorno della nascita nella Parrocchia di San Felice e Corpo di Cristo.

Ben presto rimase orfano della madre, vittima dell’epidemia colerica nel 1837 e, pochi anni dopo, nel 1841, perdette anche il padre. D’allora si occupò della sua formazione don Giuseppe, lo zio paterno, il quale gli fu maestro negli studi primari.

Fin dal 1839, anno della canonizzazione di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, il piccolo Tommaso aveva sognato la chiesa e l’altare e finalmente nel 1847 entrò nel Seminario diocesano di Nocera, dal quale nel 1849 uscirà consacrato sacerdote il fratello Raffaele.

Il 1° aprile 1851 Tommaso Maria ricevette il Sacramento della Cresima e il 22 dicembre 1855, dopo la formazione seminaristica, fu ordinato sacerdote dal Vescovo Agnello Giuseppe D’Auria.

In questi anni di esperienze dolorose, per la perdita di persone care alle quali si aggiungeva quella dello zio (1847) e del giovane fratello Raffaele (1852), si sviluppa in Tommaso Maria una devozione già cara a tutta la famiglia Fusco: quella al Cristo paziente e alla sua SS. Madre Addolorata, come viene ricordato dai biografi: «Era devotissimo del Crocifisso e tale rimase sempre».

Fin dall’inizio del ministero curò la formazione dei fanciulli, per i quali in casa sua, aprì una Scuola mattinale, e ripristinò la Cappella serotina, per i giovani e gli adulti presso la chiesa parrocchiale di San Felice e Corpo di Cristo con lo scopo di promuovere la loro formazione umana e cristiana. Essa fu un autentico luogo di conversioni e di preghiera, come lo era stata nell’esperienza di Sant’Alfonso, venerato e onorato a Pagani per il suo apostolato.

Nel 1857 fu ammesso alla Congregazione dei Missionari Nocerini, sotto il titolo di San Vincenzo de’ Paoli, con la immissione in una itineranza missionaria estesa specialmente alle regioni dell’Italia meridionale.

Nel 1860 fu nominato cappellano del Santuario della Madonna del Carmine, detta delle Galline, in Pagani, dove incrementò le associazioni cattoliche maschili e femminili, e vi eresse l’altare del Crocifisso e la Pia Unione per il culto al Preziosissimo Sangue di Gesù.

Per l’abilitazione al ministero del confessionale, nel 1862 aprì nella sua casa una Scuola di Teologia morale per i Sacerdoti, infiammandoli all’amore del Sangue di Cristo: nello stesso anno istituì la «Compagnia (sacerdotale) dell’Apostolato Cattolico» per le missioni popolari; nel 1874 ebbe l’approvazione dal Papa Pio IX, oggi beato. Profondamente colpito dalla disgrazia di un’orfana, vittima della strada, il 6 gennaio giorno dell’Epifania del 1873, dopo attenta preparazione nella preghiera di discernimento, don Tommaso Maria fondò la Congregazione delle «Figlie della Carità del Preziosissimo Sangue». L’Opera ebbe inizio nella Chiesa della Madonna del Carmine, alla presenza del Vescovo Raffaele Ammirante il quale, con la consegna dell’abito alle prime tre Suore, benedisse il primo Orfanotrofio per sette orfanelle povere del paese. Sulla nascente famiglia religiosa e sull’Orfanotrofio, dietro sua richiesta, non tardò a scendere anche la benedizione del Papa.

Don Tommaso Maria continuò a dedicarsi al ministero sacerdotale con predicazione di esercizi spirituali e di missioni popolari; e su questa itineranza apostolica nacquero le numerose fondazioni di case e orfanotrofi che segnarono la sua eroica carità, ancora più intensa specialmente nell’ultimo ventennio della sua vita (1870-1891).

Agli impegni di Fondatore e Missionario Apostolico associò anche quelli di Parroco (1874-1887) presso la Chiesa Matrice di San Felice e Corpo di Cristo, in Pagani, di confessore straordinario delle monache di clausura in Pagani e Nocera, e, negli ultimi anni di vita, di padre spirituale della Congrega laicale nel Santuario della Madonna del Carmine. Ben presto don Tommaso Maria, divenuto oggetto d’invidia per il bene operato col suo ministero e per la vita di sacerdote esemplare, affronterà umiliazioni, persecuzioni fino all’infamante calunnia nel 1880, da un confratello nel sacerdozio. Ma egli sostenuto dal Signore, portò con amore quella croce che il suo Vescovo Ammirante, al momento della fondazione, gli aveva preconizzato: «Hai scelto il titolo del Preziosissimo Sangue? Ebbene, preparati a bere il calice amaro». Nei momenti della durissima prova sostenuta in silenzio, ripeteva: «L’operare e il patire per Dio sia sempre la vostra gloria e delle opere e patimenti che sostenete sia Dio la vostra consolazione in terra e la vostra mercede in cielo. La pazienza è come la salvaguardia e il sostegno di tutte le virtù».

