Airola

AIROLA (BN). LA CHIESA DELL’ADDOLORATA ERETTA A SANTUARIO MARIANO DIOCESANO

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AIROLA (BN). LA CHIESA DELL’ADDOLORATA ELEVATA A SANTUARIO DIOCESANO

di Antonio Rungi

Sarà il Vescovo di Cerreto-Telese-Sant’Agata dei Goti, monsignor Giuseppe Mazzafaro, a presiedere la solenne liturgia eucaristica di giovedì 15 settembre 2022, alle ore 18, nella Chiesa della Madonna Addolorata, che in questa specifica circostanza sarà elevata ed eretta a Santuario diocesano con decreto dello stesso vescovo.

La storia di questo santuario, molto noto e frequentato dai devoti della Valle Caudina, parte da molto lontano e la devozione alla Madonna Addolorata degli airolani è tra le più solide e testimoniate nel corso delle celebrazioni annuali di settembre, durante il mese di maggio, nelle domeniche di tutto l’anno e nelle grandi ricorrenze liturgiche e mariane.

Il santuario, con annesso monastero, fu edificato nel 1363 per volere di Giovanni Della Lagonissa (Leonessa), feudatario di Airola. L’edificio, denominato Santa Maria dell’Ariella, fu donato nel 1369 dal feudatario di Airola ai monaci Benedettini di Montevergine.

La chiesa, durante l’assedio alla rocca di Airola subì tali conseguenze che nel 1517 si presentava quasi completamente distrutta.

Nel 1601 il vecchio monastero di Santa Maria dell’Ariella, costruito nella parte alta di Airola, non era più adatto alle mutate condizioni di vita del paese che dalla collina di Monteoliveto si era spostato nella piana di Airola.

Nel 1608 fu iniziata la costruzione di un altro monastero, a valle, vicino alla chiesa della SS. Annunziata, chiamato poi S. Maria della Misericordia.

Con la discesa a valle dei monaci, la chiesa visse un lungo periodo di abbandono.

Nel 1672 Donna Maria Candida Spinelli fece restaurare la chiesa e, ottenute le dovute autorizzazioni, la fece riaprire al pubblico.

La chiesa che presenta ancora tracce gotiche, a forma rettangolare, a navata unica con quattro altari laterali è un gioiello di arte e di storia.

Sull’altare maggiore vi è una pala d’altare che raffigura l’Addolorata con Gesù deposto dalla croce, opera di Andrea Solario.

Oggi il santuario fa parte del territorio della parrocchia di San Michele Arcangelo a Serpentara, affidata alla cura dei Padri Passionisti del vicino convento di Monteoliveto.

La festa dedicata alla Madonna Addolorata che interessa tutto il mese di settembre, inizia come sempre con il solenne settenario, l’8 settembre. Quest’anno la predicazione è stata affidata dal parroco, padre Emanuele Zippo, passionista, a don Pasqualino Di Dio, fondatore della Fraternità apostolica della Misericordia.

Nel corso del settenario saranno diversi gli appuntamenti di carattere religioso, culturale, sociali e ricreativi predisposti dal consiglio pastorale parrocchiale e dal Comitato, presieduto dal parroco.

Concluderà le celebrazioni monsignor Giulio Mencuccini, passionista, vescovo emerito di Sanggau (Indonesia), missionario nel Borneo per circa 50 anni, di 32 anni svolti come vescovo nella diocesi di titolarità, dove si spostava in moto, Da qui l’appellativo di vescovo biker. La solenne celebrazione è in programma per domenica 18 settembre alle ore 16,30 nella Chiesa di San Michele a Serpentara.

In questo mese di settembre, salire al santuario della Madonna Addolorata, così da sempre chiamato e definito, ma anche seguire la peregrinatio della bellisma ed espressiva statua della Madonna per tutte le chiese della cittadina, per gli airolani oltre ad essere una pratica religiosa molto sentita e curata negli aspetti interiori è anche un’attestazione di un amore filiale e di cura speciale verso questo luogo di preghiera, dedicato a Maria, che ai piedi della croce riceve da Gesù il compito di custodire e proteggere l’umanità intera.

Mai come in questi anni di sofferenza, prima con la pandemia ed ora la guerra in Ucrania, inoltre con i tanti mali che affliggono le singole persone e l’umanità, la Madonna Addolorata rappresenta per tutti un forte richiamo a fare della sofferenza uno strumento di compartecipazione a ciò che manca alla passione del Signore, come afferma san Paolo Apostolo:  “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Airola (BN). Die septimo della morte del già Comandante Pompeo Rungi (mio fratello)

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Airola (BN). Domani il die septimo della morte del già comandante Pompeo Rungi
Ad una settimana esatta dalla morte del già comandante della polizia municipale di Airola, Pasqualino Pompeo Rungi, avvenuta dopo le 23 del 4 maggio 2022 all’Ospedale Civile di Benevento, domani 11 maggio 2022, alle ore 18,30, nella Chiesa parrocchiale di San Michele a Serpentara in Airola, sarà celebrata una messa di suffragio per il noto ufficiale di polizia municipale della città di Airola. La messa sarà presieduta da padre Antonio Rungi, sacerdote passionista, fratello del Comandante che già ha presieduto la messa esequiale del giorno 6 maggio 2022, nella Chiesa dell’Annunziata, con la partecipazione di diversi sacerdoti e molti fedeli.
L’improvvisa ed inaspettata morte di Pompeo Rungi ha lasciato Airola e la Valle Caudina, dove era conosciuto per il suo ufficio, costernate per la gravissima perdita. Nato ad Airola il 6 febbraio 1949, Pompeo Rungi, ha vissuto sempre nella sua città natia, insieme ai genitori, Giovanni e Tommasina Riccardi, con la sorella Cira ed il fratello Antonio, poi sacerdote passionista. Da giovane dopo gli studi elementari, medi e superiori intraprese il cammino di Vigile Urbano, per poi negli anni e con la progressione di carriera, avendone i titoli e vincendo un regolare concorso, di arrivare a ricoprire il ruolo di Comandante della Polizia Municipale. Negli anni del suo servizio in questo ambito ha servito con attenzione, passione e profonde motivazioni, quelle che erano le esigenze della popolazione non solo nell’ambito del traffico, del commercio e delle varie attività civili e comunali direttamente soggette alla sua vigilanza e all’insieme del Corpo di polizia municipale, ma anche a livello umano e relazionale. Insieme al servizio di comandate ha svolto altri servizi per la cittadina: presidente del Comitato della Festa dell’Addolorata, presidente della squadra di calcio di Airola, membro della Pia Opera del Volto Santo, Membro dl consiglio pastorale parrocchiale di San Michele.
Uomo di preghiera, riservato ed attento alla propria vita spirituale, era frequentatore assiduo di santuari, oltre a quelli di Airola e della Provincia di Benevento, anche quelli di Pompei, del Volto Santo in Napoli, di padre Pio a Pietrelcina e a San Giovanni Rotondo, di Montevergine, nonché quello di Santa Rita da Cascia.
Del già comandante Pompeo Rungi tutta la popolazione di Airola, come si è potuto constatare durante la camera ardente allestita presso la struttura di accoglienza dei defunti di Corso Caudino, nei pressi dei Convento di San Pasquale, e durante i solenni funerali, ha espresso pensieri di gratitudine e di stima per l’operato di questo Comandante della Polizia Municipale che in 42 anni di servizio ha dato un volto nuovo ad Airola. In stretta collaborazione con i vari sindaci che hanno guidato Airola in questi ultimi 50 anni, il Comandante Rungi ha sempre dimostrato senso del dovere, amore per la città e disponibilità verso tutti nella legalità.
Oltre al fratello padre Antonio Rungi, che ha tenuto l’omelia, a conclusione della messa esequiale di venerdì scorso hanno preso la parola per ringraziare Pompeo, il rappresentante della polizia municipale di Airola, Franco Bernardo, il vice-sindaco di Airola, Michele Napolitano, il sindaco Vincenzo Falzarano, padre Emanuele Zippo, parroco di San Michele e la figlia del comandante, Jessica che a nome delle altre tre sorelle (Dora, Antonella e Masina) e di tutta la famiglia ha voluto ringraziare le persone per la partecipazione al lutto che ha colpito la famiglia Rungi per la perdita del già comandante Pasqualino Pompeo Rungi. Le spoglie mortali di Pompeo ora riposano nella sua Airola, insieme ai suoi genitori e alla sua sorella Cira, nella cappella cimiteriale della famiglia Rungi-Ricciardi.

