Predicazione

Omelia per la Quinta domenica di Quaresima – Domenica 6 aprile 2014

DOMENICA QUINTA DI QUARESIMA 

LAZZARO, IL RISUSCITATO 

di padre Antonio Rungi 

La quinta domenica di Quaresima, ci presenta un altro dei miracoli di Gesù: la risurrezione di Lazzaro. Si tratta di un miracolo con finalità ben precise, che, come è facile intuire, è un preavviso di quanto accadrà, con la stessa persona di Gesù. Per Lazzaro la risurrezione è temporanea, in quanto, come tutti gli esseri mortali, anche lui, dopo il miracolo del ritorno alla vita, è morto e in attesa della risurrezione finale; per Gesù è tutt’altra storia: la vita e la risurrezione fanno parte integrante della sua divinità. Dio è il Dio della vita e non della morte; per cui Gesù Risorto è anticipo della risurrezione finale di ogni persona. La risurrezione di Lazzaro è, invece, per la conferma della potenza e della divinità del maestro. Qui poi sono in gioco altri importanti sentimenti: quelli dell’amicizia, della sofferenza di Gesù, del rispetto che Egli ha verso ogni sofferenza, compresa quella delle due sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, che Gesù ben conosceva e quindi più vicine al suo cuore e soprattutto al suo insegnamento. Il discepolato di queste due sorelle e di un fratello emerge con forti accenti di fede e di fiducia nel Signore come ci ricorda un passaggio del brano del vangelo di questa domenica. Sono tutte due le sorelle, prima Marta e poi Maria, a rivolgersi a Gesù con queste parole “«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Dove c’è Gesù non ci può essere morte, ma solo vita. Questo non solo a livello fisico, ma soprattutto a livello spirituale. La vita che dona Gesù, è una vita speciale, senza limiti di tempo e di spazio, supera ogni barriera e si colloca nell’eternità. Leggiamolo questo bellissimo brano del Vangelo di questa domenica, che è il vangelo della vita, della risurrezione, dell’eternità, dell’amore, della compassione, dell’amicizia. In questo brano troviamo tutto il nostro Gesù, il Gesù umano e il Gesù divino. Il Gesù che piange, ma anche il Gesù che interviene, come in altri casi, e porta la speranza e la gioia nel cuore delle persone che sono vicine a Lui. Anche in questa circostanza notiamo un Signore attento alla sofferenza e che prima di intervenire, alimenta un dialogo con le persone circostanti. Qui il dialogo è svolto con persone che Egli ben conosce. Conoscere il loro cuore, il loro intimo, conosce i loro sentimenti e soprattutto la loro fede: Lazzaro, ormai morto da quattro giorni, uno in più dei tre giorni della morte di Gesù, è presente al Signore. Per Lui non è morto, perché chi vive nel Signore è sempre vivo e non sperimenta la morte. Tanto è vero che lo riporta alla vita fisica, biologica, lo fa uscire dalla tomba, come vi è stato collocato per confermare che la vita è un continuo per l’uomo. Di vita in vita. Mentre nella risurrezione di Gesù, tutto ciò che lo avvolgeva non era più intorno al suo corpo. La potenza della risurrezione in Gesù, è la stessa potenza della vita e della risurrezione che Gesù trasferisce sul corpo morto di Lazzaro, per cui ritorna alla vita per il tempo che la divina provvidenza e bontà di Dio aveva stabilito per Lazzaro. Ecco il testo integrale del vangelo di Giovanni, in cui si narra della risurrezione di Lazzaro:In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».

All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».

Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».

Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.

Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».

Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare». Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Il tema della risurrezione è anche presentato a noi nel brano della prima lettura di oggi, tratto dal libro del profeta Ezechiele. Un brano sintetico, ma profondamente ancorato ad una visione di vita, fortemente evidenziata dalle parole che vi leggiamo e che rimandano all’esperienza della morte, che non è l’ultima parola della vita e della storia dell’uomo.Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio”.

Qui non si allude  solo alla risurrezione corporale, ma soprattutto a quella spirituale, a quello uscire dalla morte interiore, dall’aridità spirituale attraverso la docilità allo Spirito Santo. Le ossa che riacquistano la vita, è l’umanità che riprende il cammino della speranza e della grazia alla scuola di Cristo, Signore della vita ed autore della grazia. Come popolo di Dio in cammino verso l’eternità, lasciamoci rivitalizzare dalla grazia santificante, che possiamo attingere abbondantemente alla sorgente stessa che è il Signore, morto e risorto e che nella Chiesa ha posto il deposito più grande per la salvezza delle anime: i sacramenti, come ci ricorda l’Apostolo Paolo nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla splendida lettera ai Romani, ricca di tanti spunti teologici e pastorali: “Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.

Penso che alla vigilia della Pasqua di quest’anno, ognuno di noi si rende conto che se viviamo nella dimensione esclusivamente carnale e passionale, non può piacere a Dio. Il corpo è tempio dello Spirito Santo e noi dobbiamo essere persone spirituali. E per essere tali, dobbiamo far prevalere nella nostra vita ciò che è divino e non ciò che è terreno. Il divino lo si sperimenta nel curare la vita spirituale e sacramentale, la vita di preghiera, l’ascesi e la contemplazione dei misteri della nostra fede, nel seguire gli insegnamenti di Gesù e nel prestare attenzione ad ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

La nostra preghiera oggi e sempre, sia quella che troviamo espressa nel Salmo 119, inserito in questa domenica quinta di Quaresima, a cavallo tra la prima e la seconda lettura, come ponte ideale per un cammino di conversione verso la gioia e la vita interiore: “Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica. Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti può resistere? Ma con te è il perdono: così avremo il tuo timore. Io spero, Signore. Spera l’anima mia, attendo la sua parola. L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora. Più che le sentinelle l’aurora, Israele attenda il Signore, perché con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”. E allora “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Amen.

Omelia di padre Antonio Rungi per la seconda domenica di Quaresima

SECONDA DOMENIA DI QUARESIMA

16 MARZO 2014

TRASFIGURATI DALLA TRASFIGURAZIONE DI CRISTO

di padre Antonio Rungi

 

La seconda domenica di Quaresima pone alla nostra attenzione il Vangelo della Trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor.

Possiamo dire che in questo giorno, come ad una lezione di spiritualità, siamo chiamati a fare esperienza di trasfigurazione, mediante la contemplazione del Cristo trasfigurato. Siamo, cioè, chiamati a trasfigurarci in Cristo, mediante un cammino di purificazione e di santificazione.

Vorrei in questa mia riflessione sottolineare un aspetto importante di questo mistero riguardante la vita di Gesù, un momento forte della sua vita terrena, quello di cambiare volto, vesti, aspetto esterno per comunicare ai tre discepoli, chiamati da Gesù stesso a seguirlo sul monte Tabor, la sua divinità.

