Predicazione

P.RUNGI. IL COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

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DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

DOMENICA 13 OTTOBRE 2019

Alzati e va, la tua fede ti ha salvato

Commento di padre Antonio Rungi

La liturgia della parola di Dio di questa XXVIII domenica del tempo ordinario ci offre l’occasione di riflettere in modo più circostanziato sul tema della fede.

Siamo nella scia dei testi del Vangelo di Luca di queste ultime domeniche, che ripropongono con cadenza settimanale il discorso sul credere e della potenza della fede, come è nel caso del Vangelo di oggi che ci presenta il racconto della guarigione di dieci lebbrosi, di cui solo uno torna indietro, dopo essere stato guarito per ringraziare il Signore.

E questo brano chiude proprio con l’invito di Gesù, al lebbroso guarito, quello che ha cambiato totalmente vita, di alzarsi e andare, perché la forte e convinta fede in Gesù lo aveva guarito, ma soprattutto lo aveva salvato.

Infatti, questo brano del Vangelo di Luca pone i nostri passi dentro la terza tappa del cammino che Gesù sta compiendo verso Gerusalemme; la meta ormai è vicina e il maestro chiama con ancora maggior intensità i suoi discepoli, cioè noi, a seguirlo, fino ad entrare con Lui nella città santa, nel mistero della salvezza, dell’amore.

La prima annotazione che Luca fa su Gesù è che Egli in cammino e attraversa la Samaria e la Galilea; si avvicina piano a Gerusalemme. Nel suo andare verso Gerusalemme Egli non lascia nulla di non visitato, di non toccato dal suo sguardo d’amore e di misericordia.

Continuando nella lettura del Vangelo ci viene detto che Gesù entra in un villaggio, che non ha nome e qui incontra i dieci lebbrosi, uomini malati, già intaccati dalla morte, esclusi e lontani, emarginati e disprezzati.

Tali lebbrosi Gli chiedono la guarigione. Egli accoglie subito la loro preghiera, che è un grido straziante del loro cuore e li invita ad andare a Gerusalemme e a presentarsi ai sacerdoti nel tempio. E mentre essi andavano, furono purificati. Li invita quindi a raggiungere il cuore della Città santa, il tempio, i sacerdoti. Li invita al ritorno alla casa del Padre.

E non appena ha inizio questo storico viaggio verso Gerusalemme, i dieci lebbrosi vengono risanati, vengono purificati.

A questo punto succede una cosa che Gesù fa osservare. Uno solo di loro torna indietro per rendere grazie a Gesù e per giunta fa osservare che quello che è tornato indietro è un samaritano, uno che non apparteneva al popolo eletto. A conferma che la salvezza che egli è venuto a portare è per tutti, anche per i lontani, gli stranieri. Nessuno è escluso dall’amore del Padre, che salva grazie alla fede.

Il racconto del brano del vangelo si chiude con due verbi che esprimono cammino di conversione e di rinnovamento interiore: alzarsi ed andare, ovvero risorgere. Solo la fede può farsi risorgere da una condizione di malattia dell’anima e solo la fede spinge a camminare nella vita, nonostante le difficoltà e le croci di ogni genere.

Ce lo ricorda la prima lettura di questa domenica tratta dal secondo libro dei Re, nella quale è raccontata la guarigione di Naaman il Siro, anche lui affetto da lebbra. Una volta purificato tornò dal profeta Eliseo professando la sua fede con queste parole: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”.

Di conseguenza abbandonò ogni forma di idolatria, e si mise a servire il vero ed unico Dio, rivelato a Mosè sul monte Sinai.

Anche qui riscontriamo una forte intenzione di cambiare stile di vita religiosa e quindi di attuare una vera conversione spirituale, che tende verso la manifestazione del culto divino autentico, come quello del popolo d’Israele.

La capacità di testimoniare la fede in Cristo, che ci viene dalla docilità allo Spirito Santo ci viene richiamata, poi, dall’apostolo Paolo nel breve brano della sua seconda lettera all’amico e vescovo Timoteo. In essa Paolo, maestro e compagno di viaggi, non turistici, ma apostolici e missionari,  ricorda a Timoteo che per Gesù Cristo si deve fare ogni cosa, avere il coraggio dell’annuncio, affrontare le prove della vita, subire anche le catene e lo stesso martirio, come egli stesso, sta sperimentando in quel momento.

I limiti umani, la restrizione della libertà personale, come avviene per un detenuto, nella cui condizione si trova Paolo in quel momento, essendo stato imprigionato, a causa del Vangelo, non deve incatenare la Parola di Dio, che viaggia e cammina anche tra le sbarre di un carcere o di un luogo di detenzione forzata. Infatti, lui sopporta ogni cosa “per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna”.

E poi va nel cuore delle verità di fede essenziali per la dottrina cristiana: “Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo”. In opposizione a questo dialogo di intesa e d’amore con il Salvatore, c’è il rinnegamento, l’infedeltà che portano evidentemente la persona religiosa ad allontanarsi da Dio e a vivere senza Dio, come se Dio non esistesse.

Questo comportamento non ci aiuterà ad essere nella grazia e nell’amicizia con Cristo e quindi di sperare nella salvezza eterna.

Si tratta di un forte monito per ricordare a ciascuno di noi che la fede va vissuta, testimonianza con coraggio fino alla morte.

Naaman, il lebbroso del vangelo che torna indietro a ringraziare, Timoteo sono personaggi citati nella parola di Dio di questa Domenica, insieme al profeta Eliseo e all’Apostolo Paolo che vanno nell’unica direzione possibile, quella che dà salvezza e sicurezza, e cioè la direzione di Cristo.

Possiamo, a conclusione di queste riflessioni e considerazioni, elevare la nostra mente a Dio con la preghiera della colletta di questa domenica: “O Dio, fonte della vita temporale ed eterna, fa’ che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo: ogni fratello in questo giorno santo torni a renderti gloria per il dono della fede, e la Chiesa intera sia testimone della salvezza che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio”. Amen.

P.RUNGI. QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA- 31 MARZO 2019

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QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

DOMENICA 31 MARZO 2019

CON L’ UMILTA’ DEL CUORE CHIEDIAMO PERDONO E RICOMINCIAMO

Commento di padre Antonio Rungi

Con la quarta domenica di Quaresima, detta della letizia entriamo nel vivo del cammino di conversione verso l’annuale Pasqua di morte e risurrezione di Cristo, ma anche della nostra risurrezione spirituale in Cristo, mediante la gioia di ritornare al Lui con tutto il cuore, pentiti, come il figliol prodigo del Vangelo di questa domenica. Si tratta di un cammino spirituale ed interiore al quale nessuno di noi può sottrarsi. Ci obbliga il nostro essere battezzati e il nostro essere consacrati alla passione, morte e risurrezione di Cristo.