LA SERVA DI DIO CONCETTA PANTUSA, PROSSIMA ALLA VENERABILITA’

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La testimonianza di Padre Antonio Rungi, vice postulatore della causa di beatificazione della Serva di Dio, Madre Concetta Pantusa.

“Sono grato al Signore, alla Madonna e alla Congregazione vaticana per le cause dei santi che il 21 aprile scorso, con proprio decreto ha riconosciuto la validità dell’inchiesta diocesana per la causa di beatificazione di Concetta Pantusa, madre di famiglia, che da anni è stata assunta come impegno prioritario della Pia Unione del Volto Santo di Airola”, è quanto dichiara padre Antonio Rungi, passionista, vice-postulatore della causa di beatificazione di Concetta Pantusa, attuale vicario episcopale per la vita consacrata dell’arcidiocesi di Gaeta, di comunità a Itri-Civita.

“Questo è un ulteriore passo verso la dichiarazione dell’eroicità delle virtù della nostra Serva di Dio, Concetta Pantusa, che rende particolarmente felici tutti noi airolani –ha detto padre Rungi – e particolarmente quelli che come me, anche se in tenera età, ho conosciuto Concetta Pantusa e sono stato accolto tra le sue braccia, alla mia nascita il 7 luglio 1951. La mia vita si è incrociata, per tanti aspetti, con la Serva di Dio, in quanto la nostra famiglia, insieme a papà Giovanni Rungi, mamma Tommasina Ricciardi, mia sorella Cira (tutti  e tre passati a miglior vita) e mio fratello Pompeo abitavamo con la Serva di Dio nello stesso stabile di Via Monteoliveto, oggi divenuta la celebre casa del Volto Santo di Airola, nella quale sono custodite le spoglie mortali di Concetta Pantusa. Bisogna ricordare che Airola ha considerata Concetta Pantusa “santa” durante la vita e dopo la morte. Basta dire che i passionisti, in particolare, subito hanno preso a cuore la testimonianza di vita santa di Concetta Pantusa. La serva di Dio per anni è stata sepolta nella cappella cimiteriale dei passionisti. Per questa ragione, visto anche la devozione della gente che visitavano la sua tomba, iniziarono un lavoro certosino, portato avanti da padre Tommaso Tatangelo, passionista. Fu lui a stilare, in modo preciso e circostanziato, una documentazione rigorosamente storica, avallata da giuramento, degli avvenimenti più rilevanti, circa la vita, le virtù e le opere della Serva di Dio Maria Concetta Pantusa, morta in concetto di santità in Airola (BN) il 27 marzo 1953. Documentazione, ad uso esclusivo dei processi diocesani, che fu consegnata l’8 settembre 1974 a monsignor Ilario Roatta, allora il vescovo di Sant’Agata dei Goti. Da questa prima documentazione si è partiti per portare avanti, poi, con l’opera di padre Stefano Pompilio (vice postulatore, passato a miglior vita) e dei Frati Minori della Provincia del Sannio, dietro incoraggiamento continuo della Pia Unione del Volto Santo di Airola, l’attuale fase del processo per la beatificazione della Serva di Dio, Concetta Pantusa.

Ricordo benissimo che il processo per la causa di beatificazione fu aperto ufficialmente il 10 febbraio 2007, alla presenza del Vescovo diocesano di Cerreto-Telese-Sant’Agata dei Goti, monsignor Michele De Rosa, nella Chiesa della SS.Annunziata di Airola (Bn) e dopo 9 anni e mezzo chiuso la sera del 22 agosto 2016, dallo stesso Vescovo De Rosa. Fu sigillata tutta la documentazione prodotta sotto giuramento da parte dei testimoni e verbalizzato dal tribunale diocesano. Tale documentazione fu immediatamente portata a Roma ed ora dopo quasi 5 anni di attesa, di studio e lettura degli esperti, è arrivato questo decreto sulla validità degli atti processuali, che permetterà al Postulatore generale, padre Giovangiuseppe Califano, Frate Minore, di stilare la positio per la dichiarazione della venerabilità, che sarà decretata da Papa Francesco, dopo l’approvazione della commissione teologica e dei cardinali.

In questi 5 anni abbiamo lavorato nel silenzio e fatta conoscere la Serva di Dio, attraverso la diffusione della sua biografia, con video, immagini, preghiere, interventi per radio, televisione, sui social e abbiamo e continuiamo a far pregare tante persone che hanno avuto modo di conoscere Concetta Pantusa durante la sua vita e dopo la sua morte. Nel mio ministero di predicatore itinerante passionista, dal momento che faccio riferimento spesso alla Serva di Dio,  incontro di frequente persone che da sempre si rivolgono, con la preghiera, alla Serva di Dio per ottenere grazie e vengono esaudite. Certo dobbiamo insistere per ottenere, per sua intercessione, un vero miracolo dal Signore, per poterla vedere prima beata e poi, dopo un altro miracolo, anche canonizzata.  A Mondragone, a Frattamaggiore, nel napoletano, casertano e beneventano, Concetta Pantusa  e Casa del Volto Santo sono un riferimento importante per tanti devoti della prossima venerabile. Siamo solo all’inizio di un cammino – precisa padre Antonio Rungi – che speriamo possa, in pochi mesi, giungere alla dichiarazione della venerabilità o meglio dell’eroicità delle virtù esercitate da questa straordinaria mamma di famiglia, con il cuore di consacrata laica, che a mio avviso può essere definita la santa Rita del Sud. Nubile, sposata, vedova, con l’unica figlia monaca delle clarisse di Airola e lei con il desiderio di consacrarsi a Dio nella vita religiosa. Cosa che non le fu possibile, ma visse da vera consacrata alla passione di Cristo, prendendo molto dalla spiritualità passionista del vicino convento di Monteoliveto e parimenti moltissimo dalla spiritualità francescana, avendo una figlia monaca clarissa e un riferimento importantissimo nel convento di San Pasquale in Airola, con i frati Minori che la seguirono in vita e dopo la morte si sono assunti l’onere di portare avanti il processo di beatificazione, avviato a nome e per conto della Pia Unione del Volto Santo che grandissimo merito ha in tutto questo”.