La trasfigurazione è un’altra delle teofanie di Cristo, finalizzata a confermare la sua natura divina e la sua natura umana.

Non cambia la sua identità di Figlio di Dio, ma, nella trasfigurazione cambia l’aspetto esteriore.

Gesù trasfigurato, è lo stesso Gesù sfigurato nella passione.

La trasfigurazione è forte richiamo al mistero della santissima eucaristia.

Le specie rimangono uguali nella esteriorità, ma la sostanza cambiano.

Il pane diventa corpo del Signore, donato per noi, e il vino, il sangue di Cristo versato per noi sulla croce.

Gesù,  nella trasfigurazione davanti a tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, che vorrebbero restare lì per sempre, avendo sperimentato la gioia del paradiso in terra, ricorda che bisogna scendere da quel monte, per salire un altro monte, quello del Calvario, prima della glorificazione finale del Figlio di Dio, che è la risurrezione e l’ascensione al cielo.

La vita di ogni cristiano è un salire e scendere continuo, come è stata la vita di Cristo.

Gesù, nel Vangelo, lo incontriamo spesso sulla montagna, sulla collina, o in riva al mare, tra la gente. In solitudine o tra la folla, in preghiera o in azione, in momenti di gioia e in momenti di umana tristezza.

La contemplazione, esperienza forte di vita interiore, trova in Gesù trasfigurato sul Monte Tabor un esempio di come vivere noi la nostra trasfigurazione nella nostra quotidianità.

La base è la solitudine, il silenzio, la preghiera. Poi segue la parola di Dio, espressa qui attraverso l’apparizione di Mose ed Elia; poi il necessario approfondimento; poi il dialogo a tu a Tu con il Signore; poi il cambiamento della vita, che è sintetizzato nel cambiamento del volto di Cristo; infine, il cambiamento delle vesti, che indica il cambiamento del modo di agire, del nostro essere insieme agli altri.

Ad un’attenta lettura proprio del testo del Vangelo della Trasfigurazione, l’itinerario di ascesi e discesi lo comprendiamo perfettamente.

Non a caso durante la Quaresima, tempo forte dell’anno liturgico, a partire dal Papa e ad arrivare ai tantissimi fedeli, si avverte la necessità di una preghiera più profonda e silenziosa, di una preghiera del cuore, di una preghiera che trasformi davvero la nostra vita.

Gli esercizi spirituali che si moltiplicano in questi giorni, la necessità di una confessione più circostanziata dei propri peccati, mediante il sacramento della riconciliazione, una lettura più sistematica della parola di Dio e la meditazione continua di essa, la lectio divina ed altre forme di preghiera tradizionale o moderna non sono altro che normali strumenti della grazia ed aiuti concreti per assaporare il paradiso in terra.

La nostra trasfigurazione sull’esempio di Cristo avviene mediante questo salire sempre più in alto per assaporare la gioia di toccare il cielo con le mani, per essere davvero ad un passo dal cielo, per essere nel paradiso, al quale tutti aspiriamo di arrivare mediante una vita autenticamente cristiana, fatta anche di sofferenze e calvari, di patimenti e passioni da vivere, sull’esempio di Cristo, nostro maestro e guida.

Ascoltiamo il brano del vangelo della Trasfigurazione.

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.

Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.

Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

 

Sul tema della sofferenza è incentrata la seconda lettura di oggi, tratta dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo.

In questo sintetico brano, Paolo scrivendo al suo carissimo amico Timoteo, usa espressione di incoraggiamento nella lotta contro il male per essere autentico evangelizzatore, apostolo ed annunziatore della buona notizia della salvezza operata da Cristo sulla Croce:

“Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo”.

 

Cristo vincitore della morte, Cristo risorto è la base della fede di ogni cristiano. Il cristiano non è tale se non si mette alla sequela di Cristo. Non c’è cristiano senza la croce di Cristo, come ci ha ricordato continuamente, Papa Francesco, in questo primo anno del suo pontificato.

La nostra vita è davvero un uscire da noi stessi, dalle nostre certezze e sicurezze, affidarsi totalmente nella mani di Dio.

La Quaresima è questo itinerario di fede che è ben espresso dalla figura e dal cammino fatto da Abramo, quando il Signore gli chiede di lasciare tutto e seguire unicamente Lui.

Abramo senza esitazione, obbedì. E’ quella obbedienza della fede e della fiducia in Dio che spesso manca nella nostra vita, facendo sì che questa nostra esistenza terrena sia solo preoccupazione per le cose del mondo, mancando in noi la speranza, e non affidandoci alla provvidenza che viene dall’alto.

Leggiamo il brano della prima lettura di oggi, tratto dal libro della Genesi, dove ci viene presentata la chiamata di Abramo alla fede: “In quei giorni, il Signore disse ad Abram: «Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore”.

Ecco la nostra vita è un partire ed un patire continuo. Non si parte una sola volta, se non quando lasciamo questa terra per volare in cielo.

Le nostre partenze e ripartenze sono tante su questa terra. Bisogna capire chi ci chiama o spinge a partire: se Dio, Cristo, la fede o tutto ciò che non è Dio, Cristo o fede.

Quante volte ci mettiamo in marcia senza meta o allo sbando, o ci mettiamo in movimento per cose che non sono espressioni ed esigenza di fede.

Saliamo anche il Tabor, ma solo per assaporare la gioia. Poi non vogliamo scendere da questo luogo di felicità (e lo comprendiamo perfettamente), ben sapendo che ci aspettano, tantissime volte, prove di ogni genere.

Ci aspetta la passione e il dolore, come Gesù ci insegna oggi nel mistero della trasfigurazione. Noi non possiamo essere di meno del maestro, dobbiamo seguire le sue orme nella gioia e nel dolore, dobbiamo soprattutto metterci in sintonia con Lui ed ascoltarlo attentamente, specie se ci chiama a salire il monte del dolore, il monte della sua passione e morte in croce.

Sia questa la nostra preghiera: “O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli occhi del nostro spirito, perché possiamo godere la visione della tua gloria”. Amen.