Questo cammino, spero, che ognuno di voi l’abbia intrapreso da tempo. Siccome i avvicina la Pasqua 2019, se questo cammino di ritorno non è neppure iniziato, sia questo il momento favorevole per farlo, in quanto Dio ci attende a braccia aperte, fin quando non ritorniamo a Lui, come ci ricorda sant’Agostino, in una delle sue più celebri aforismi: O Signore, il mio cuore è inquieto, finché non riposa in Te”. Facciamo riposare questo nostro travagliato, agitato ed afflitto cuore nella bontà e nella tenerezza di Dio, che si fa misericordia e si fa dono per tutti noi, peccatori sinceramente pentiti e riconoscenti a Dio. Prendiamo ad esempio il pentimento del figlio prodigo che ritorna al Padre e chiede di essere nuovamente accolto nel suo cuore e nella sua casa, cioè nella sua misericordia e nella sua chiesa.

Il figliol prodigo che va via dalla casa del Padre è il peccatore che esce dalla comunione con Dio e rompe ogni legame con il Signore, in attesa del ripensamento e del ritorno.

Dio non si stanca di aspettare, fino all’ultimo istante questo ritorno al piena comunione con lui nella grazia nell’amicizia.

E lui ci attende non solo sull’uscio della chiesa, per dargli il perdono qui su questa terra, mediante il sacramento della confessione; ma lo attende sull’ingresso del paradiso, per donargli la felicità senza fine. E’ tempo di ritorno e non possiamo più attendere per convertirci tutti a Dio,

Sta a noi entrare in questo cammino di ritorno a Dio da celebrare continuamente con una forte comunione di grazia e in grazia con Lui.

Il modo per farlo è mettersi nella condizione di quel che realmente siamo: peccatori e perciò bisognosi di perdono e di misericordia di Dio.

Non illudiamo noi stessi e gli altri: siamo tutti peccatori e perciò stesso abbiamo bisogno del suo perdono.

Quel Padre attende con pazienza, ma spera sempre che il ritorno inizi davvero e lo fa scrutando l’orizzonte della storia e del mondo, scrutando l’orizzonte del nostro cuore, spesso privo di quel rosso di sera, che fa ben sperare per l’alba e l’inizio di un nuovo giorno pieno di sole e di grazia del Signore.

Facciamo nostre le parole del figlio pentito: “Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre”.

Ci vogliamo rialzare dalla nostra debolezza interiore, frutto di una mancato assorbimento dei nutrienti essenziali alla vita dello spirito, che sono la preghiera, la penitenza e la carità sincera.

Non bisogna crogiolarsi nei peccati; anzi bisogna riemergere da essi prima che sia troppo tardi, prima che si abbia toccato il fondo del disastro morale più grave.

Non dobbiamo attendere i tempi del figliol prodigo per rinsavire dalle nostre condotte non buone e immorali, oltre che malvagie. Sia ricorrente questa preghiera del cuore, che ci sprona alla conversione: “O Padre, che per mezzo del tuo Figlio operi mirabilmente la nostra redenzione, concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina”.

E non diciamo mai, e poi mai: io sono senza peccato. Che peccato faccio o posso fare? Non dimentichiamo che nessuno di noi è senza peccato e come tali non possiamo giudicare gli altri o scagliare la pietra della condanna che uccide anche i sinceramente pentiti.

Nel cammino verso la Pasqua, ci incoraggi quanto scrive Giosuè nel suo Libro, in merito al popolo eletto: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». La celebrazione della Pasqua a

Gàlgala al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico fu motivo per andare avanti nel cammino dell’esodo. Infatti, il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan”. Dio premia sempre la buona volontà di ogni uomo della terra. D’altra parte nel brano della seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi, ci vengono ricordati alcuni concetti teologici di base: se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Siamo, dunque, ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Noi siamo i portavoce  di Dio, i trombettieri dell’Altissimo, i maestri di musica divina che fanno cantare perfettamente i coristi di quanti credono in Dio. Facciamo sì che questa gioia di vivere e testimoniare il vangelo arrivi attraverso di noi ai nostri fratelli vicini e lontani.

 

P.RUNGI. COMMENTO ALLA SESTA DOMENICA DEL T.O. 17 FEBBRAIO 2019

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VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

Domenica 17 febbraio 2019

Noi benedizione di Dio

Commento di padre Antonio Rungi

La sesta domenica del tempo ordinario ci parla di benedizione e di maledizione, di beatitudini e di guai, di morte e risurrezione.

Le tre letture bibliche con il salmo, partendo dal profeta Geremia è un gioco di opposti, di termini antitetici che ci aiutano a capire dove sta il bene e dove sta il male da evitare sempre e senza mai accondiscendere ad esso.

Attraverso la voce del profeta Geremia, il Signore dichiara “benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia”. Tale uomo, usando un’immagine cara all’ecologia umana e contemporanea “è come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi”. Questo uomo benedetto e protetto da Dio “nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti”. In poche parole, non inaridisce mai spiritualmente, ma è sempre alimentato dalla grazia, che è benessere spirituale per l’anima. Al contrario chi è a rischio di aridità spirituale e umana “è l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore”. Tale persona autoreferenziale e sganciato da ogni riferimento con l’assoluto e l’eterno “sarà come un tamarisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere”. In altri termini, sarà una persona sola e abbandonata a se stessa, nell’assoluta condizione di emarginazione e di improduttività del cuore, incapace come è di vedere e fare il bene.

Anche il salmista afferma che è “beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte”.

Questo primo Salmo sostiene che l’essere umano, spiritualmente elevato, è “come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene”. All’opposto di questi esseri buoni, ci sono i malvagi, “che come pula che il vento disperde”, non hanno speranza e futuro. Infatti, ci ricorda questo salmo che “il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”. Per chi comprende questa lezione di vita e di spirito si regola di conseguenza e si pone totalmente nelle mani di Dio e a Lui solo si rivolge per chiedere aiuto.

Anche l’Apostolo Paolo, nel brano della seconda lettura di oggi ci pone di fronte al dilemma della vita e della morte, partendo dal mistero della morte e risurrezione di Cristo. Infatti, se annunciamo, come è vero, che “Cristo è risorto dai morti, come possiamo poi dire che non c’ è risurrezione dei morti?”. In poche parole, non si può assolutamente dubitare di questa verità di fede fondamentale per il nostro credo. Conclude, san Paolo, dopo, uno stringato ragionamento che “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”.

Da parte sua, il testo del Vangelo di Luca, ci offre ulteriori spunti di meditazione tra il bene e il male, tra il positivo e il negativo, tra la gioia e la sofferenza, tra la beatitudine cristiana e i guai tipici degli esseri umani che confidano solo nella ricchezza, nella potenza economica, nella soddisfazione dei piaceri della carne e del mondo, senza curare il vero benessere spirituale.

I guai annunziati da Cristo per coloro che, a conclusione della loro vita, dovranno, come tutti, rendere conto a Dio, riguardano i ricchi, perché hanno già ricevuto la loro consolazione; i sazi, che hanno pensato a riempire il ventre e lo stomaco, ma non  il cuore e la mente per fare il bene; guai anche a coloro che ridono della vita e degli altri, senza prendere in considerazione la sofferenza altrui e il dolore dei fratelli più deboli e fragili della terra, perché per questi falsi gaudenti arriverà il dolore e il pianto eterno. Chiaro riferimento, come per tutti gli altri, della condanna eterna. Guai pure agli esaltati e per quanti pensano di essere perfetti e cercano solo apprezzamenti e consensi. La fine di costoro sarà la stessa dei falsi profeti, esclusi e ripudiati, messi da parte dalla storia e dalla verità dei fatti. Per queste ed altre categorie di persone negative, nella prospettiva della parola di Dio e del Vangelo, c’è solo da pregare per la loro conversione e saper ringraziare Iddio, perché ancora oggi manda a noi dei santi, dei saggi e dei veri testimoni del Vangelo.