 

Nella foto in bianco e nero: padre Antonio Rungi tra le braccia della Serva di Dio Concetta Pantusa, Madre di famiglia, con la sua sorella Cira (morta l’11 agosto 2016) e il fratello Pompeo Pasqualino di Airola

LA LITURGIA DELLA PAROLA DELLA XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

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Domenica XI del Tempo ordinario

Domenica 13 giugno 2021

Crescere in santità, senza pretesa di essere i più santi

Commento di padre Antonio Rungi

Dopo il lungo periodo del tempo pasquale e post-pasquale, rientriamo nell’ordinarietà anche per quanto riguarda la liturgia. Celebriamo oggi l’XI domenica del tempo ordinario e il vangelo che abbiamo ascoltato ci introduce nel grande tema, trattato direttamente da Gesù, che è quello del Regno di Dio.

Attraverso parabole, mirate e precise, Gesù insegna alla gente ed ai discepoli il contenuto essenziale della fede da Lui stesso annunciata, testimoniata e trasmessa con i linguaggi più adatti alla comprensione della gente. Questa volta Gesù ci parla del Regno di Dio di come un seme gettato sul terreno e che da piccolo, come era in partenza, diventa poi un grande albero, su cui si possono poggiare e nidificare gli uccelli. Modo di dire per catturare l’interesse della gente su altro e più importante argomento che è il centrale in tutta la narrazione: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?

La domanda posta da Gesù trova una precisa risposta da parte del Maestro: “È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

A cosa voglia alludere Gesù con questa parabola o esempio si comprende alla fine dello stesso discorso, quando l’evangelista Marco afferma che “con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere”.

Quindi Gesù ha principalmente nel suo cuore un intento formativo del gruppo dei discepoli e della gente.

Spiegando e rispiegando le cose, facendo una molteplicità di esempi alla fine un risultato lo avrebbe ottenuto con i suoi discepoli e con quanti ormai sistematicamente si ponevano ad ascoltarlo, affascinati dal suo parlare convincente, rispetto ai maestri del tempio, che non parlavano chiaro e tantomeno meno spiegavano la parola di Dio in modo comprensibile e quindi da poi attuare nella vita.

Gesù proprio perché si doveva far capire dai più piccoli ai più grandi usava un linguaggio accessibile a loro con la speranza che poi potessero imboccare le strade buone e non quelle tortuose che portano alle tenebre e non alla luce. Gesù, quindi, per non far sbagliare i suoi discepoli e seguaci non parlava loro senza parabole, cioè con esempi e riferimenti alla vita pratica e quotidiana accessibile concettualmente dai soggetti preparati culturalmente e quelli meno abituati a masticare di sacra scrittura. Nonostante questo sforzo espositivo per farsi capire, alla fine chi non ci riusciva a capirlo, come gli apostoli, in privato, spiegava loro ogni cosa. Gesù non è solo il maestro pubblico che parla a tutti, ma anche il precettore che si prende cura dei suoi alunni, in questo caso i dodici, e li segue passo passo nella spiegazione dei divini misteri che riguardano la sua persona e che poi capiranno perfettamente dopo la sua morte, risurrezione e ascensione al cielo e soprattutto dopo l’effusione dello spirito santo che apre il cuore e la mente alla comprensione della salvezza di tutti gli uomini delle terra. Ricordiamo quello che abbiamo ascoltato nel testo del vangelo: La senape è il più piccolo di tutti i semi, ma crescendo e sviluppandosi diventa più grande di tutte le piante dell’orto”. Così è del Regno di Dio così è colui che cresce nella santità della vita e da piccolo diventa grande davanti agli occhi di Dio e mai davanti agli occhi del mondo. Perché chi si fa grande davanti agli uomini, è piccolo davanti a Dio e chi invece si abbassa sarà innalzato e si eleverà come gli alberi che svettano verso il cielo.

Sulla crescita naturale delle cose piccole è incentrato il brano della prima lettura di questa domenica, tratta dal profeta Ezechiele, che riportando il pensiero di Dio scrive un testo letterario di grande fascino ambientale e spirituale: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà”. Il simbolismo è chiaro.

Anche se si parla di piante ed alberi, in realtà, quello che riporta il profeta in nome di Dio è solo un forte richiamo agli esseri umani e alla stessa creazione e creature che l’abitano che Dio è il Signore, che umilia l’albero alto e innalzo l’albero basso, fa seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Una vera rivoluzione di modo di pensare per riportare al centro di ogni cosa il tema dell’umiltà e l’abbassamento dell’orgoglio.

San Paolo Apostolo nel brano odierno della sua seconda lettera ai Corinzi ci incoraggia ad sempre pieni di fiducia e, parimenti, ci ricorda che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo. Lo sappiamo tutti, anche se è difficile capirlo ed accettarla questa condizione di esiliati. In questa condizione particolare in cui ci troviamo noi camminiamo nella fede e non nella visione. Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.

Questo desiderio di ritornare a Dio contrasta con la nostra voglia di vivere su questa terra e con quel morboso attaccamento alle cose di questo mondo. Perciò, dobbiamo sforzarci a capire che sia abitando nel corpo sia andando in esilio, bisogna impegnarsi ad essere graditi a Dio. Il motivo è molto semplice e chiaro e ha attinenza con il giudizio personale ed universale. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando eravamo nel corpo, sia in bene che in male. Il giudizio di Dio non ci deve terrorizzare, ma spingere verso una vita santa e di conversione al bene, distanziandoci sempre di più dal male.

Ricordiamo quello che ascoltiamo nel Salmo 91 di oggi: “Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio. Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi, per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità.

 

 

APPELLO DEL TEOLOGO RUNGI. IL 26 APRILE ALLE 12 UN MINUTO DI SILENZIO PER TUTTE LE VITTIME DEL COVID-19

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ITRI (LT). IL PASSIONISTA, PADRE ANTONIO RUNGI, PER IL 26 APRILE 2021, A MEZZOGIORNO PROPONE UN MINUTO DI SILENZIO E PREGHIERA PER TUTTI I MORTI DI COVID-19