 

runginov2013-3Quarta domenica di Avvento – Anno A – Domenica 22 dicembre 2013-L’attesa è già metà festa, come ci rammenta San Giuseppe. di padre Antonio Rungi 

La quarta domenica di Avvento è la domenica della preparazione immediata al Santo Natale. Si può ben dire che l’attesa è già meta festa, perché quando si attende qualcuno importante, l’attesa stessa ti riempie di gioia e ti fa preparare nel modo dovuto. E qui ad attendere non è una qualsiasi persona o fatto, ma Dio stesso che si fa nostro fratello, nel grembo verginale di Maria, la madre dolcissima di Cristo Redentore. Tutta la parola di Dio, infatti, di questa ultima domenica di avvento ci prepara alla grande festa della nascita del Messia e dell’atteso salvatore del mondo. Lo attende Maria, ma lo attende anche Giuseppe, il padre putativo, Colui che il Signore aveva scelto per essere il degno sposo della Madre del Signore, l’uomo giusto al posto giusto, con la capacità di intercettare i disegni di Dio e dare la sua convincente risposto al suo progetto divino. Nel racconto di questo unico evento della storia dell’umanità, l’evangelista Matteo sottolinea questa generosità di Giuseppe e questo suo totale abbandono a ciò che il Signore gli chiede di fare, di fronte ad un mistero insondabile della nascita di Gesù per opera dello Spirito Santo. E’ uno dei testi del vangelo più belli, emozionanti e coinvolgenti. Non è di tutti accettare con semplicità e con fede, con coraggio, senza temere il giudizio umano, ma solo accettare la volontà di Dio, come è stato per San Giuseppe, lo sposo castissimo della Beata Vergine Maria, il padre adottivo, putativo o legale di Gesù Cristo. Ecco il brano del vangelo di questa domenica nella sua immediatezza comunicativa: “Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”. Anche noi, carissimi, siamo chiamati a destarci dal sogno, per vivere nella realtà di tutti i giorni. Una realtà che ci impone delle scelte coraggiose, del si o no e che non ammette mezze misure circa la fede. Anche noi dobbiamo dire e rinnovare il nostro sì a Gesù Cristo, in questo Natale 2013, con la consapevolezza che egli viene nuovamente in mezzo a noi, per ridestarci dal sonno e dai sogni impossibili all’uomo, ma possibilissimi a Dio, se l’uomo di fa guidare dalla luce della fede e non solo e semplicemente della ragione e della scienza. Non dobbiamo aver paura di lasciare fare a Dio, completamente a Lui nella nostra vita, perché, siamone certi, Egli non ci deluderà, ma ci darà tutto quello che è necessario per il nostro bene. Il bene assoluto che Egli ci ha donato è lo stesso suo Figlio Gesù Cristo, venuto tra noi per aprirci le porte della salvezza eterna.Nella colletta specifica di questa quarta domenica, infatti, preghiamo con queste parole di grande speranza e di grande apertura al mistero: “O Dio, Padre buono,  tu hai rivelato la gratuità e la potenza del tuo amore, scegliendo il grembo purissimo della Vergine Maria per rivestire di carne mortale il Verbo della vita: concedi anche a noi  di accoglierlo e generarlo nello spirito con l’ascolto della tua parola,  nell’obbedienza della fede”. Accogliere Cristo con l’obbedienza della fede. Quella stessa obbedienza della fede che ha guidato Maria, la Vergine, nel grande mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, atteso dall’umanità e dal popolo credente in cammino verso la felicità, come ci ricorda il profeta Isaia nella prima lettura di questa giornata festiva: “In quei giorni, il Signore parlò ad Acaz: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto». Ma Àcaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore». Allora Isaìa disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele». Il Dio con noi sta con noi, è per noi, è in noi. Per Lui, con Lui ed in Lui noi assaporiamo ogni attimo della nostra vita, come è dolce vivere solo e soltanto per Iddio. Natale è la festa del Dio in noi. E’ la festa della comunione con Cristo e con i fratelli. Preparare questa festa a pochi giorni della celebrazione liturgica di essa, vuol dire aprire il cuore all’attesa vera dentro di noi: “Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada  e dalle nubi scenda a noi il Giusto;  si apra la terra e germogli il Salvatore. Ecco la nostra invocazione di oggi e di sempre per preparare il Natale di questo 2013 e tutti i Natali che il Signore vorrà donarci per il resto della nostra ed altrui vita. Questa gioia del Natale e più in generale del vangelo, come ci ricorda costantemente Papa Francesco, noi abbiamo il diritto e dovere di gridarla al mondo intero, come sottolinea l’Apostolo Paolo nella seconda lettura di questa domenica, tratta dalla Lettera ai Romani: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio – che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l’obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome, e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo –, a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo!”.Anche noi, fratelli carissimi, davanti all’imminente celebrazione del Santo Natale, vogliamo farci queste domande, come proposte nel salmo responsoriale: “Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli”. Chi potrà celebrare degnamente questo Natale 2013? La risposta sta nella parola di Dio di questa domenica che deve diventare parola di vita. Potrà celebrare e festeggiare il Natale chi non si è macchiato di crimini o che si sia pentito veramente; chi ha avuto ed ha sentimenti puri e belli; chi non si è costruito o pensa di costruirsi idoli di qualsiasi genere, ma cerca nel profondo del suo essere  il Dio vero, che Gesù Cristo ci ha rivelato nel mistero della sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione. Buon cammino verso il Natale, ormai vicino, insieme a Giuseppe e a Maria.

Il Commento di padre Antonio Rungi per la III Domenica di Avvento- 15 dicembre 2013

Terza domenica di Avvento – Anno A – Domenica 15 dicembre 2013

La gioia è un diritto e dovere di ogni cristiano 

Commento alla parola di Dio di Padre Antonio Rungi, passionista

La terza domenica di Avvento è la domenica della gioia. Per la verità tutte le domeniche, tutti i giorni, tutti gli attimi della nostra vita sono motivo di gioia e danno gioia. Si tratta di comprendere il vero significato e senso della gioia cristiana, che questa domenica ci vuole trasmettere per tre motivi principali: la vicinanza del Santo Natale, la parola di Dio incentrata su questo tema e l’insegnamento della Chiesa che indirizza il nostro modo di pensare ed agire da cristiani nell’ottica della gioia. Papa Francesco con la sua recente esortazione apostolica “Evangelii gaudium” ci spinge a pensare ed operare nella prospettiva della gioia che viene da Cristo, uno salvatore del mondo. Sant’Agostino scriveva che per il cristiano la gioia è un dovere, da parte sua Santa Teresa d’Avila, ribadiva che il Signore ama i cuori gioiosi, le anime sempre sorridenti. E san Giovanni della Croce, sosteneva con forza che la gioia è il sole dell’anima: essa illumina colui che la possiede e riscalda tutti quelli che ne ricevano i raggi. I santi di ogni tempo e dei nostri tempi, proprio perché immersi nella gioia di Cristo hanno potuto ribadire la necessità di vivere nella gioia, con gioia e per la gioia. Da qui anche il magistero recente di Papa Francesco che ha voluto sottolineare l’importanza della gioia nella vita di ogni cristiano. Nella prima lettura della liturgia odierna, da profeta Isaia, è messo in risalto questo tema, guardando speranza alla venuta dell’atteso messia e salvatore del popolo di Israele e indirettamente di tutta l’umanità. Israele è infatti il centro della religiosi di un Dio, che si è rivelato ed ha comunità, tramite Mosè, la sua salvezza, quella che tocca le profondità dell’essere stesso dell’uomo e della storia:  “Si rallegrino il deserto e la terra arida,  esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca;  sì, canti con gioia e con giubilo. Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio. Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete!  Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina.  Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto. Ci sarà un sentiero e una strada  e la chiameranno via santa. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore  e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto”.