Per cui, legittimamente e con cuore e mente rivolti al cielo, possiamo pregare così, con tutta la comunità cristiana, in questo santo giorno: “O Dio, che respingi i superbi e doni la tua grazia agli umili, ascolta il grido dei poveri e degli oppressi che si leva a te da ogni parte della terra: spezza il giogo della violenza e dell’egoismo che ci rende estranei gli uni agli altri, e fa’ che accogliendoci a vicenda come fratelli diventiamo segno dell’umanità rinnovata nel tuo amore”. Amen.

 

P.RUNGI. LA RIFLESSIONE PER LA QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 10 FEBBRAIO 2019

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V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Domenica 10 febbraio 2019

Ecco, Signore, manda me per annunciare il tuo Vangelo.

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa quinta domenica del tempo ordinario ci aiuta a discernere bene la nostra vocazione cristiana e la nostra vocazione missionaria.

Tutti, in base al Battesimo, siamo inviati ad essere portatori della buona notizia del Vangelo, secondo il proprio stato di vita, dal semplice fedele laico, che vive nel mondo e a contatto con le cose del mondo, ai sacerdoti e religiosi, ai vescovi.

Tutti oggi veniamo interpellati dalla parola di Dio in merito all’impegno di essere profeti in mezzo al popolo, portando la gioia e la speranza nel cuore di ogni persona.

Nella prima lettura di oggi, il profeta Isaia racconta e descrive la sua chiamata ad essere profeta delle nazioni.

In una visione, di cui ce ne descrive i particolari, ci indica il contenuto stesso della sua chiamata ad essere profeta. “Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali».

Al canto solenne del Santo fatto dai Serafini, “vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo”.

A questo punto il profeta si sente perduto e non si scorge degno ed adeguato alla missione alla quale è chiamato: “un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito”.

Continua la visione e Isaia descrive ciò che accadde subito dopo: “Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato».

La purificazione del cuore e delle labbra del profeta è ormai completata e lui può svolgere, ora, il suo compito e la sua missione.

Infatti, Isaia “udii la voce del Signore che gli diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». Non c’era disponibilità ad assumere questo difficile compito. Allora il profeta rispose: «Eccomi, manda me!».

Inizia così l’avventura profetica di Isaia a servizio della parola di Dio e annunciatore della volontà di Dio in mezzo ad un popolo dalle labbra impure.

Alla prima lettura di questa domenica gli fa eco il Vangelo di Luca che parla della missione della sequela di Cristo. In questo brano si racconta della pesca miracolosa e della successiva chiamata di Pietro e degli Apostoli a seguire Gesù. Sono citati, infatti, questi due eventi importanti riguardanti Gesù e i suoi discepoli per riportare all’attenzione di chi legge ed ascolta la potenza dell’amore di Cristo sulle persone disponibili e docili a seguirlo.

Un gruppetto di pescatori delusi da una notte intera di inutile fatica di una pesca infruttuosa, con l’intervento di Gesù si rimette in moto e riparte proprio da lì, dove si era fermato. Gesù, infatti, chiede a Pietro di fare tre cose: di scostarsi dalla riva e di buttare nuovamente le reti in mare; di non avere paura, promettendogli che sarà, da ora in poi, un pescatore di uomini e non più di pesci. E così, convito da Gesù. Pietro si affida totalmente a Lui: “Va bene, Maestro, sulla tua parola getterò le reti”.

Che cosa spinge Pietro a fidarsi di Gesù ciecamente? Una cosa è certa: nella persona di Gesù ha visto l’amore.

Pietro si è sentito amato, in quel momento di delusione e di sofferenza sente che la sua vita è al sicuro accanto a Gesù. Credendo alla parola del Signore, credendo all’amore di Dio, Pietro e il resto del gruppo dei pescatori che lavoravano con lui riceve una copiosa pesca, quale dono alla risposta affermativa data.

Simone davanti al tale prodigio si sente stordito, inadeguato. Lui esperto pescatore, deve alzare le mani davanti al Signore, che rende copioso ogni altro genere di pesca. Ecco perché si rivolge a Gesù e pronuncia parole di grande umiltà: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Gesù, di fronte allo stupore di Pietro e al riconoscimento della sua pochezza umana e spirituale, lo incoraggia a non pensare più al suo passato e ai suoi peccati, ma a guardare avanti con fiducia e speranza al suo futuro, che inizia proprio da lì.

“Non temere, gli dice, d’ora in poi sarai pescatore di uomini”.  Per cui, Pietro e gli altri, abbandonate le barche cariche del loro piccolo tesoro, proprio nel momento in cui avrebbe avuto senso restare, si mettono a seguire il Maestro verso un altro mare, senza neppure domandarsi dove li condurrà. Vanno dietro a lui. Vanno dove li porta il cuore.

Il grande e coraggioso gesto di abbandonare ogni cosa per seguire il richiamo di Dio ci fa da sprone ad abbandonare ogni cosa che ci porta lontano da Dio per farci ritornare a Lui con tutto il cuore e soprattutto con un cuore davvero pentito.

Anche l’apostolo Paolo segue la scia del Maestro, dopo la sua conversione, sulla via di Damasco. Anche per lui avviene un cambiamento radicale che lo porta a proclamare il Vangelo ai cristiani di Corinto, a quali raccomanda di restare saldi in esso e dal quale sono salvati, se lo mantengono integro nei contenuti e nella forma.

Il nucleo essenziale di questo vangelo che annuncia Paolo è lo stesso che egli ha ricevuto, e cioè “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto”.

Di fronte a queste sublimi verità di fede, ma anche di storia della prima comunità cristiana di Gerusalemme, Paolo si sente come “il più piccolo tra gli apostoli”, anzi non si ritiene neppure degno “di essere chiamato apostolo perché ha perseguitato la Chiesa di Dio”. La coscienza del proprio passato lo tormenta, ma poi aggiunge che “per grazia di Dio, ora è quello che è, cioè completamente diverso dal passato, tanto è vero che la grazia di Dio in lui non è stata vana”. L’apostolo riconosce questo speciale intervento di Dio a suo favore per portarlo sulla retta via della santità e dell’ annuncio missionario della salvezza, a punto tale che afferma che egli ha fatto molto di più, come apostolo, non in senso stretto, rispetto ad altri che lo erano a pieno titolo. Evidenzia Paolo un santo orgoglio missionario ed apostolico che non si può negare a lui, essendo un fatto evidente e ben conosciuto presso i cristiani di allora.

Isaia, i 12 Apostoli, Paolo di Tarso sono una triade di riferimento biblico a fare dell’attività apostolica e missionaria l’impegno prioritario di ogni cristiano. Perciò a ben ragione possiamo elevare al Signore questa umile preghiera di inizio messa: “Dio di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo, sostienici con il tuo Spirito, perché la tua parola, accolta da cuori aperti e generosi, fruttifichi in ogni parte della terra. Amen.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO- DOMENICA 4 NOVEMBRE 2018

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XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 4 Novembre 2018

Ascoltiamo la voce dell’amore che dal cielo e giunge fino a noi.