In vista delle prossime aperture, già da lunedì 26 aprile 2021, padre Antonio Rungi, teologo passionista, delegato arcivescovile per la vita consacrata dell’arcidiocesi di Gaeta, propone a tutti gli italiani un minuto di silenzio alle ore 12 per ricordare tutti i morti di Covid-19. “Si tratta di un’iniziativa di carattere simbolica e di sensibilità umana e cristiana verso coloro che hanno perso la vita in questo anno e che non possono essere dimenticati”, afferma padre Rungi, nella sua articolata riflessione etica e sociale, alla vigilia delle riaperture di tante attività sul territorio italiano.
La nota completa del teologo spazia su altri temi di grande attualità, su cui egli invita “a riflettere, soprattutto ad organizzare il futuro, con la consapevolezza di quanto si è vissuto e si sta continuando a vivere”.
Ecco il testo completo della riflessione di questa domenica 18 aprile 2021.
“Dal prossimo 26 aprile 2021, si dice che l’Italia apre i battenti dopo la serrata a causa del Covid-19. Una riapertura parziale visto che non saremo nell’assoluta libertà di muoverci, di non usare protezioni, né di incontrare chiunque. Riprendono quelle attività economiche e produttive finalizzate a non affossare ulteriormente l’economia del nostro Paese, da sempre segnato dalla mancanza di lavoro e di prospettive future.
Tutto giusto, tutto opportuno, ma rimane il problema della pandemia, che continua a fare strage in ogni parte d’Italia e del mondo. I morti continuano ad esserci ogni giorno, i malati di Covid continuano ad essere ricoverati in ospedale o rimanere a casa. I contagi persistono e non si sono azzerati, a conferma che dall’emergenza sanitaria non siamo ancora usciti e quindi ci vuole prudenza e saggezza nel nostro agire.
Tutte le campagne di vaccinazioni, tutta la nostra speranza di uscire fuori da questa tempesta sanitaria con la vaccinazione globale si scontra con la realtà, coni dati quotidiani e le costatazioni di 13 mesi di grandi sofferenze per tutti, non ancora superate.
I circa 117.000 morti, ad oggi, tra cui medici, infermieri, forze dell’ordine, volontari, vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose, fedeli laici, non possono passare sotto silenzio o essere dimenticati facilmente, perché preme l’esigenza di una ripresa della vita che deve dimenticare subito il passato e soprattutto la morte, che ha lasciato segni profondi nei pensieri, nella vita e nel cuore di tutti gli italiani. Noi siamo facili a dimenticare, perché l’oblio ci aiuta a vivere, ma non è così. I morti di coronavirus appartengono a tutti gli italiani e a tutto il mondo, perché sono il volto della sofferenza, del dolore e del buio, in questo anno terribile della pandemia. Pertanto, per il 26 aprile 2021 quando si ritornerà quasi del tutto alla vita normale in Italia, mentre altrove già questo è avvenuto, propongo che il nostro primo pensiero sia quello di ricordare tutti i morti di quest’anno, soprattutto coloro che hanno data la vita per salvare vite. Ricordarli a mezzogiorno del 26 aprile 2021, con un minuto di silenzio e di preghiera, in tutti i luoghi ed istituzioni, in base al proprio credo religioso, ricordare tutti i martiri del coronavirus. Questi nostri fratelli e sorelle non possono essere accantonati nel ricordo del passato, in quanto il passato non è quello remoto, ma quello prossimo e più vicino a noi, è il passato messo alle spalle da pochi minuti e secondi, né tantomeno possono essere rimossi dalla nostra coscienza, perché dobbiamo pensare al futuro e non più al passato.
E’ vero che siamo nel tempo di Pasqua e questo significa risurrezione, ma il Risorto porta con sé i segni della passione, della sofferenza e della croce.
Con Cristo la vita trionfa sulla morte, la speranza sulla disperazione, la fiducia sulla sfiducia, la gioia sulla tristezza, la ritrovata armonia degli incontri rispetto all’assurda solitudine di questo anno, ma in una sola cosa non potrà esserci passaggio al meglio ed al definitivo, soprattutto in questo tempo di pandemia, se abbiamo vissuto, sperimentato e testimoniato in questi 13 mesi l’amore verso il prossimo, specialmente nei confronti di chi era più debole e fragile sul territorio italiano, dove viviamo, ma anche dimostrando sensibilità verso tutta l’umanità, perché l’amore non ha confini,  non ha bisogno di perfezionarsi, e se è vero, autentico, generoso, e se è totale esso si esprime donando la vita come Cristo ha fatto per ciascuno di noi sulla croce.
L’esperienza della pandemia, che non è finita, e che non è alle nostre spalle, è semplicemente accantonata e messa temporaneamente in standby per motivi economici e di opportunità non può farci dimenticare quello che è successo in questi 13 mesi e che se non siamo accorti e prudenti in futuro, saggi ed intelligenti, potrà succederci di peggio. L’incoscienza, l’imprudenza e la superbia sono sempre all’angolo di ogni strada delle nostre città e della presunzione di quanti non considerano i limiti della mente, della ragione e della scienza.
Dio ci liberi da altri morti da pandemia e da altre sofferenze che con sé ha portato e porta questo terribile morbo, che ha ammorbato il mondo intero e dal quale usciremo vincitori solo se camminiamo a lavoriamo insieme per il bene dell’intera nazione italiana e  di tutta la comunità mondiale, e non solo di una parte di essa, non sempre, poi, quella più in necessità ed urgenza di essere curata, protetta e difesa da ogni morbo e non solo dal Covid-19, ma di tutta l’umanità bisognosa di sentirsi accumunata in un piano di salvezza globale e non solo per la pandemia, ma anche per il resto delle necessità di tutti gli esseri umani. Buona domenica a tutti.

CONTEMPLARE, ASCOLTARE E RIPARTIRE. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA II DOMENICA DI QUARESIMA 2021 A CURA DI PADRE ANTONIO RUNGI

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II Domenica di Quaresima

Domenica 28 febbraio 2021

Tra l’Oreb e il Tabor c’è solo un cammino da fare: quello della fede e della speranza.

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa seconda domenica di Quaresima ci invita a salire su due monti: il monte di Abramo, l’Oreb e il monte di Gesù, che è il Tabor, dove Egli si trasfigura.

Nella prima lettura, infatti, tratta dal libro della Gènesi si parla del sacrificio di Isacco, figlio di Abramo, avuto per miracolo nella vecchiaia e considerata la sterilità di sua moglie Sara. Questo dono del cielo, dal cielo stesso viene chiesto di sacrificarlo come segno di totale abbondono ai disegni di Dio.

Il testo biblico è sicuramente tra i più drammatici, da certi punti di vista, ma nello stesso tempo è aperto alla speranza e alla piena fiducia in Dio. L’ordine del Signore è chiaro e perentorio nei confronti di Abramo: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».

Abramo stranamente obbedisce senza porre delle domande: Signore perché, dopo che mi ha concesso il dono della paternità?.

Quante mamme e quanti papà vediamo nel volto triste ed angosciato di questo patriarca che sa benissimo che la vita, anche quella di un figlio, non gli appartiene, ma tutto dipende da Colui che dà la vita e che mantiene in vita.

Comunque Abramo fa quello che ha chiesto il Signore e così arrivarono, lui e il figlio, al luogo che Dio gli aveva indicato, il monte Oreb.

Nulla era preparato e tutto c’era da allestire per consumare il sacrificio di un giovane figlio.

E così, Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.

Nei sacrifici umani ritorna spesso il coltello come arma del delitto, dell’assassinio e nel caso specifico di un atto sacrificale.

A questo punto, Dio interviene mediante l’Angelo liberatore che ordina ad Abramo di non stendere la mano contro il ragazzo e non a fargli niente!.

Il motivo di questo gesto di tolleranza da parte di Dio sta nelle parole che seguono: “Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».

C’era, quindi, bisogno di verificare la fede di quest’uomo, padre e patriarca, prima di affidargli un compito molto importante.

E la fede di Abramo vince, perché nel suo cuore avrà pensato che il Signore non avrebbe permesso tutto questo.

Dio voleva constatare il coraggio della fede di questo uomo, totalmente votato ai suoi disegni e al suo volere.