Non sono pie esortazioni queste affermazioni del Profeta, né un decalogo temporaneo per sperimentare la gioia di un Natale, ma sono fondamentali atteggiamenti di vita che ogni cristiano deve assumere, sempre, per avere fede in Dio e viverla con coerenza, coraggio e capacità di rinnovarsi, anche davanti ai drammi più pesanti della vita personale e sociale. La gioia del Natale che vogliamo sperimentare alla luce di questo messaggio è questa capacità di guardare all’immediato futuro con speranza e fiducia nel Signore.San Tommaso d’Aquino scriveva che “chi vuole essere migliore, deve possedere la gioia spirituale”.

Sullo stretto rapporto tra gioia e speranza è incentrato il secondo brano della liturgia della parola di questa terza domenica di avvento, tratto dalla lettera di san Giacomo apostolo, nella quale ci invita alla positività e dalla costruttività in tutto, prendendo a modello il lavoro dell’agricoltore:  “Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore”. La gioia cristiana è costanza nella fatica, nel rigenerarsi spiritualmente, dando spazio ad una vita interiore ed umana sempre più qualificata ed elevata, nel saperci accettare o sopportare, coscienti più che mai che abbiamo limiti e nessuno è esente da peccato. Il cristiano che si guarda sinceramente dentro, sa dove deve operare per migliorare se stesso e far migliorare gli altri. Scriveva il Beato Giovanni XXIII, prossimo Santo: “Cercate la gioia, portando dappertutto una nota di sincerità, di rettitudine, evitando ciò che è bugia e infingimento, perché dalla propria vita zampilli un fiotto continuo di acqua viva, che sale fino alla vita eterna”.

Chi può darci il sapore e la consistenza di una gioia vera? Per un credente è fuori di ogni dubbio e legittima messa in discussione: E’ Cristo, il Messia. Ce lo ricorda con chiarezza il testo del Vangelo di oggi. Di fronte alla spasmodica attesa di Israele del Salvatore, Giovanni, il precursore, si fa portavoce delle istanze della comunità dei credenti, “per mezzo dei suoi discepoli mandò a dire a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Ecco i contenuti essenziali del Vangelo della gioia che siamo chiamati ad annunciare e testimoniare noi cristiani del XXI secolo, quello stesso che ha  proclamato Gesù e Giovanni il Battista, e che Papa Francesco mette sotto i nostri sguardi con le prime parole della sua recente esortazione apostolica: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”.

Fratelli carissimi, il Natale 2013 sia un Natale in cui davvero incontriamo Cristo nella sua parola, nei suoi sacramenti, nella sua Chiesa e soprattutto nella sua carità senza limiti.  Con Gesù Cristo nel nostro cuore, sperimenteremo, nonostante le sofferenze e le prove della vita, la vera gioia che viene da Dio.

 

 

 

 

Scauri (Lt). Stasera inizio della Novena dell’Immacolata predicata da P.Rungi

Chiesa-Immacolata

Scauri (Lt). Novena dell’Immacolata predicata dal teologo padre Antonio Rungi

Sarà padre Antonio Rungi, missionario passionista del santuario della Civita, teologo morale, a predicare il solenne novenario in onore della Madonna Immacolata nella Chiesa intitolata alla Vergine Immacolata in Scauri, situata sulla Statale Appia. L’inizio del novenario che è molto frequentato dai fedeli della dinamica comunità parrocchiale, guidata da don Massimo, inizia questa sera, 29 novembre e si chiude con la solennità dell’8 dicembre. Nel corso del novenario, padre Rungi detterà la meditazione serale durante la messa vespertina e le tematiche scelte dal predicatore sono quelle della recente esortazione apostolica di Papa Francesco “Evangelii gaudium”, pubblicata alla conclusione dell’anno della fede, lunedì 25 novembre 2013. Il programma del novenario prevede la preghiera del santo rosario, la preghiera della novena in onore della Madonna Immacolata e la celebrazione della santa messa vespertina delle ore 18.00. La liturgia sarà animata dalla schola cantorum parrocchiale e dai fedeli laici collaboratori della stessa parrocchia dell’Immacolata. Domenica 1 dicembre e domenica 8 dicembre le messe festive secondo l’orario dei giorni festivi. Padre Rungi, noto predicatore passionista, ritorna a distanza di due anni a predicare in questa comunità parrocchiale in occasione della solennità dell’Immacolata. La devozione alla Madonna sotto questo titolo è molto sentita in tutta l’arcidiocesi, soprattutto in seguito alla proclamazione del dogma dell’ Immacolata, pronunciato da Pio IX nel 1854, a cinque anni di distanza della sua storica visita del febbraio 1849 al Santuario della Civita, quando era esule in Gaeta. Da allora in tutta l’arcidiocesi sono sorte chiese e associazioni, congreghe ed attività pastorali e parrocchie in onore della Madonna Immacolata a conferma di un straordinario culto mariano che è vissuto dalla comunità dei credenti in tutti i comuni dell’arcidiocesi di Gaeta.

LA MEDITAZIONE PER IL RITIRO SPIRITUALE ALLE SUORE ANCELLE DEL SACRO CUORE

ANCELLE DEL SACRO CUORE DI CATERINA VOLPICELLI

FRATTAMAGGIORE – NAPOLI

SECONDO INCONTRO DI FORMAZIONE – 28 NOVEMBRE 2013

GUIDA SPIRITUALE: P.ANTONIO RUNGI – PASSIONISTA

<<La chiamata di Dio: dall’evento parola all’esperienza>>

“La vocazione dei cristiani alla gioia”

 1.Introduzione

La vocazione è la manifestazione della profonda e misteriosa natura di Dio, che si rivela come amore assoluto ed assolutizzante aperto all’uomo, il quale viene interpellato da Dio nella sua totalità e nel profondo del suo essere al punto di dover necessariamente manifestare le proprie doti di generosità e di accettazione del dono divino o, al contrario, le opposte facoltà di egoismo e di rifiuto. Da sempre l’uomo è chiamato da Dio ed  è invitato a lasciarsi amare da Lui, in piena libertà di accettazione o di rifiuto della mano che gli viene tesa con amorevole gratuità. Questo dono di Dio all’uomo segna le differenti tappe della rivelazione divina e del cammino dell’uomo, di colui che acconsente come di colui che rifiuta. La storia della “vocazione dell’uomo all’incontro con Dio” inizia con la creazione dell’intero universo (Gen 1-2) e trova la sua definitiva conclusione nei tempi ultimi, quando l’intero creato sarà “ricapitolato” in Cristo Signore (Ef 1,10) e sarà eternamente dichiarato beato chi avrà saputo custodire, con fedeltà, l’eterna parola di verità pronunciata dalla bocca di Dio (Ap 22,7.18 s).L’odierna società civile dà scarso rilievo all’appello che viene da Dio e, in senso più generale, alle esigenze dello spirito, salvo poi dichiararsi favorevole alla promozione ed alla crescita della dignità umana percorrendo strade e scegliendo mezzi contrari, se non addirittura ostili, ai progetti di Dio.Sollecitato dalla “chiamata” divina ed associato al progetto salvifico in forza di una specifica missione che gli viene affidata dal suo Creatore e Salvatore, l’uomo risulta credibile agli occhi di Dio se sa trascendere i propri limiti creaturali per consegnarsi, con fiduciosa speranza, alle superiori esigenze dell’amore di Dio, resosi manifesto, nella pienezza dei tempi (Gal 4,4), in Gesù Cristo e nel dono dello Spirito.