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio della XXXI domenica del tempo ordinario, soprattutto nella prima lettura e nel Vangelo, ci invita ad ascoltare la voce di Dio che ci parla di amore verso di Lui e verso chi è immagine sua sulla terra, ovvero ogni essere umano. Noi siamo stati fatti ad immagine e somiglianza di Dio e come tali dobbiamo vivere nell’amore, in quanto è amore, relazione trinitaria e comunione tra per persone. Da qui il richiamo nella prima lettura ai precetti fondamentali della legge mosaica e successivamente quella cristiana, portata a perfezionamento della venuta di Cristo sulla terra, nostro redentore e salvatore. Come l’antico popolo di Israele, così, noi oggi, nuovo popolo di Dio in cammino verso la patria celeste, dobbiamo mettere in pratica quello che Dio ci ha comunicato, prima mediante la rivelazione sinaitica e poi nel mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, parola di Dio, fatta carne e venuta a parlare di amore e libertà del cuore. Il nostro atteggiamento è quello di ascoltare Dio che ci parla e ci dice: Io sono il Signore Dio tuo. Sono l’ unico Signore e non ve ne sono altri al di fuori di me. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Ti sforzerai, perciò nella vita di tutti i giorni di partire sempre dal vertice, cioè da Dio e dal cielo per agire rettamente e con buone intenzioni, sapendo che ogni cosa va fatta per la gloria di Dio e per la santificazione di se stessi. In questo amore totalizzante verso Dio, trova la ragion d’essere l’amore verso i fratelli. Ed è Gesù, nel testo del Vangelo di questa domenica, a riportare ad un discorso unitario e di inscindibilità i due fondamentali precetti della religione cristiana, cercando di far capire allo scriba che lo interrogava che cosa voglia significare l’amore di Dio e l’amore dei fratelli. Il primo comandamento ben noto, si lega al secondo che è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Si ama Dio senza misura, illimitatamente e si ama il fratello con la stessa intensità e trasporto con i quali si ama la propria persona. Uscire fuori dall’egoismo e dall’egocentrismo per aprire alla carità e alla fraternità. “Non c’è altro comandamento più grande di questi, cioè quello dell’amore, che si esprime nella direzione verticale, verso Dio ed orizzontale verso i fratelli Chi vive nell’amore è già immerso nel cammino del Regno di Dio. Infatti, Gesù, nota la disponibilità dello scriba di lasciare interpellare dall’amore e a lui dice con grande sensibilità intellettuale ed umana: «Non sei lontano dal regno di Dio». Di fronte ad una spiegazione così esaustiva dell’unico precetto dell’amore, nessuno delle persone ed intellettuali presenti che avevano ascoltato Gesù aveva più il coraggio di interrogarlo. Il Maestro aveva fatta la lezione, era stato convincente, soprattutto perché aveva citato lo <<Shema Israe>> ascolta Israele. Gesù tuttavia va oltre la mera citazione dei passi della Bibbia ben noti a tutti i buoni israeliti, impegna la persona a confrontarsi con l’amore si fa concretezza di azione e di modi di vivere. In questo discorso sull’amore concretamente vissuto, Gesù si propone come modello di riferimento, come ci ricorda la seconda lettura di oggi, tratta dalla Lettera agli Ebrei. Egli è il Sommo Sacerdote, perché possiede un sacerdozio che non tramonta mai. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore”.

Superata la visione umanistica del sacerdozio dell’Antico Testamento si entra nella figura di un vero ed eterno sacerdote, che è Cristo Signore. Infatti, ci ricorda il testo della lettera agli Ebre che “questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”. Un sacerdote venuto dal cielo e ritornato in cielo, dopo aver completato la sua missione di redentore. Egli non ha avuto bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso, mediante il sacrificio redentivo della sua morte in croce e risurrezione. La diversità tra Cristo-sacerdote e il sacerdozio di coloro che assumono questo ministero è sostanziale, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, per farci capire dove sta la differenza e come va letta la vita di chi è sacerdote,  soggetto ad umana debolezza, come ogni sacerdote terreno, ma Cristo è sacerdote senza peccato e senza macchia, in quanto Figlio Unigenito del Padre, disceso sulla terra per salvare l’umanità dalla condizione di peccato. Al Figlio di Dio, Gesù Cristo, Sommo ed eterno sacerdote, eleviamo la nostra umile preghiera: “O Dio, tu se l’unico Signore e non c’è altro Dio all’infuori di te; donaci la grazia dell’ascolto,
perché i cuori, i sensi e le menti si aprano alla sola parola che salva, il Vangelo del tuo Figlio, nostro sommo ed eterno sacerdote”.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO – XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