La ricompensa del Signore per questo atto di fiducia non si fa attendere e così Abramo alzando gli occhi, vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.

Il sacrificio a Dio viene comunque assicurato ma si sostituisce la vittima; da una persona umana, giovane, ad un animale che normalmente veniva ucciso per esigenze di caccia e di alimentazione.

Ma il discorso non si conclude con quel gesto sacrificale sostitutivo. Infatti, l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e gli fa una promessa, un giramento vero e proprio, che ha il fondamento nella parola stessa di Dio che è fedele e dura in eterno: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

Si arriva alla conclusione di tutto il racconto. Da un sacrificio dell’unico figlio, che viene proposto e poi annullato da Dio, alla moltitudine dei figli di Abramo che ben conosciamo chi sono e cioè il popolo eletto.

Abramo così diventa il padre, non biologico di un intero popolo, ma il padre nella fede e come tale trasmette il dono più prezioso ai figli di questo popolo che è la fiducia totale e piena in Dio.

Saliamo adesso sull’altro monte, quello di Gesù, il Tabor e vediamo cosa succede qui.

Il vangelo di Marco ce lo dice sinteticamente: qui Gesù si trasfigura, presenti Elia e Mosè, appararsi a fianco a Lui nella gloria, davanti ai tre discepoli, Pietro, Giovanni e Giacomo, ascesi al sacro monte con il divino Maestro.

Tutto si sarebbero aspettavano i tre, ma non di certo di trovarsi davanti a questo scenario di paradiso che tocca il loro cuore e la loro mente al punto tale da far dire a Pietro: Signore è bello per noi stare qui, facciamo tre tende e ci stabilizziamo nella gioia e nel benessere eterno su questo luogo della vera felicità. Invece, dopo quel momento di estasi, si ritorna alla normalità, alla quotidianità, con all’orizzonte il monte Calvario, il monte della passione e morte in croce, ma anche della risurrezione del Signore.

L’episodio della trasfigurazione che è narrato nei tre vangeli sinottici (Marco 9:2-8, Matteo 17:1-8, Luca 9:28-36), ed è collocato dopo la confessione di Pietro, ci racconta che Gesù, dopo essersi appartato con i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, cambiò aspetto mostrandosi ai tre discepoli con uno straordinario splendore della persona e uno stupefacente candore delle vesti.

In questo contesto si verifica l’apparizione di Mosè ed Elia che conversano con Gesù e si ode una voce, proveniente da una nube, che dichiara la figliolanza divina di Gesù.

Lo splendore di Cristo richiama la sua trascendenza, la presenza di Mosè ed Elia simboleggia la legge e i profeti che hanno annunciato sia la venuta del Messia che la sua passione e glorificazione; la nube si riferisce a teofanie già documentate nell’Antico Testamento.

Una tradizione attestata già nel IV secolo da Cirillo di Gerusalemme e da Girolamo, identifica il luogo dove sarebbe avvenuta la trasfigurazione con il monte Tabor, letteralmente “la montagna”. Si tratta di un colle rotondeggiante e isolato, alto 588 m s.l.m., ossia circa 400 metri sul livello delle valli circostanti, nella Regione della Galilea, in Israele. Nella prima metà del XX secolo qui fu costruita la Basilica della Trasfigurazione e il monastero greco-ortodosso di Sant’Elia.

Il mistero luminoso della trasfigurazione del Signore, quindi, ci riporta all’essenza stessa del nostro rapporto con Dio e ci chiede di fare, soprattutto in questo tempo di quaresima e di pandemia, tre cose importanti: contemplare, ascoltare e ripartire. 

Contemplare significa riflettere sulla vita di Gesù. Al centro del metodo della contemplazione vi sono i sensi umani: vedere, udire, sentire.

Lo scopo della contemplazione è far crescere la conoscenza intima di Gesù Cristo, per amarlo di più e seguirlo più da vicino.

La contemplazione è una preghiera affettiva piuttosto che una riflessione intellettuale.

Meditazione e contemplazione fanno parte della tradizione della spiritualità cristiana che risultano particolarmente utili nel corso della Quaresima che è tempo forte per contemplare e meditare.

Altra cosa da fare è ascoltare Dio che parla a noi attraverso la legge e i profeti. La presenza di Elia e Mosé nella trasfigurazione di Cristo ci indicano i riferimenti più incisivi per ascoltare davvero Dio che parla a noi, soprattutto attraverso la voce di Cristo: questi è il mio figlio l’amato, ascoltatelo. Gesù non ci parla direttamente, non ci viene a fare una lezione o una predica, né ci appare in sogno o visione per dirci quello che dobbiamo fare. Egli ha parlato e continua a parlare a noi attraverso il sacramento della Chiesa, suo mistico corpo, nella quale un ruolo fondamentale ha Pietro, il Papa, che sale con Gesù su Monte Tabor e al quale Gesù stesso affida la sua chiesa. Egli continua a parlare con la voce di Giovanni e Giacomo e degli altri apostoli che personalmente hanno ascoltato il Signore. Non facciamoci parlare dalla voce di un altro apostolo, Giuda iscariota che fu il traditore.

Il terzo atto da compiersi è quello di ripartire, dopo aver contemplato ed ascoltato. E ripartire significa, nella logica della trasfigurazione e del monte Tabor, scendere a valle e camminare per le strade del mondo per annunciare la parola che salva. In questa valle di lagrime e di speranza noi dobbiamo essere gli annunziatori della gioia che ci viene da Dio nella contemplazione del suo Figlio, Gesù Cristo, nato, morto, risorto ed asceso al cielo per la nostra salvezza. Ripartire ce lo chiede anche il tempo della pandemia che stiamo vivendo e tale ripartenza riguarda non solo la vita economica e sociale, ma soprattutto la vita spirituale e cristiana, bloccata da tante limitazioni sanitarie che si sono trasformate in autolimitazioni per allontanarci, senza alcun motivo, dalla frequenza della Chiesa e dei sacramenti.

La parola di Dio di questa domenica sia un motivo in più per riflettere su come stiamo vivendo la nostra fede in questo tempo di prova e sofferenza e se proprio vogliamo farci guidare da essa, penso che sia quanto mai opportuno meditare sulla seconda lettura di oggi, tratta dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!”.

Come è facile capire, se fondiamo ogni nostro agire e soprattutto tutta la nostra vita in Gesù Cristo, chi potrà mai danneggiarci, offendere, umiliare, condannare? Nessuno, perché Cristo ci ha salvati e redenti e gli uomini di questa terra sono dei poveri illusi se pensano di essere i salvatori di questa o quell’altra situazione, compresa quella della pandemia. Senza la fede in Dio non si riesce in nulla, neppure nell’eliminare da questo mondo un semplice ma terribile virus.

La lezione di vita che ci viene dalla parola di Dio di questa domenica è chiara. Sta a noi capirla e come Abramo salire sul monte ed offrire tutto quello che è più importante e prezioso per noi. E Dio non si terrà per se qualsiasi gesto di amore, obbedienza e fiducia in Lui e ci ricompenserà già su questa terra con la pace del nostro cuore e la luce della nostra mente. Ma salire anche con Cristo sul Tabor per gustare la dolcezza e la serenità di stare in contemplazione dell’unico salvatore del mondo.