2.DALL’ESORTAZIONE APOSTOLICA  EVANGELII GAUDIUM DI PAPA FRANCESCO

1. La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni. 

2. Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore di Cristo risorto. 

3. Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché « nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore ».[1] Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. Questo è il momento per dire a Gesù Cristo: « Signore, mi sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono qui un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te. Riscattami di nuovo Signore, accettami ancora una volta fra le tue braccia redentrici ». Ci fa tanto bene tornare a Lui quando ci siamo perduti! Insisto ancora una volta: Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia. Colui che ci ha invitato a perdonare « settanta volte sette » (Mt 18,22) ci dà l’esempio: Egli perdona settanta volte sette. Torna a caricarci sulle sue spalle una volta dopo l’altra. Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in avanti! 

4. I libri dell’Antico Testamento avevano proposto la gioia della salvezza, che sarebbe diventata sovrabbondante nei tempi messianici. Il profeta Isaia si rivolge al Messia atteso salutandolo con giubilo: « Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia » (9,2). E incoraggia gli abitanti di Sion ad accoglierlo con canti: « Canta ed esulta! » (12,6). Chi già lo ha visto all’orizzonte, il profeta lo invita a farsi messaggero per gli altri: « Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme » (40,9). La creazione intera partecipa di questa gioia della salvezza: « Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri » (49,13). 

Zaccaria, vedendo il giorno del Signore, invita ad acclamare il Re che viene umile e cavalcando un asino: « Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso! » (Zc 9,9). Ma forse l’invito più contagioso è quello del profeta Sofonia, che ci mostra lo stesso Dio come un centro luminoso di festa e di gioia che vuole comunicare al suo popolo questo grido salvifico. Mi riempie di vita rileggere questo testo: « Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia » (Sof 3,17). 

È la gioia che si vive tra le piccole cose della vita quotidiana, come risposta all’invito affettuoso di Dio nostro Padre: « Figlio, per quanto ti è possibile, tràttati bene … Non privarti di un giorno felice » (Sir  14,11.14). Quanta tenerezza paterna si intuisce dietro queste parole!  

5. Il Vangelo, dove risplende gloriosa la Croce di Cristo, invita con insistenza alla gioia. Bastano alcuni esempi: « Rallegrati » è il saluto dell’angelo a Maria (Lc 1,28). La visita di Maria a Elisabetta fa sì che Giovanni salti di gioia nel grembo di sua madre (cfr Lc 1,41). Nel suo canto Maria proclama: « Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore » (Lc 1,47). Quando Gesù inizia il suo ministero, Giovanni esclama: « Ora questa mia gioia è piena » (Gv 3,29). Gesù stesso « esultò di gioia nello Spirito Santo » (Lc 10,21). Il suo messaggio è fonte di gioia: « Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » (Gv 15,11). La nostra gioia cristiana scaturisce dalla fonte del suo cuore traboccante. Egli promette ai discepoli: « Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia » (Gv 16,20). E insiste: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia » (Gv 16,22). In seguito essi, vedendolo risorto, « gioirono » (Gv 20,20). Il libro degli Atti degli Apostoli narra che nella prima comunità « prendevano cibo con letizia » (2,46). Dove i discepoli passavano « vi fu grande gioia » (8,8), ed essi, in mezzo alla persecuzione, « erano pieni di gioia » (13,52). Un eunuco, appena battezzato, « pieno di gioia seguiva la sua strada » (8,39), e il carceriere « fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per aver creduto in Dio » (16,34). Perché non entrare anche noi in questo fiume di gioia? 

6. Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto. Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie: « Sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere …Questo intendo richiamare al mio cuore, e per questo voglio riprendere speranza. Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie. Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà … È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore » (Lam 3,17.21-23.26). 

7. La tentazione appare frequentemente sotto forma di scuse e recriminazioni, come se dovessero esserci innumerevoli condizioni perché sia possibile la gioia. Questo accade perché « la società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia ».[2] Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice. In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo. Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: « All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva ».[3]

 

8. Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice. Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?

 

3. La vocazione nell’Antico Testamento

La vocazione (concetto espresso in ebraico dal termine qara’ ed in greco dal verbo kaléo, “chiamare”) esprime e rappresenta, nel contesto biblico vetero-testamentario, la prima esplicita manifestazione del rapporto di elezione che l’amore eterno di Dio stabilisce con Israele, popolo “scelto” tra molti altri popoli più potenti, ricchi e famosi di lui. Con lo stesso misterioso criterio di scelta, Dio ha “eletto”, in seno al popolo ebraico, dei personaggi non particolarmente dotati di specifiche virtù umane, ma da Lui considerati alla stregua di veri “figli” (cf. Os 11,1; Dt 14,1), per farne suoi messaggeri, o portavoce della sua volontà di salvezza, sancita a varie riprese con “patti di alleanza”.

L’alleanza sancita sul monte Sinai ratifica la risposta positiva del popolo ebraico, sulla cui elezione libera e gratuita da parte di Dio viene posto il definitivo sigillo. Prima della stipula dell’alleanza sinaitica, però, Dio vuole chiarire il significato della vocazione del popolo ebraico al fine di evitare futuri equivoci. Rivolgendosi a Mosè, Dio gli rammenta la fine ingloriosa fatta dagli egiziani, travolti dalle acque durante l’inseguimento degli ebrei fuggitivi e gli chiarisce il senso della dignità e della missione di quel popolo “eletto”, definito da Dio stesso come “figlio primogenito” (Es 4,22): gli ebrei devono ascoltare la voce di YHWH, osservare i termini dell’alleanza, essere un regno di sacerdoti, una nazione santa e ricordare di essere, tra tutti i popoli della terra, l’esclusiva proprietà di Dio (Es 19,4 s).

La chiamata di Dio provoca il giudizio (in greco, krìsis) attuale ed escatologico del genere umano, poiché da essa scaturisce una sanzione per chi si ribella alla Parola divina, disprezzandola, oppure la realizzazione delle promesse divine per chi l’accoglie con pienezza di fede e d’amore. Infatti, la vocazione/chiamata divina sollecita ed esige sempre una risposta da parte del chiamato e le espressioni bibliche più ricorrenti, per esprimere tale risposta, sono: “ascoltare la voce” e “osservare l’alleanza” di Dio, che sta per essere stipulata.