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XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
DOMENICA 28 OTTOBRE 2018
Cecità della mente e freddezza del cuore
Commento di padre Antonio Rungi
Il vangelo del cieco Bartimeo, figlio di Timeo, ci indica persone ben precise che hanno un problema grave.
Bartimeo figlio, cieco, e Timeo, padre, che deve affrontare il dramma del figlio disabile.
Al tempo di Gesù non c’erano garanzie sociali ed economiche per i disabili, per cui Bartimeo, per poter sopravvivere deve mendicare lungo la strada. Quello che stava facendo esattamente mentre passava di lì Gesù, che lasciata Gerico era diretto verso altra località, che non è specificata nel testo.
Al seguito di Gesù c’era tanta gente, a conferma della popolarità che si era acquistata il Maestro con la sua missione e con il suo operare a favore degli ultimi e dei sofferenti.
E un sofferente quello che Egli incontra sulla strada, questo Bartimeo, che è cieco e chiede l’elemosina.
Gesù, mosso dalla tenerezza del suo cuore, sentito quello che chiedeva il cieco, opera la guarigione e ridona vista e speranza a questo uomo infermo e disabile.
Nel racconto del brano evangelico di Marco ci sono alcuni importanti passaggi che vale la pena sottolineare nella nostra riflessione domenicale.
Il cieco si rivolge a Gesù con il nome ben conosciuto ed identificativo della discendenza regale e davidica, a conferma della divinità del Cristo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me”. E lo dice due volte con insistenza.
E’ la richiesta di una persona in necessità che si rivolge a chi certamente può fare molto o tutto. Quell’abbi pietà di me indica lo stretto rapporto che esisteva tra la malattia e il peccato.
Tutti coloro che erano affetti da malanni erano considerati dei peccatori, puniti da Dio e condannati a tale condizione miserevole, compresa la cecità.
E’ evidente che in questa richiesta di Bartimeo c’è il riconoscimento della propria colpa, dei propri peccati, sapendo che quella era la forma mentale acquisita mediante un insegnamento religioso che vedeva Dio che punisce mediante la malattia ed altre calamità.
Un Dio vendicativo nei confronti del singolo e della comunità. Una visione chiaramente distorta che Gesù viene a correggere, venendo in questo mondo e facendosi servo per amore e venendo incontro alle necessità e povertà materiali e spirituali.
Lo comprendiamo perfettamente alla luce del dialogo che si instaura tra Gesù e Bartimeo, che viene convocato alla presenza del Maestro, mediante il coinvolgimento degli Apostoli, ai quali Gesù dice di chiamarlo, visto che gridava forte e la gente cercava di farlo zittire. E di fatto il cieco si presenta al cospetto di Gesù, faccia a faccia, a tu per tu, ed inizia un dialogo diretto, senza più mediazioni.
Quanto è bello ed importante parlare a tu a tu con Dio nella preghiera. E qui siamo in un contesto di preghiera di impetrazione e di richiesta di grazia. Infatti Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Poche parole, pochi gesti e il cieco, mediante la fede è guarito dalla sua cecità fisica e dalla cecità della mente e del cuore, al punto tale che si mise a seguire Gesù lungo la strada.
In poche parole, diventa discepolo anche lui e lo fa con la gioia del cuore, come aveva fatto prima, nel momento in cui, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e andò da Gesù.
Cosa che dovremmo fare sempre, quando le necessità di qualsiasi genere, soprattutto spirituali ed interiori, ci dovrebbero spingere nella giusta direzione, che è quella della Chiesa, della preghiera, della messa, della confessione e dell’abbandono fiducioso in Dio, del Padre Nostro.
Non sempre lo facciamo anche se la parola di Dio di questa Domenica ci invita a fare questo percorso di totale abbandono in Dio, come ascoltiamo nel brano della seconda lettura di questa XXX domenica del tempo ordinario, presentato come il vero ed eterno sacerdote, al quale rinvolgerci per ottenere grazia e misericordia: “Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek”.
Gesù non è il sacerdote debole e fragile come sono tutti i sacerdoti del mondo, scelti da Dio per una missione, ma il sacerdote vero ed eterno, perché Figlio eterno del Padre che nel mistero della morte e risurrezione ci salva con l’unico e definitivo sacrificio della sua vita sull’altare della Croce.
Ci ricorda, infatti, la Lettera agli Ebrei: “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne”.
La diversità tra i sacerdoti dell’Antico e Nuovo Testamento con Cristo sta nella natura stessa del sacerdozio, che è pienamente ed esclusivamente espresso nella persona di Cristo.
Il servizio sacerdotale e la consacrazione sacerdotale, mediante il sacramento dell’Ordine, fa partecipare la persona ritenuta degna di questo mistero al sacerdozio di Cristo capo, in quanto c’è un sacerdozio comune che tutti i cristiani esercitano in ragione del sacramento del battesimo, mediante il quale siamo stati consacrati in Cristo Re, sacerdote e profeta.
Quindi tutti sacerdoti in base al Battesimo e sacerdoti ministri, cioè scelti per uno specifico servizio nella Chiesa, che sono i presbiteri e i vescovi, nei quali c’è la pienezza del sacerdozio e dell’ordine sacro.
Ministri quindi per servire e non servirsi di Cristo e della Chiesa, per offrire la propria vita e non sacrificare la vita degli altri.
Ministri di misericordia e di perdono e non uomini di potere che in base alla consacrazione sacerdotale pensano di poterla cavare anche nascondo il male e lo scandalo.
Mi piace citare quando ha detto Papa Francesco a noi Passionisti, nell’incontro di lunedì 22 ottobre 2018: “Vi incoraggio ad essere ministri di guarigione spirituale e di riconciliazione, tanto necessarie nel mondo di oggi, segnato da antiche e nuove piaghe…La Chiesa ha bisogno di ministri che parlino con tenerezza, ascoltino senza condannare e accolgano con misericordia”.
E’ tempo di conversione e di rinnovamento per tutti nella Chiesa di Cristo, come ci ricorda la prima lettura di oggi tratta dal profeta Geremia che guarda ad Israele, fuori dalla condizione di esiliata, e in una situazione di gioia, rispetto a quella del pianto e del dolore per la patria lasciata perché deportati: “Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».
Dio non è vendicativo, Dio è amore, perdono e misericordia. Per Lui ogni essere umano va salvato e redento, anche se ha commesso i più gravi crimini della terra, purché si penta amaramente dei propri errori e rincominci una vita nuova nel Signore, come è stato per Bartimeo, il cieco che ha riavuto la vista da Gesù, ma soprattutto hai riavuto la gioia di vivere seguendo il Cristo, vera luce e speranza di ogni cuore pentito e contrito, aperto alla tenerezza e all’amore di Dio e dei fratelli.
Sia questa la nostra preghiera oggi, in questo giorno dedicato al Signore, fonte della speranza per ogni cristiano: “O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell’oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa’ che tutti gli uomini riconoscano in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te. Carissimi, non c’è vero cammino di nessun tipo se non iniziamo a fare almeno i primi passi per incontrare Dio e incontrare gli altri. Chi si ferma, dice un antico e noto proverbio, è perduto. Chi cammina ha speranza di raggiungere primo o poi la meta sperata, soprattutto se riguarda l’eternità. Camminare per santificarsi e santificare.

P.RUNGI. DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO – 29 LUGLIO 2019

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XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 29 Luglio 2018

La fiducia in Dio moltiplica all’infinito ogni pane per la vita

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa XVII domenica del tempo ordinario, che chiude il mese di luglio, ci offre l’opportunità di riflettere su un tema molto caro alla teologia cattolica, quello dell’eucaristia. Sia la prima lettura che il Vangelo di questa domenica ci aiutano ad entrare in questo mistero della fede, che è mistero di amore e donazione, mistero di fiducia ed abbandono alla provvidenza verso Chi può sempre tutto. Infatti nel brano del secondo libro dei Re che ascoltiamo oggi ci viene riferito di questa moltiplicazione dei 20 pani d’orzo e grano novello, ricevuto dal profeta Eliseo, da un uomo venuto da Baal Salisà, una quantità molto limitata, con la quale riuscì a sfamare un  gran numero di persone, quantificate in 100, che erano al suo seguito. Il testo non ci dice che spezzarono il pane in piccoli pezzi in modo da farli bastare a tutti, come spesso avviene nelle nostre mense o agape fraterne, quando la quantità del cibo è insufficiente, perché gli ospiti sono più numerosi di quelli previsti, ma è detto che Eliseo dispone di darlo da mangiare alla gente. Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare». Il risultato finale di aver avuto fiducia nella provvidenza del cielo è che, il servitore “pose il poco pane davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore”. Il Vangelo bissa il grande intervento del cielo, parlando in questo caso di quello che face Gesù, nel miracolo della moltiplicazione dei pani, di cui ci riferisce, in chiara interpretazione eucaristica, l’evangelista Giovanni, il discepolo che Gesù amava, anzi il discepolo dell’eucaristia, vista come vicinanza e servizio all’uomo da parte del Figlio di Dio.