AIROLA (BN). LA CITTA’ SALUTA LE SUORE PALLOTTINE CHE PARTONO E LASCIANO.

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Airola (Bn). Le Suore Pallottine dopo 103 anni lasciano l’unica comunità della Valle Caudina.

di Antonio Rungi

Domenica prossima, 21 giugno 2020, sarà monsignor Domenico Battaglia, vescovo di Cerreto-Telese -Sant’Agata de’ Goti a presiedere la messa di saluto finale, nella Chiesa dell’Annunziata, in Airola (Bn), per la conclusione dell’esperienza apostolica delle Suore Pallottine nella ridente cittadina della Valle Caudina.

Oltre alle tre Suore, Mary, Clementina e Clara, che costituiscono l’attuale comunità di Airola, partecipano alla Santa messa di gratitudine per il lavoro svolto, in 103 anni di storia e di presenza in Airola, la Madre Generale delle Suore dell’Apostolato Cattolico (Pallottine) Suor Ivete Garlet e la Madre Provinciale, Suor Daniela Siniscalchi.

Nel rispetto delle norme per il Covid-19 partecipano, inoltre l’arciprete don Liberato Maglione, parroco della Chiesa di San Giorgio nell’Annunziata, il Sindaco della città, Michele Napoletano, con l’amministrazione comunale di Airola, insieme a rappresentanti di altre istituzioni locali.

Le Pallottine giunsero ad Airola, per la prima volta 103 anni fa, assumendo la direzione e la gestione della scuola d’infanzia “Regina Elena”.

Era, infatti, l’ottobre del 1917, in pieno conflitto mondiale, quando quattro Suore maestre di San Vincenzo Pallotti ed una direttrice giunsero da Roma dando inizio all’anno scolastico 1917-1918, nel giorno immediatamente successivo al loro arrivo.

La scuola materna fu voluta inizialmente dalla Congrega della Carità con lo scopo di accogliere i bambini poveri dai tre ai sei anni e di provvedere alla loro educazione culturale, morale e religiosa.

Successivamente, per la scarsa disponibilità finanziaria, si volle affidare la scuola alla Congregazione religiosa femminile, che in questi 103 anni ha operato con carità, premura e diligenza.

Sono stati anni di dedizione, di lavoro, di laboriosità, di impegno continuo e costante per la Congregazione fondata da San Vincenzo Pallotti, durante periodi difficili della storia di Airola, della Valle Caudina, dell’Italia e del Mondo, con la loro opera di insegnamento e di apostolato.

Basta ricordare la prima e seconda guerra mondiale, la ricostruzione nei periodi post-bellici e la rinascita del Paese, dopo il boom degli anni 60 del secolo scorso.

Anche la Congregazione delle Pallottine rifioriva di vocazioni e di anime consacrate che si dedicavano all’apostolato in Italia e all’Estero.

Purtroppo, negli ultimi decenni, come per tantissimi istituti, maschili e femminili di vita consacrata, le vocazioni in Italia sono diminuite consistentemente, nonostante l’apporto significativo delle suore, provenienti da altre nazioni.

Per cui, i rispettivi istituti hanno proceduto e stanno procedendo ad una riduzione di presenze e di attività, su cui un peso importante ha avuto l’attuale pandemia, nell’ultimo periodo.

Le Suore Pallottine lavorano prevalentemente nel campo dell’educazione dell’infanzia e venendo meno le attività scolastiche e soprattutto con la riduzione del numero delle Suore, sono costrette a chiudere in varie parti.

Questa volta è toccata ad Airola. E nonostante gli sforzi profusi dal Vescovo, dall’Amministrazione Comunale di Airola e da altre istituzioni del territorio per far restare le Suore, la Congregazione delle Pallottine ha deciso, per carenze di vocazioni, di chiudere la comunità di Airola, anche per un discorso di riorganizzazione interna dell’Istituto.

Le tre suore, infatti, hanno avuto già la nuova destinazione dalla Madre Provinciale e da lunedì saranno già nelle rispettive nuove case: Suor Mary ad Avella (Av), Suor Clementina nella Casa di riposo di Grottaferrata (Roma) e Suor Clara è in attesa della nuova destinazione.

Ad assumersi l’onere, da settembre in poi 2020, di portare avanti la scuola dell’infanzia “Regina Elena” di Airola, nella struttura, finora gestita dalla Suore Pallottine, di cui erano proprietarie fino a qualche anno fa, ma poi passata al Comune di Airola, saranno le Suore Povere del Cuore Immacolate di Maria “Vergine fatta Chiesa” (Suore Francescane Mariane). Per diretto interessamento del Vescovo, Domenico Battaglia hanno accettato di assumersi l’onere di continuare, con nuovo personale, l’opera educativa, formativa, scolastica  di accompagnamento delle giovani coppie, genitori degli alunni e direzione spirituale pe tutta la comunità airolana, iniziata nel 1917 dalle Suore Pallottine, che ora lasciano definitivamente la Valle Caudina, essendo la comunità di Airola l’unica operante in tutto il vasto territorio, ben noto nella storia e nella cattolicità.

La messa di saluto di domenica prossima, 21 giugno 2020, sarà una preziosa occasione per rendere onore ad un’istituzione, quelle delle Pallottine, per quanto ha fatto di bene in Airola a favore dei bambini, dei genitori e dell’intera comunità cittadina.

“Un altro pezzo di storia e di vita esemplare, alla luce del Vangelo della carità e del servizio all’infanzia, soprattutto più bisognosa, va via nella nostra amata cittadina”, ha commentato padre Antonio Rungi, passionista, originario di Airola, già Superiore provinciale dei Passionisti, teologo morale, attuale vicario episcopale per la vita consacrata dell’arcidiocesi di Gaeta, molto vicino alle Suore Pallottine, soprattutto quando avevano l’asilo nella sede istituzionale di Via Matteotti.

AIROLA (BN). E’ MORTO IL NOTO PASSIONISTA PADRE VINCENZO CORREALE. AVEVA 97 ANNI.

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Airola (Bn). E’ morto Padre Vincenzo Correale, sacerdote e missionario passionista

di padre Antonio Rungi

Alla veneranda età di 97 anni, ieri 6 febbraio 2020 è morto padre Vincenzo Correale, sacerdote passionista. Dopo una lunga malattia, riduttiva della sua autonomia, è morto in una struttura Rsa di Bonea (Bn).

Oggi, venerdì 7 febbraio, alle ore 10, la salma giungerà al convento dei padri passionisti di Airola, nell’antico monastero di Monteoliveto, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita e nel quale tre anni fa aveva celebrato i suoi 70 anni di vita sacerdotale.

I funerali del noto religioso si svolgeranno, domani, sabato 8 febbraio alle ore 10,30 nel Convento dei Passionisti di Airola.

Padre Vincenzo di Gesù e Maria (al secolo Vincenzo Correale), conosciuto come padre Romualdo, era nato il 9 marzo 1923 a Mercato San Severino (Sa) nell’Arcidiocesi di Salerno, da Agostino e da Adelaide Rega. Da piccolo entrò nel cammino vocazionale dei passionisti, in seguito ad una missione dei passionisti, predicata nel suo paese.