Il popolo eletto accoglie prontamente l’alleanza, voluta da Dio, con una proclamazione collettiva e vincolante: “Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo” (Es 19,8). Su questo impegno solenne, preso dagli ebrei davanti al Signore Dio, si giocheranno le sorti future del popolo eletto; ogniqualvolta gli ebrei si allontanano dal solenne giuramento di fedeltà a Dio sono puniti, spesso in modo assai severo e quando si ravvedono, assumendo comportamenti  coerenti con la Legge consegnata da Dio a Mosè sul monte Sinai, sono gratificati con periodi di pace e di prosperità. I testi biblici, che narrano le vicende storiche di Israele durante il periodo dei giudici e dei re, espongono questo modo di procedere di Dio nella storia del suo popolo, il quale prende gradualmente coscienza di essere una “nazione santa”, un “regno di sacerdoti”, destinatario di privilegi sconosciuti ad altri popoli.

Il popolo eletto, infatti, riconosce di essere addetto, in modo del tutto speciale, al servizio di Dio, alla purezza del suo culto sulla terra, alla sua conoscenza ed alla sua adorazione. Ogni israelita si sente responsabile della presenza stessa di Dio sulla terra e da ciò scaturisce la santità, ossia la separazione da tutto ciò che non è Dio e di Dio, il distacco radicale da ogni profanità.

Si comprende come la chiamata di Dio, o vocazione, coincida con una richiesta di santità che il Creatore rivolge alle sue creature.

La  vocazione sacerdotale di tutta la nazione caratterizza, in ogni tempo della sua storia, la vita d’Israele, anche quando esso è ridotto soltanto ad un misero “resto” a causa delle tragiche vicende belliche, in cui viene coinvolto a causa dell’insipienza della sua classe dirigente, politica e sacerdotale. Quando il popolo eletto sembra essersi allontanato completamente dall’impegno preso con il suo Dio, s’impongono con forza all’attenzione di tutto il popolo i profeti, figure carismatiche caratterizzate da un’assoluta dedizione a YHWH ed alle sue esigenze sulla terra, dall’impegno nel far custodire al popolo, od a fargli recuperare, Dio stesso e l’osservanza della sua alleanza/presenza, dalla fedeltà nell’indicare i piani di salvezza di Dio anche a costo della propria vita.

La vocazione profetica d’Israele è auspicata proprio dal “profeta” Mosè (Nm 11,29) e descritta da Baruc come una vera beatitudine (Bar 4,4), mentre in altri testi essa è interpretata come un esempio di intima relazione tra Dio ed Israele, cui tutti i popoli guardano con reverenza e timore (Dt 28,10), la dimostrazione lampante che tutto proviene dall’amore gratuito di Dio e dalla sua potenza trasformatrice (Is 41,14; 43,1; 48,12). Proprio la vocazione dei profeti rappresenta il prototipo delle vocazioni nell’Antico Testamento: Dio si rivolge alla coscienza più profonda ed intima di un essere umano, fino al punto di sconvolgerne l’esistenza e trasformandolo in un “uomo nuovo”. Ogni profeta svolge una missione peculiare, che non sempre accetta senza opporre una qualche resistenza a Dio perché intuisce le difficoltà cui andrà incontro.

La vocazione dei profeti s’inserisce nel contesto della vocazione profetica di tutto il popolo eletto, di cui essi rappresentano la coscienza critica e di cui garantiscono i reali interessi, anche rammentandogli gli impegni religiosi assunti solennemente con YHWH (cf. 1Re 18,30 ss; 2Re 2,12; 2Re 13,14; Is 6,5; 8,18; 20,3; Ger 8,18.21.23; 14,17; 23,9 s; Ez 12,6.11; 24,16.21.24).

Generalmente un profeta, chiamato da Dio a parlare in nome e per conto suo agli uomini, è consapevole che da tale vocazione non riceverà onori né vantaggi personali, ma che, al contrario, sarà considerato come un corpo estraneo dalla società in cui vive, se non addirittura un nemico (Is 8,11; Ger 12,6; 15,10; 16,1-9), sicché ognuno reagisce alla chiamata con ansia (Is 6,5), ma anche con generosità (Is 6,8), oppure accampando scuse plausibili per ritrarsi dall’impegno (Es 4,10-17; Ger 1,6), o “subendo” in qualche modo l’irruenza con cui Dio entra nella sua vita mediante visioni stupefacenti o terrificanti (Ez 1,4-3,15; cf. Is 6,1-4; 1Re 22,19-23). Per il timore di compromettersi troppo con Dio, c’è anche chi tenta inutilmente la fuga (Gn 1,3) o chi cerca delle garanzie nel dubbio di sentirsi preso in giro (Gdc 6,11-23), ma c’è pure chi è disposto a cambiare radicalmente la propria esistenza senza battito di ciglia (Gen 12,1), fidandosi istintivamente di Colui che chiama, senza fare troppi calcoli umani (Es 3,4). La vocazione profetica non risparmia neppure i non ebrei, che profeticamente agiscono per compiere la volontà salvifica di Dio anche senza rendersene pienamente conto (Nm 23,3.16; Ger 27,4-7; Is 48,14), a dimostrazione che Dio non fa lo schizzinoso come gli uomini, i quali tendono ad emarginare chi non appartiene al proprio gruppo etnico, linguistico, culturale o religioso.

Spesso, il profeta dell’Antico Testamento svolge anche la funzione di intercedere presso Dio per conto degli uomini, i quali andrebbero incontro ad un tragico destino di morte e distruzione senza la mediazione di queste persone “predilette” da Dio (Gen 20,7; 1Sam 7,5.8; Es 8,4.8.26.27; 32,11-14.31;

 

4. La vocazione nel Nuovo Testamento

Nell’ambito neo-testamentario, la vocazione colloca l’uomo nella sfera della salvezza scaturita da Cristo e legata alla sua opera (2Ts 2,14), in conseguenza della quale il battezzato è chiamato ad essere “la creatura nuova” (2Cor 5,17) in grado di essere “partecipe della natura divina” (2Pt 1,4). Rivolgendosi agli irrequieti cristiani della comunità di Corinto, sua croce e delizia, Paolo li descrive come “santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1,2). A ben vedere, è proprio questo il dato fondamentale della vocazione cristiana, in generale e di ogni vocazione particolare, in senso stretto. Dio è “colui che chiama” (Rm 9,12; Gal 5,8) ed i cristiani sono dei “con-vocati” per essere chiesa (ek-klesìa, con-vocazione) di Dio Padre in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito (cf. 1Ts 1,1; 2Ts 1,1; 1Cor 1,2; 2Cor 1,1 ecc.).