La ricchezza e la bellezza di questo testo giovanneo ci far rimanere tutti a bocca aperta, non per mangiare il pane moltiplicato e benedetto da Gesù, bensì il grande amore che il Figlio di Dio manifesta nei confronti dell’umanità affamata di verità, giustizia, pace, amore e bontà. Il testo della moltiplicazione dei pani è collocato nel tempo della vicinanza alla Pasqua, chiaro riferimento alla morte e risurrezione di Cristo, di cui l’eucaristia e memoriale perenne. Gesù era passato all’altra riva del lago di Tiberiade e una gran folla di persone seguiva Gesù, considerato il fatto che operava miracoli e prodigi e la gente lo seguiva e lo cercava soprattutto per questo. Ebbe, quando Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui, disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Cosa poteva dire Filippo?  Signore «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Ma Giovanni commenta: “Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere”. E quello che stava per compiere è detto subito dopo. Gesù non si ferma di fronte ai limiti delle cose e delle persone, dell’economia del risparmio, ma apre l’orizzonte dell’economia che si fa dono e si moltiplica per sfamare, per dare il necessario per vivere. Un esempio da cui dovremmo prende stimolo e spinta ognuno di noi quando si trova di fronte alle reali necessità di chi ha bisogno di cibo e di altro per sopravvivere. Bisogna, anche notare, che gli apostoli al seguito di Gesù si resero disponibili e trovare una soluzione: “Gli disse allora Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini”. Sistemata la gente, tranquillizzata, chiesto il silenzio e soprattutto iniziata la preghiera, Gesù “prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano”. Il miracolo è compiuto, al punto tale che “quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato”. Gesù è l’unico vero cibo che soddisfa il bisogno dell’anima e del corpo di ogni essere umano in cerca del cose che contano, in cerca del cielo, ove Dio ci attende per il banchetto celeste.

Di fronte a questo miracolo e segno straordinario scatta la risposta della fede in chi ha visto, osservato ed ha partecipato attivamente alla liturgia della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simboli, per i cristiani, da sempre, dell’eucaristia. Cosa professa e dice la gente lì convenuta? «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!».

Si sa che quando una persona dà sicurezza economica, soddisfa lo stomaco della gente, quella persona viene indicata la più giusta per assumere il posto di comando, di governo. Lo era al tempo di Gesù, lo è ancora oggi, quando tutti promettono a parole, che toglieranno la miseria, la fame e la povertà dalla faccia della terra o di quella nazione particolare. Qualcuno tempo fa, aveva ideato uno slogan nei paesi della povertà del terzo mondo: Fame zero. Da allora la fame è aumentata, piuttosto che essere azzerata, al punto tale che la fame e la miseria degli altri ha costituito il motivo della ricchezza di qualcuno di ieri e di oggi. Si sfruttano i poveri per diventare ricchi, si affama la gente per potenziare i propri beni. Altro che vangelo della carità e della giustizia?

Ecco perché Gesù, dopo aver compiuto il miracolo “sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo”. Solo Cristo poteva e di fatto ha scelto questa via. Sarà dei Giudei, ma offrendo la sua vita sulla Croce per la salvezza del mondo. Quella scritta del motivo di condanna di Gesù Nazareno, che Pilato dispose di fissare sulla croce di Gesù, oltre il suo capo inclinato, dice tutto sulla vita del Redentore dell’umanità. L’esempio di Gesù è scuola continua per tutti coloro che si professano cristiani e si vantano, solo a parole, di esserlo, e mai di praticarlo. Perciò l’Apostolo Paolo, nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla sua lettera agli Efesini, rivolge questo monito preciso: “Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti”.

Fare eucaristia, moltiplicare i pani per noi cristiani è vivere nell’unità, nella carità, nella comunione ecclesiale, nella solidarietà vera verso chi non ha nulla e chiede il sostegno per affrontare le dure prove della vita.

In questo tempo di vacanze, in cui spesso la distrazione prevale sull’attenzione e sensibilità verso gli altri, facciamo nostra la preghiera, che, indico come accompagnamento spirituale in questo tempo di riposo e di ripresa:

 

Signore Gesù che hai detto ai tuoi apostoli

“venite in disparte, in un luogo solitario e riposatevi un poco”,

dopo un dispendioso lavoro missionario,

pieno di soddisfazioni e di frutti spirituali,

fa che questo tempo di ferie, vacanze e riposo,

sia per tutti i villeggianti e operatori turistici

un periodo di rigenerazione fisica e spirituale,

capace di ridare slancio al cammino umano e spirituale

di ogni essere umano.

 

Ti chiediamo, Signore, di proteggere la creazione

da ogni forma di violenza e di aggressione,

perché questa Terra, che Tu ci hai donato

possa essere, davvero, la casa comune per tutti gli uomini,

senza alzare muri di divisione e di separazione.

 

Il mare, le montagne, i laghi

ed ogni altro luogo dove la gente cerca riposo

in questi mesi estivi,

siano il paesaggio più immediato

per contemplare la bellezza del creato

e spazi di  riflessione

per costruire  un mondo più giusto,

rispettoso dei tempi e delle speranze di ogni uomo.

 

Tu Gesù, Sole che illumini le menti e cuori,

suscita nei nostri pensieri e nelle nostre azioni

il calore dell’amore generoso e fecondo,

capace di irradiare sul mondo

la tenerezza e la dolcezza di un Dio, fatto uomo,

nel grembo purissimo di una Donna.

 

Maria, Madre delle stagioni della nostra vita,

ottienici da Gesù quello ciò che è giusto

e conforme ai suoi divini voleri,

perché anche questo tempo della vita,

dedicato al riposo estivo,

diventi un momento di grazia,

per chiedere grazie e ricevere grazie,

utili al nostro lavoro umano e spirituale,

per continuare ad essere testimoni

della gioia, della speranza e della luce

in un mondo immerso nelle tenebre dell’indifferenza. Amen.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA XIV DOMENICA DEL TO- 8 LUGLIO 2018

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XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 8 luglio 2018

 

Il cuore mummificato di chi non vuole ascoltare Dio e non convertirsi

 

Commento di padre Antonio Rungi

 

Celebriamo la XIV domenica del tempo ordinario e la prima lettura di oggi ci dà l’impulso per riflettere su cosa il Signore vuole da noi nell’accoglienza della sua parola. Egli, Gesù, conosce bene, come, ci rammenta il Vangelo di oggi, che è difficile farsi capire dai parenti e concittadini, affermando senza mezze misure che un «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».

Perché Gesù evidenzia questa difficoltà? Si capisce da tutto il contesto del brano di Marco che oggi ascoltiamo. Gesù va nella sua patria, cioè a Nazareth, e i suoi discepoli lo seguono. Arrivato il sabato, come era prassi va nella sinagoga e si mette ad insegnare. Il suo modo di insegnare e le cose che diceva, i prodigi che faceva, lascia sbalordita la gente, la quale si meravigliava di tanta sapienza e facendo notare che egli è un “falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone”. Sono cinque le domande su Gesù che si pongono i suoi concittadini. Evidenziano il contrasto tra ciò che loro sanno di Gesù e chi è effettivamente Gesù di Nazareth.

Quello che faceva Gesù e diceva era per loro motivo di scandalo, in quanto erano abituati a sentire altre prediche dagli addetti alla sinagoga, ai vari rabbini che si alternavano ad illustrare alla gente, senza preparazione, la parola di Dio, facendo dire ad essa ciò che loro volevano far dire e non esattamente ciò che diceva. Gesù constata la loro pochezza interiore e la poca disponibilità ad accogliere la parola vera che usciva dalla sua bocca, per cui passò altrove ad insegnare, vista la poca predisposizione all’ascolto e al cambiamento dei suoi compaesani. La loro incredulità non permise a Gesù di fare alcun prodigio, in quanto era ed è necessaria la fede per ottenere i miracoli di Dio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì.