Consumato da una patologia epatica, don Tommaso Maria chiuse piamente la sua esistenza terrena il 24 febbraio 1891.

Sessa Aurunca. Nove secoli di storia della cattedrale.

sessa%20aurunca.jpgNel mese di giugno 2013 il Duomo di Sessa Aurunca, la chiesa madre della Diocesi, la cattedrale dedicata ai Santi Pietro e Paolo compie nove secoli di storia. La costruzione, infatti, fu iniziata  900 anni fa, da probabili maestranze di scuola Casauriense nel 1113 riutilizzando in parte materiali provenienti da antichi edifici d’epoca romana, e consacrata nel 1183. Per ricordare questo storico avvenimento, il Vescovo, monsignor Antonio Napoletano e l’intera comunità diocesana di Sessa Aurunca, ha approntato un articolato programma spirituale e culturale, per dare risalto all’evento, che si connota come un fatto di fede, nell’Anno della fede. Già dal 2 marzo prossimo, sabato infatti, giungeranno in pellegrinaggio alla Cattedrale di Sessa Aurunca i fedeli delle quattro foranie della Diocesi, accompagnati dai parroci. E così per tutti i sabati della Quaresima. I fedeli sosterranno in preghiera nella Chiesa cattedrale, ove si terrà una lectio divina ed una specifica celebrazione, presieduta dal vescovo. Quattro le foranie della Diocesi: Carinola, Cellole, Mondragone e Sessa Aurunca. Il pellegrinaggio inizia con la forania di Carinola e a seguire tutte le altre. I  festeggiamenti per i nove secoli di storia si svolgeranno in occasione della solennità dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno 2013, ma prima e dopo Pasqua si volgeranno una serie di incontri di formazione per comprendere il significato teologico e pastorale della consacrazione della chiesa cattedrale di una diocesi. Quella di Sessa Aurunca è una cattedrale con una particolare storia e configurazione. L’aspetto esterno attuale fu raggiunto nella prima metà del XIII secolo con l’aggiunta del portico e del finestrone posto nella parte alta della facciata. L’interno invece, eliminato il soffitto a capriate già nel Duecento, rimase romanico fino a metà del Settecento quando il vescovo Francesco Caracciolo d’Altamura decise di ammodernarlo secondo i gusti e lo stile dell’epoca, ossia il barocco. Costituisce senza dubbio il più bel monumento della zona aurunca per eleganza di linee ed accuratezza di decorazioni esterne ed interne. La Cattedrale sorge su un’area ove vi era un tempio pagano o cristiano. La facciata è a tre portali – con numerosi fregi a rilievo rappresentanti fatti della storia sacra . Sotto il porticato si aprono i tre portali di accesso alla chiesa decorati con architravi ed elementi marmorei di spoglio. La pianta è a croce latina, a tre navate divise da colonne di diversi materiali.. Anche l’interno è a tre portali, e le navate poggiano su 18 colonne con capitelli di stile corinzio.  La Cripta è ricavata nell’area centrale della Cattedrale con una elegante struttura a volte poggiante su venti colonne di origine romana. Il pavimento della Cripta è a mosaico. Di notevole valore artistico è il “candelabro” per il cero pasquale ed il “pergamo” la cui struttura rettangolare si sostiene su sei colonnine alla cui base vi sono altrettanti leoncini marmorei. Tutto il Pergamo è decorato riccamente, allo stesso modo il candelabro. Nella Cappella del Corpus Domini è posta la bellissima tela della “Comunione degli Apostoli”, ed è oggetto di importanti studi e ricerche. Pregevole è il pavimento musivo del XII secolo nella navata centrale. Di grande valore artistico sono inoltre il candelabro per il cero pasquale ed il pulpito, opere del XIII secolo del maestro Peregrino da Sessa. Il candelabro ha base scolpita con figure a rilievo e inserti di mosaico; il pulpito decorato da mosaico e bassorilievi è a struttura rettangolare, sorretta da sei colonnine che poggiano su leoni di marmo. Nella cappella del Sacramento, da ammirare è la Comunione degli Apostoli di Luca Giordano.

Padre Antonio Rungi cp