Svolto il regolare iter della scuola apostolica e del noviziato emetteva la professione religiosa il 22 settembre 1940 a Pontecorvo (Fr).

Completati gli studi teologici e filosofici, durante il periodo della seconda guerra mondiale, fu ordinato sacerdote nel 1947 a Paliano.

Iniziava così una lunga ed intensa attività di missionario e predicatore e successivamente di parroco in alcune comunità del Lazio Sud e Campania, tra cui Falvaterra (Fr).

Nella Congregazione dei passionisti ha ricoperto più volte l’ufficio di superiore locale e altri uffici.

Conosciuto ed apprezzato da tutti per la cultura, il senso pastorale, la generosità nel servizio e il coraggio dimostrato in tante situazioni è stato un esempio di buon pastore che ha avuto a cuore tutte le pecorelle dell’ovile, affidate alle sue cure pastorali, andando in cerca di quelle smarrite.

Un esempio per tutti: fu lui a costruire la nuova chiesa di San Tarcisio a Napoli, ricavando il tempio da un capannone di un’ex fabbrica della zona, con le opere annesse, essendo l’antica chiesa, a forma circolare, insufficiente rispetto alle esigenze della parrocchia, cresciuta numericamente e pastoralmente, soprattutto nel periodo affidata alla cura pastorale ai padri Passionisti di Santa Maria ai Monti.

Altro importante e consistente impegno nella ricostruzione della Chiesa parrocchiale di San Nicola in Zuni di Calvi Risorta (Ce), ultimo suo impegno pastorale, lasciato per raggiunti limiti di età e per la precaria salute, con il progressivo calo della vista.

Padre Vincenzo ha vissuto e svolto il suo ministero sacerdotale in vari conventi dell’ ex-provincia religiosa dell’Addolorata: Airola, Calvi Risorta, Falvaterra, Napoli, Paliano e ha predicato diverse missioni.

“Profondamente rattristato per la morte di carissimo padre Vincenzo, molto vicino alla mia famiglia, rammento che negli anni sessanta – ricorda padre Antonio Rungi, già superiore provinciale dei Passionisti del Lazio Sud e Campania dal 2003 al 2007 – era di comunità in Airola, mio paese natio. Qui svolgeva un’ampia azione di promozione vocazionale, insieme a padre Serafino Fava e padre Bernardino Cerroni, tra i giovani ed i ragazzi di Airola. Fu lui ad accompagnarci a diversi di noi, ragazzi di Airola, il 4 ottobre 1964, alla scuola apostolica di Calvi Risorta per iniziare quel cammino di formazione alla vita passionista e sacerdotale che alcuni di noi stanno ancora vivendo. Calvi Risorta, allora accoglieva centinaia di aspiranti alla vita religiosa e passionista. Da alcuni anni è stata chiusa per mancanza di vocazioni. Padre Vincenzo è stato un missionario apprezzatissimo – continua padre Rungi – ed uno dei sacerdoti passionisti impegnati pastoralmente più lungo nelle parrocchie.

Napoli e Calvi Risorta con i tanti fedeli delle rispettive parrocchie li ha portati sempre nel cuore e da buon pastore, con la gentilezza e la signorilità del carattere, sapeva accogliere ed aiutare tutti.

Carattere forte, tenace ed austero, sentiva forte la vocazione passionista per se stesso e per gli altri, desiderava ardentemente vivere il carisma di San Paolo della Croce con lo stile contemplativo, missionario, pastorale e penitenziale. Un passionista di altri tempi che tutti hanno voluto bene, anche i passionisti degli ultimi tempi. Da lui c’era tanto da imparare ed apprendere sempre”. Riposi in pace.

P.RUNGI – COMMENTO ALLA XXVII DOMENICA DEL T.O.- 7 OTTOBRE 2018

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XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

Domenica 7 ottobre 2018

L’essere per la comunione e per un amore puro e innocente

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa XXVII domenica del tempo ordinario ci fa riflettere sulla dignità della coppia umana e del matrimonio, come espressione di autentico amore, tra uomo e donna, secondo quanto stabilito dal Creatore, nell’atto della creazione.

Il libro della Genesi, che leggiamo come prima lettura oggi, ci riporta a questo momento della creazione della donna, successiva a quello dell’uomo, in quanto Dio stesso, che aveva già creato l’uomo si accorse che non era giusto che l’uomo fosse solo; per cui decise, per amore, di dargli un aiuto che gli corrispondesse. E così fece.

Il racconto biblico è molto significativo ed ogni parola e gesto ha una sua valenza di amore e di attenzione per la donna e verso la coppia, che così si costituisce nella pienezza di un amore vicendevole e di complementarietà. “

“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”.

A questo punto l’uomo prende consapevolezza e coscienza che si trova di fronte ad un essere uguale a lui, anche se con una struttura biologica e fisica diversa. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».

Due individualità singole, anche se uguali nella dignità e nel valore creazionale, non fanno coppia, né costituiscono di per sé la base di un amore reciproco. Bisogna quindi lavorare in quella prospettiva. Il superamento della solitudine individuale porta le due soggettività a prendere la decisione di fare coppia, in poche parole di mettersi insieme e fare famiglia.

Tanto è vero che il matrimonio naturale nasce da questo bisogno di superare l’individualità per formare una famiglia e costituire in comunione di vita due persone, due esseri umani con la stessa dignità e lo stesso peso rispetto alla vita e alla società: “Per questo l’uomo – leggiamo nel brano- lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”.

Questa espressione finale “un’unica carne” significa esattamente un unico progetto di vita per la vita e per l’amore.

Un progetto che si deve costruire e realizzare giorno per giorno, in quanto nulla è dato per scontato tra gli esseri viventi ed umani, al punto tale che le decisioni assunte, vanno vissute nella quotidianità, superando i limiti e le difficoltà, insite nella relazione di coppia, soprattutto ai nostri giorni.

Ecco perché nel Vangelo di oggi, di fronte a delle richieste di alcuni farisei che lo vogliono mettere alla prova Gesù, circa la questione del divorzio, il Maestro replica con quanto è scritto nella legge mosaica, ma, nello stesso tempo, potenzia il discorso sulla dignità del matrimonio affermando i due principi basilari del matrimonio stesso: unità e indissolubilità, ovvero fedeltà e coerenza per tutta la vita.

Quindi è chiaro che non è lecito ripudiare la moglie o il marito, anche se Mosè aveva permesso di sottoscrivere l’atto di ripudio per la durezza del cuore di chi aveva deciso liberamente di vivere da sposato.

Ma il volere di Dio è diverso. Infatti nella Genesi è scritto esattamente che l’uomo una volta che decide di mettere su famiglia deve camminare per questa strada, in quanto l’uomo non ha potere ed autorità di dividere quello che Dio ha unito.

Chiaro riferimento alla sacralità del matrimonio cristiano che è unico ed indissolubile.

Discorso molto dedicato ai nostri giorni, che deve confrontarsi con la pluralità delle culture, delle fedi, del modo di intendere e vivere la scelta coniugale nella società e nella chiesa di ieri, di oggi e di sempre.

Possono cambiare alcune forme esteriori, ma la sostanza del discorso e dell’argomentazione di Gesù rimane inalterata.