Ritornando al testo della prima lettura, tratto dal profeta Ezechiele, Dio parla al suo popolo mediante quest’uomo di Dio che si rivolge ad esso con estrema lealtà e a chi lo ascolta, facendosi portavoce coerente di quanto il Signore costatava e voleva far risaltare, per invitare a conversione i membri del popolo d’Israele: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito”.

Figli testardi, figli ribelli e dal cuore indurito, a questa genia di ribelli, il profeta deve dire queste parole di Dio: “Ascoltino o non ascoltino sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”.

Ezechiele quindi diventa il messaggero di Dio, attraverso cui il Signore comunicherà la sua volontà.

Il testo, chiaramente, anticipa quella che sarà la missione di Cristo sulla terra e quali ostacoli, il Figlio di Dio, incontrerà per convertire il cuore dei suoi correligiosi.

Non ci riuscirà al punto tale che lo condannano a morte, perché non credevano a nessuna delle sue parole e vedeva in Gesù Messia il rischio più gande per continuare a mantenere il potere religioso, politico e militare della Palestina. Qualcuno, però, riuscì ad uscire da questa visione riduttiva della fede e iniziare un cammino di conversione che approdò al discepolato e all’apostolato nel nome di Cristo. E questi fu Paolo Apostolo, che dopo la sua conversione inizia la predicazione e l’evangelizzazione su larga scala. Il successo che otteneva, le comunità che costituiva, il numero sempre maggiore di adesione al cristianesimo, mediante la sua predicazione, potevano mettere a rischio l’autenticità della sua fede e della sua missione. Ecco perché nel brano della seconda lettera ai Corinzi che oggi ascoltiamo come seconda lettura, egli scrive parole forti, nelle quali si coglie la difficoltà, anche umana, da parte dell’Apostolo, oltre che interiore e spirituale di fronteggiare le forze del male, che si scatenarono contro di lui. E allora, scrive testualmente circa la sua persona: “Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia”.

Una situazione grave, su cui gli esegeti hanno spaziato nel far riferimento ad una persona, o a delle situazioni particolari vissute dall’Apostolo in modo preoccupato. Infatti scrive “A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Paolo, in questo brano ci presenta un Dio misericordioso, che comprende le debolezze umane e va incontro a lui con cuore di Padre e non di giudice che condanna. La conclusione della riflessione dell’Apostolo, in termini paradossali, è questa: “Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”. Come dire, se la debolezza è motivo per aprirsi a Dio, senza sentirsi perfetti, ben venga la presa d’atto della nostra miseria, della nostra povertà e del nostro peccato.

E Paolo, conclude: “Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte”. Il messaggio è chiaro e lampante, in quanto nel prendere atto di chi siamo, ovvero peccatori e persone fragili abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio, che in termini precisi significa ricorrere alla grazia santificante dei sacramenti della vita cristiana, che danno respiro all’anima e, se vissuti, con convinzione e ricevuti con fede, producono l’effetto sperato per convertire noi ed essere strumenti di conversione per gli altri.

Sia questa la nostra preghiera che rivolgiamo a Dio, sperando di migliorare spiritualmente la nostra vita: “O Dio, che nell’umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l’umanità dalla sua caduta, donaci una rinnovata gioia pasquale, perché, liberi dall’oppressione della colpa, partecipiamo alla felicità eterna”. Amen.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA XXV DOMENICA T.O. – 24 SETTEMBRE 2017

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XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)
DOMENICA 24 SETTEMBRE 2017

Comportarsi in modo degno del Vangelo

Commento di padre Antonio Rungi

Per un cristiano, la prima preoccupazione che dovrebbe avere nei suoi pensieri e nella sua mente è quella della fedeltà al Vangelo.

Non che gli altri uomini non abbiano obblighi; anzi tutti gli esseri umani hanno regole morali da rispettare e che hanno attinenza con l’essere stesso umano e sociale.

Chiaramente per ogni religione scattano specifici doveri ed obblighi per chi veramente sente la propria fede come elemento importante ed essenziale nella vita.

Perciò l’apostolo Paolo, nel brano della seconda lettura della parola di Dio di questa XXV domenica del tempo ordinario, tratto dalla sua lettera ai Filippesi, conclude con questa raccomandazione: “Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo”.

Ma l’apostolo, in precedenza, aveva sottolineato un aspetto importante del suo essere convertito al vangelo di Cristo: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno”.

L’apostolo considera la vita eterna più importante della vita terrena. Tuttavia, egli precisa che “se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere”.

Come dire, è bello pensare ed aspirare al paradiso, all’eternità, ma è altrettanto bello pensare e vivere una vita con frutti spirituali che portano ad accumulare beni per l’eternità.

E, quindi egli si trova in un conflitto interiore che, da un lato, desidera morire e dall’altro gli fa piacere vivere. Infatti dice con estrema lealtà interiore e sincerità del cuore: “Sono stretto  fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo”. Vede, quindi, la sua presenza importante per la comunità cristiana di Filippi, perché necessita della sua guida.

Il vivere e il morire lo sappiamo tutti è nelle mani di Dio. Noi possiamo esprimere dei desideri, degli auspici, ma è il Signore che decide sulla nostra vita e sul momento in cui dobbiamo lasciare questa terra. Se ci siamo ancora è perché Egli vuole così.

E noi cerchiamo di vivere questa vita, che ci ha donato, con il massimo impegno per dare frutti terreni e soprattutto eterni.

In questo contesto del premio, si comprende il bellissimo brano del Vangelo di oggi, che riguarda la chiamata degli operai a lavorare nella vigna di un signore che uscì in diversi momenti del giorno a chiamare le persone a lavorare con lui. Tutti risposero di sì e svolsero al meglio il compito affidato, dal mattino oppure nel tardo pomeriggio, ovvero per molte o poche ore di lavoro. Alla fine della giornata il padrone di casa, che aveva la sua vigna ed aveva assunto part-time o full-time per un giorno i lavoratori, nella sua piena libertà, pagò tutti allo stesso modo. Con i primi assunti fu firmato un accordo, con gli ultimi chiamati, nessuno accordo fu stipulato. Sappiamo come andò a finire quando i primi videro che il padrone diede la stessa somma agli ultimi e li pagò secondo il suo giudizio e la sua libertà di decidere. Infatti nel testo del vangelo, troviamo questa indicazione di comportamento da parte del padrone della vigna, il Quale rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”.

La conclusione e l’ammonizione finale del Vangelo di oggi ci fa riflettere molto e ci fa uscire dalle nostre presunte sicurezze di salvezza e di privilegiati della prima ora; per cui questa sentenza evangelica impone a tutti noi cristiani della prima ora o credenti che abbiamo ricevuto la fede da piccoli a non illudersi, perché “gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”. L’arroganza, la presunzione di essere sempre i primi e di avvalersi di una sorte di eredità scontata o diritto alla primazia, viene messa in crisi dal modo di pensare ed agire di Dio. Purtroppo, in tutte le vicende umane, questa primazia e questa superiorità nei confronti degli altri, che arrivano per ultimi o alla fine, determina molti conflitti e gelosie e quando, anche nella chiesa, si scelgono gli ultimi per farli primi, c’è una ribellione e spesso una gelosia, che sfiora la vendetta o la lenta distruzione di chi è stato scelto per ricoprire ruoli e posti, non chiesti e non desiderati. Il rischio è che i primi rimangono eternamente primi, pur non meritando i primi posti, e gli ultimi rimangono eternamente ultimi, pur meritando i primi posti, perché si blocca il potere sui primi e non si guarda mai agli ultimi, intesi, in questo caso, anche come chi ha più bisogno di tutto ed è in necessità di ogni genere.