Secondo la prospettiva biblico-teologica del Nuovo Testamento, la vocazione è legata al “mistero di Cristo”, ossia alla rivelazione del piano salvifico divino “formulato nel Cristo Gesù nostro Signore”, “mistero che Dio, creatore dell’universo, ha tenuto in sé nascosto nei secoli passati”, ma che ora è stato “rivelato per mezzo dello Spirito ai suoi santi apostoli e profeti” e che consiste nel fatto che, ora, “i pagani sono ammessi alla stessa eredità, sono membri dello stesso corpo e partecipi della stessa promessa in Cristo Gesù, mediante il vangelo” (Ef 3,5s.9.11).

La vocazione cristiana ha una dimensione universale, è estesa a tutti gli uomini, ma per prendervi parte occorre essere consenzienti, manifestando la fede in Cristo. La dimensione universale, cattolica della vocazione o chiamata degli uomini alla fede in Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio e redentore dell’umanità e dell’intero universo, non è stata subito evidente ai discepoli di Gesù, profondamente impregnati di cultura ebraica e, pertanto, convinti che il privilegio di essere membri del popolo eletto, scelto in modo esclusivo da YHWH come suo popolo e “famiglia”, si estendesse in modo unico e totalizzante anche alla loro appartenenza alla ristretta cerchia degli eletti, salvati da Cristo.

Il disprezzo per i pagani, o gentili, era superiore al desiderio di accoglierli nella “famiglia dei salvati” in Cristo e ci volle l’irruenza e la costanza di un apostolo sanguigno e coraggioso, fino alla temerarietà, come Saulo di Tarso per scuotere le incrollabili certezze dei confratelli giudei, il cui capo “ufficiale” era Pietro, piuttosto condiscendente e disposto al dialogo coi gentili, succube però del “vero” capo della comunità cristiana di Gerusalemme, la Chiesa-madre di tutto il movimento cristiano dell’antichità: s. Giacomo, detto il Minore e noto per essere il “fratello (o cugino) del Signore Gesù ed altrettanto famoso per la sua incrollabile fedeltà alle tradizioni giudaiche (cf. At 15,1-29).

La santità e l’essere “santificati in Cristo Gesù” riassumono il contenuto della vocazione (ossia della chiamata alla santità rivolta da Dio a tutti gli uomini in Cristo Signore), in forza della quale tutti coloro che accettano di aderire a Gesù, con fede piena e libera, sono come “separati” dagli altri uomini per essere totalmente di Dio (cf. Rm 9,24; Col 3,11; At 2,39; Is 57,19). Il vocabolo ebraico qadōš, santo, è stato tradotto in greco con un significativo àghios, letteralmente “non terreno”; santo, dunque, è colui che partecipa della santità di Dio, che è purissimo spirito, non corruttibile né delimitabile, come tutto ciò che è materiale e soggetto alle leggi del tempo e dello spazio, ma neppure sfiorato dal male. Chi è santo non è tale per meriti propri, ma perché è stato “santificato” da Dio in Cristo per mezzo dello Spirito. Il cristiano, dunque, ha il grande privilegio di essere “chiamato” a vivere, in pienezza e per partecipazione, la santità di Dio, senza per questo dover evadere dal mondo in cui Dio stesso l’ha collocato per essere “segno” della sua  misteriosa ed ineffabile presenza nel mondo (cf. 1Cor 5,10). Come spiega s. Paolo, tramite la vocazione cristiana la vita acquista un valore del tutto nuovo, poiché si realizza un rapporto esclusivo (1Cor 7,20.22) tra Dio e quanti sono da Lui consacrati e chiamati ad essere suoi collaboratori nella manifestazione del suo progetto di salvezza (Rm 8,28-30). A loro modo, i “chiamati” godono già dell’attributo essenziale di Dio e del suo Cristo, che è l’essere “santo”. La volontà di Dio, ricorda ancora Paolo, consiste nel fatto che ciascun essere umano è chiamato alla santità, non all’impurità propria di chi volontariamente decide di accontentarsi della realtà materiale, eludendo le superiori esigenze dello spirito (1Ts 4,3.7). Durante la vita presente, il cristiano è sollecitato a compiere continuamente delle scelte coerenti con la propria vocazione alla santità (Ef 4,1-6) e, come termine di confronto, ha niente meno che la santità di Dio (1Pt 1,15); per realizzare nella propria vita questo “cammino” vero e proprio verso la santificazione personale e comunitaria, i cristiani devono attingere necessariamente ed a piene mani alla grazia divina, che offre doni di salvezza, di pace, di libertà, di gratuità, di amore e di speranza, doni che vanno condivisi con generosità e non tenuti egoisticamente per sé. Occorre sottolinearlo, non ci si salva mai da soli! La vocazione, infatti, è un atto d’amore divino rivolto al singolo ed in singole circostanze, richiede un impegno personale costante e fedele (2Pt 1,10), ma non si esaurisce nella salvezza di una sola persona: Cristo è morto per tutti e a tutti deve giungere la lieta notizia della salvezza, donata con l’effusione del suo sangue.

Da ciò scaturisce la dimensione missionaria della vocazione cristiana, in forza della quale ogni cristiano diventa un collaboratore attivo di Cristo nella diffusione del suo vangelo, facendo della propria personale “chiamata” alla salvezza un dono da condividere con tutti gli uomini, liberi di accogliere o di respingere la redenzione offerta da Cristo per mezzo della sua Chiesa, la quale, essendo il “Corpo mistico di Cristo”, è al tempo stesso presenza attuale e garanzia certa della futura salvezza eterna. Da tali principi trae origine e sviluppo la vocazione alla santità di ogni singolo membro del Corpo di Cristo: la Chiesa non è santa per la somma addizionale della santità dei suoi singoli membri, ma perché è resa tale da Cristo, che è il suo Capo e che chiama tutti i suoi discepoli a spogliarsi della propria carnalità, intrisa di peccato, per rivestirsi di Lui (Rm 13,14; Gal 3,27), il “tre volte Santo” (Is 6,3; Ap 4,8).

Itri (Lt). Mostra missionaria delle Alcantarine per sostenere il Ciad

Una mostra missionaria fatta con lavori realizzati dalle suore e dagli anziani ricoverati presso la Casa di Riposo San Martino delle Suore Alcantarine di Itri è stata allestita nell’androne della Casa di Riposo che ubicata nel centro storico di Itri. Il motivo di questa iniziativa è quello di sostenere la missione della Suore Alcantarine presenti in Africa e particolarmente nel Ciad, in cui le popolazioni locali necessità bei beni essenziali alla sopravvivenza umana. Gli oggetti sono messi a disposizione di coloro che visitano la mostra e lasciano la loro libera offerta per questo scopo umanitario. Le 11 suore della fraternità delle Alcantarine di Itri insieme ai 15 anziani si impegnano con un apposito progetto di valorizzazione del tempo e delle competenze della terza età a realizzare piccoli ed accessibili oggetti per questo nobile scopo. La nostra è stato oggetto di riflessione e di attenzione particolare durante il ritiro spirituale che le Suore Alcantarine hanno svolto oggi, mercoledì 6 novembre, sotto la guida spirituale di padre Antonio Rungi, missionario passionista della comunità della Civita, che opera sul territorio come predicatore e conferenziere. Oggi, infatti, il sacerdote ha parlato alle 11 suore Alcantarine di Itri sul tema della testimonianza evangelica e della promozione umana. Per quanti vogliono visitare la mostra e lasciare la proprio offerta per la nobile causa del sostegno alla missione in Africa lo possono fare tutti i giorni, nell’orario di apertura al pubblico della struttura che va di solito dalle 9.00 del mattino alle 18-19 di sera.