Infatti è Gesù stesso che ribadisce ai discepoli il suo pensiero e il suo insegnamento in merito.

Leggiamo nel brano del Vangelo che una volta rientrati a casa, i discepoli interrogarono di nuovo Gesù su questo argomento del matrimonio, del divorzio, dell’infedeltà coniugale. Ed Egli disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

In poche parole, rompere il vincolo o patto coniugale è frantumare la famiglia, che è la base della società e della stessa comunità cristiana. Si ribadisce il totale rifiuto del divorzio nella prospettiva cattolica, anche se, oggi, si va verso un’accoglienza pastorale dei divorziati come cammino spirituale necessariamente da farsi, perché la Chiesa, come scrive Papa Francesco, non deve chiudere le porte in faccia a nessuno.

Per essere accogliente, anche nella pastorale familiare, la Chiesa deve assumere come modello di comportamento quello dei bambini, citati nella parte finale del Vangelo di oggi.

Gesù a chi rifiuta una visione di chiesa dell’innocenza e della semplicità ribadisce che lo stile vero di una chiesa vera è quella rappresentata iconograficamente dai bambini: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso. E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro».

E allora quale deve essere lo stile di ogni cristiano? E’ abbracciare la semplicità, l’innocenza, la purezza, è benedire e sanare.

Concetti che troviamo espressi nel secondo brano della parola di Dio di oggi, tratto dalla lettera agli Ebrei.

Gesù Redentore e Salvatore, coronato di gloria e che è vicino ad ogni uomo della terra. Quel Gesù che non si vergogna di chiamarci fratelli, anche se degli esseri umani sono stati a condannarlo ad una morte infamante.

Dalla croce e con la croce, Gesù ha riportato nel solco dell’amore, del perdono e della fratellanza universale tutto il genere umano. Egli è davvero l’unico punto di convergenza e di unificazione di tutte le genti e di tutti i rapporti umani, a partire da quelli familiari.

Sia questa la nostra comune preghiera, oggi, domenica, giorno del Signore: “Dio, che hai creato l’uomo e la donna, perché i due siano una vita sola, principio dell’armonia libera e necessaria che si realizza nell’amore; per opera del tuo Spirito riporta i figli di Adamo alla santità delle prime origini, e dona loro un cuore fedele, perché nessun potere umano osi dividere ciò che tu stesso hai unito”. Amen.

P.RUNGI. IL COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA 23 SETTEMBRE 2018

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XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 23 settembre 2018

La classifica che conta davanti a Dio. In serie A del Paradiso si arriva con l’umiltà.

Commento di padre Antonio Rungi

In questa XXV domenica del tempo ordinario, la nostra riflessione parte dal testo del Vangelo, che è quello di più immediata comprensione ed attualizzazione nella vita dei singoli, come della comunità ecclesiale, sociale ed umana.

L’idea di fondo che Gesù vuol far passare ai discepoli è quella del servizio e non quella del potere, quella dell’ultimo posto e non quella del primo posto, in quanto nella classifica divina ciò che conta non è il primo in ordine di importanza, ma il primo in ordine di santità, di amore e disponibilità verso gli altri.

Gesù sviluppa questa sua riflessione e rivolge questo monito ed esortazione ai suoi dodici apostoli durante il viaggio di attraversamento della Galilea.

Egli come sempre conversa con i suoi discepoli e li prepara a quello che sta per succedere da lì a poco, a conclusione della sua missione terrena, indicando il termine ultimo di questo cammino, che è il Calvario, la croce e la morte.

Diceva infatti, loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».

Ma i discepoli, intenti in altri ragionamenti e calcoli terreni, come tutti gli esseri umani, non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

La lezione della croce non era stata recepita dai distratti discepoli, al punto tale che non chiesero spiegazioni.

Gesù conoscendo le sue pecorelle, quando giunse a Cafàrnao e fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?».

Beh, era ovvio che non potevano rispondere e quindi tacevano, in quanto non stavano affatto ad ascoltare la parola del Maestro e il suo insegnamento circa la croce e la risurrezione che si avvicinava sempre di più per Lui.

L’evangelista Marco, infatti, come ottimo osservatore e cronista, riporta l’argomento del discorrere degli apostoli: “Per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande”.

Mentre Gesù parla di sofferenza, loro parlano di potere, di chi doveva occupare il posto più prestigioso vicino a Gesù, chi doveva essere considerato e classificato come primo.

Ebbene, Gesù si siede e chiama a se il gruppo al quale fa questo discorso: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».

Per far capire il discorso dell’umiltà, Gesù usa uno stratagemma che colpisce sempre: prese “un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Accogliere Cristo è vivere nell’umiltà, nella semplicità, nel servizio, nella disponibilità piena al progetto di Dio, che è  Croce, ma soprattutto risurrezione e vita.

La logica di Dio è la logica del dono e non del potere e del primeggiare sugli altri, per far valere la propria autorità, ma mettersi al servizio ed essere la chiesa che si inginocchia davanti alle sofferenze dei fratelli e lenisce le piaghe e le ferite del corpo e dello spirito.

Il modello di ispirazione per ogni azione rispondente al disegno di Dio è Cristo, il Servo sofferente, il Crocifisso.

Anche in questa domenica si parla appunto della sofferenza di Gesù, come ci è riportato nel brano della prima lettura di oggi, ricavato dal Libro della Sapienza: [Dissero gli empi:] «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”.

Queste insidie le tesero contro Gesù i sommi sacerdoti, il sinedrio e quanti non accettavano il Maestro per quello che diceva e faceva. Da qui la condanna a morte. La prova di questa struttura mentale votata alla distruzione e all’annientamento dell’avversario religioso e politico, la troviamo nelle parole che seguono: “Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».

Esattamente quello che ha vissuto Gesù durante il processo, la condanna a morte, il viaggio al Calvario, la morte in croce. Ma lui ha vinto tutto questo odio con l’amore che promana dalla sua croce e dalla sua risurrezione.

L’odio porta alla divisione, alla separazione, alla guerra e al conflitto di interesse di qualsiasi genere.

San Giacomo Apostolo ci mette in guardia da tutto quello che divide e separa nella vita di ogni cristiano, rammentando che “dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni”. E l’apostolo va all’origine di questi disastri spirituali, interrogandosi e interrogandoci: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?”.

La risposta è lapidaria: “Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni”.

In poche parole succedono tutte queste cose, perché siamo una frana umanamente e spiritualmente, per cui facciamo disastri ad ogni livello.

Per superare tutti questi umani limiti è necessario essere umili e guardare al Crocifisso, chiave di lettura per parlare di pace, giustizia e fratellanza.

Facciamo questo sforzo di confrontarci con il Maestro Crocifisso e Risorto e non con il potere umano, politico ed economico che, secondo un paganesimo sempre più diffuso in tutti gli ambienti, compresi quelli religiosi, è causa di guerra, divisioni e gelosie, calunnie e diffamazioni che portano all’infelicità di chi accusa e dell’accusato.

Sia questa la nostra umile preghiera in questa domenica: “O Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un fanciullo la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”.

Diventiamo davvero grandi davanti a Dio, conquistiamo il primo posto nella classifica di Dio, mettendoci a servizio e donando la vita. In serie A, quella del Paradiso, si arriva con l’umiltà e il sorriso.