Ci serva da lezione spirituale e di vero itinerario di fede e di cammino interiore il bellissimo brano della prima lettura di questa domenica, tratto dal profeta Isaia, il profeta dell’umiltà e della disponibilità piena alla parola di Dio: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino”.

E poi cambiare davvero vita e convertirsi alla verità e all’onestà: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri”.

Chi ha sbagliato “ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”.

Questo nostro Dio è grande e buono nell’amore e la sua misericordia è infinità, per cui non possiamo sapere effettivamente i pensieri di Dio, né pensare che le nostre strade coincidano con le sue. Spesso non si incontrano, perché noi chiediamo ed aspettiamo dal Signore, ciò che ci è utile, necessario nella vita terrena, Dio offre a noi ciò che è indispensabile per la vita eterna. Chi pensa secondo il mondo, non potrà mai incontrare il Signore, perché i suoi progetti sono di diversa natura, che è quella divina. Noi siamo fatti di carne e pensiamo secondo la carne e non secondo lo spirito.

La nostra preghiera, in questa domenica, sia la stessa che rivolgiamo a Dio con il Salmo 144, inserito nella liturgia della parola di oggi: “Ti voglio benedire ogni giorno, lodare il tuo nome in eterno e per sempre. Grande è il Signore e degno di ogni lode; senza fine è la sua grandezza. Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature. Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere. Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità”.

Potessimo, ogni attimo della nostra vita comprendere l’inestimabile valore di rendere lode a Dio in ogni momento del nostro vivere, senza presumere di essere noi il dio, al posto del vero ed unico Dio, che Gesù Cristo ci ha rivelato con il volto della misericordia, della bontà, della tenerezza e dell’amore.

Bello, allora rivolgerci a Lui, con questa preghiera, la colletta della domenica XXV, che ci fa pregare con queste espressioni: “O Padre, giusto e grande nel dare all’ultimo operaio come al primo, le tue vie distano dalle nostre vie quanto il cielo dalla terra; apri il nostro cuore all’intelligenza delle parole del tuo Figlio,  perché comprendiamo l’impagabile onore di lavorare nella tua vigna fin dal mattino”. Amen.

 

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA XXIV DOMENICA TO – 17 SETTEMBRE 2017

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XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Domenica 17 settembre 2017

Morire all’odio e vivere nella gioia del perdono

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio della XXIV domenica del tempo ordinario ci invita al perdono reciproco da attuare in ogni situazione e sempre, senza limiti di numeri, di persone, di spazio e di consistenza del danno ricevuto o dell’offesa avuta. Bisogna perdonare, ma anche chiedere perdono se siamo stati noi ad offendere gli altri, a provocare nel loro animo e cuore il dolore e l’angoscia.
Ecco perché oggi, come inizio della nostra preghiera assembleare, troviamo questa bellissima orazione, attinente al tema della giornata: “O Dio di giustizia e di amore, che perdoni a noi se perdoniamo ai nostri fratelli, crea in noi un cuore nuovo a immagine del tuo Figlio, un cuore sempre più grande di ogni offesa, per ricordare al mondo come tu ci ami”.
L’amore di Cristo è arrivato all’estremo limite delle possibilità umane. Egli ci ha perdonati dalla croce, comprendendo i nostri peccati, perché non sappiamo riconoscere la verità, la giustizia e l’amore ed abbiamo bisogno di un’educazione all’amore che porta per sua natura al perdono. Sappiamo benissimo come è difficile perdonare chi ci ha fatto del male. E tutti, chi più chi meno, sono passati per questa triste esperienza dell’offesa ricevuta e a volte data, dalla quale solo la grazia di Dio e sincero pentimento può sanare definitivamente sa un punto di vista interiore, ma non umano e fisico.
I segni delle sofferenze patite, molte volte segnano il corpo e la mente delle persone, che non riescono ad uscire da un’esperienza di risentimento e di rancore che pure la parola di Dio prende seriamente in considerazione, come nel caso della prima lettura di oggi, tratta dal libro del Siracide: “Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro”. Un cuore non risanato dalla grazia, chiede vendetta e vuole vendetta.
La parola di Dio ci ammonisce con queste espressioni che fanno riflettere a chi ha simili pensieri nella mente: “Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati”.
Cosa fare allora? Il consiglio viene presto dato da uno dei libri sapienziali dell’Antico Testamento, che è il Siracide: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore?”.
Infatti, bisogna considerare un aspetto importante nel discorso del perdono: “chi non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati?”.
In tutto questo riflettere e meditare sulla propria condizione umana ed esistenziale c’è qualcosa di importante da avere nella mente e nel cuore: “Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui”.
Il percorso spirituale e psicologico e tracciato su come arrivare al vero perdono e a non coltivare più risentimenti e rancori. Seguiamo queste indicazioni concrete ed operative della parola del Signore.
D’altra parte, il vangelo di questa domenica ce lo dice apertamente attraverso la voce diretta di Gesù, il quale risponde a questa domanda di Pietro: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Segue a tale proposito, la bellissima parabola che Gesù apporta come esempio per fa capire meglio il discorso a Pietro e agli altri: “Il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto”.
La conclusione di tutto il ragionamento e del discorso qual è?: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.
Bisogna perdonare con il cuore e non solo con la parola, cioè bisogna davvero mettere la parola fine sulle questioni che possono far scattare quei risentimenti e rancori mai sopiti e che spesso riemergono in presenza di quella persona o di fatti similari.
Come si fa a perdonare a chi ti uccide un figlio? Come si fa a perdonare a chi ti ha calunniato, diffamato, facendo passare per vero la menzogna più totale? Come si fa a perdonare chi ti ha tolto l’amore, la famiglia, i sentimenti veri, ti ha fatto soffrire volutamente? Non è facile, ma solo chi entra in un cammino di conversione vera ed autentica che può raggiungere progressivamente questo risultato di pacificazione del proprio cuore e della propria mente, perché il rancore e il risentimento, l’odio uccidono lentamente e non fanno più vivere serenamente. Con il salmista, sappiamo valorizzare la preghiera come strumento per purificare la nostra mente da ogni scoria di risentimenti ed odi, e con il Salmo 102, diciamo: “Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno. Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe”.
Se il Signore, nostro Dio e Salvatore, agisce così con noi, perché noi dovremmo continuare ad avere atteggiamenti di odio e risentimento verso qualcuno? Sbagliamo di grosso, quando agiamo così e non ci lasciamo condurre per mano verso la vera libertà interiore, che è quella del perdono.
E facendo tesoro di quello che ci ricorda l’apostolo Paolo nel brano della sua lettera ai Romani, non dimentichiamo che “sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”. E che “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore”.
Morire all’odio e vivere nella gioia del perdono, questo è l’invito che ci viene rivolto e che vogliamo accogliere, oggi e sempre, superando le barriere dei conflitti di ogni genere.