Itri (Lt). Le suore Alcantarine in ritiro spirituale nella giornata di oggi.

rungi5-13.jpgSarà padre Antonio Rungi, passionista del Santuario della Civita, a guidare oggi 6 novembre il ritiro spirituale delle Suore Francescane Terziarie Alcantarine di Itri, che gestiscono una casa di riposo per gli anziani nel centro storico di Itri. Tema di questo importante incontro delle 10 religiose con il teologo Rungi è la testimonianza evangelica della vita consacrata nella chiesa e nel mondo contemporaneo alla luce degli insegnamenti di Papa Francesco, molto attento alle religiose. La giornata di ritiro inizia nel mattino, alle ore 10.00 con la prima conferenza e il dialogo fraterno sul tema trattato, prosegue poi con l’adorazione eucaristica, e nel pomeriggio con l’approfondimento personale e la verifica comunitaria del lavoro spirituale svolto nel corso della giornata. Dopo la trattazione della tematica della donna nella Bibbia, i ritiri spirituali mensili che si svolgeranno presso la struttura della casa di riposo San Martino delle Suore Alcantarine di Itri verteranno sulla testimonianza delle vita religiosa e di suora in particolare nel contesto del mondo d’oggi. Le suore Alcantarine di Itri sono impegnate nel servizio della carità verso gli anziani. Nella loro struttura, infatti, vengono accuditi e curati diverse persone della terza età. Parimenti le suore sono impegnate nella pastorale parrocchiale e collaborano costantemente con le parrocchie di Itri, guidate dallo scorso ottobre 2012 dal parroco don Guerino Piccione, con la collaborazione dal primo ottobre scorso del vicario parrocchiale, il novello sacerdote don Gennaro Petruccelli. L’assistenza spirituale alle Suore è assicurata dai sacerdoti diocesani e dai passionisti presenti in Itri.

Mercoledì 30 Ottobre 2013 Ritiro spirituale alla Stella Maris

1400308_488695227896227_235077767_o.jpgSaranno in ritiro spirituale per tutta la giornata di mercoledì 30 ottobre 2013 le Suore di Gesù Redentore della Stella Maris di Mondragone, che insieme ad un gruppo consistente di fedeli parteciperanno alla giornata di ringraziamento a conclusione dell’Anno della fede, che le religiose, figlie spirituali della Serva di Dio Madre Victorine Le Dieu, intendo svolgere alla vigilia della Solennità di Tutti i Santi e dei Fedeli Defunti. A guidare la giornata di spiritualità e di ringraziamento sarà padre Antonio Rungi, missionario passionista, teologo morale e docente. La giornata è incentrata sulla riflessione sui frutti dell’Anno della fede e sulla vita esemplare della Serva di Dio Victorine Le Dieu. Si inizia alle ore 9.00 con l’accoglienza; alle 9,30 la preghiera delle Lodi; alle 10.00 la prima meditazione dettata da P.Rungi; alle 11,15 l’Adorazione eucaristica; alle 12,15 la celebrazione della santa messa; alle 15,00 la preghiera della Divina Misericordia; alle 16,00 la seconda meditazione dettata dal teologo P.Rungi; alle 17,00 la celebrazione dei Vespri e la conclusione. Al ritiro spirituale e alla giornata di ringraziamento sono attesi diversi fedeli del territorio che, ogni mese, si ritrovano insieme a pregare alla Stella Maris per un cammino di fede, sostenuti dalla spiritualità e dal carisma delle Suore di Gesù Redentore che è l’adorazione, la riparazione e la riconciliazione.

Catechesi sul Sacramento della Confessione

confessione.jpgLA CONFESSIONE a cura di P. Antonio Rungi
1.Il sacramento della Confessione necessita di essere riscoperto non solo dai fedeli, ma anche dai sacerdoti. E’ un appello questo che ci viene da Papa Francesco continuamente ed anche oggi. Pertanto, i sacerdoti devono incoraggiare i fedeli ad accostarsi al sacramento della Penitenza e devono mostrarsi disponibili a celebrare questo sacramento ogni volta che i cristiani ne facciano ragionevole richiesta. Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del buon pastore che cerca la pecora perduta, quello del buon Samaritano che medica le ferite, del padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto giudice che non fa distinzione di persone e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insomma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell’amore misericordioso di Dio verso il peccatore. Qui riportiamo alcuni testi riguardanti il sacramento della Confessione, tratti dal Catechismo della Chiesa cattolica.
2.Cristo ha istituito il sacramento della Penitenza per tutti i membri peccatori della sua Chiesa, in primo luogo per coloro che, dopo il Battesimo, sono caduti in peccato grave e hanno così perduto la grazia battesimale e inflitto una ferita alla comunione ecclesiale. A costoro il sacramento della Penitenza offre una nuova possibilità di convertirsi e di recuperare la grazia della giustificazione.
3.La struttura fondamentale della Confessione comporta due elementi ugualmente essenziali: da una parte, gli atti dell’uomo che si converte sotto l’azione dello Spirito Santo: cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione; dall’altra parte, l’azione di Dio attraverso l’intervento della Chiesa. La Chiesa che, mediante il Vescovo e i suoi presbiteri, concede nel nome di Gesù Cristo il perdono dei peccati e stabilisce la modalità della soddisfazione, prega anche per il peccatore e fa penitenza con lui. Così il peccatore viene guarito e ristabilito nella comunione ecclesiale.
4.La formula di assoluzione in uso nella Chiesa latina esprime gli elementi essenziali di questo sacramento: «Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace. E io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo »
5.Tra gli atti del penitente, la contrizione occupa il primo posto. Essa è «il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire».
6.È bene prepararsi a ricevere questo sacramento con un esame di coscienza fatto alla luce della Parola di Dio. I testi più adatti a questo scopo sono da cercarsi nel Decalogo e nella catechesi morale dei Vangeli e delle lettere degli Apostoli: il discorso della montagna, gli insegnamenti apostolici.
7.La confessione dei peccati (l’accusa), anche da un punto di vista semplicemente umano, ci libera e facilita la nostra riconciliazione con gli altri. Con l’accusa, l’uomo guarda in faccia i peccati di cui si è reso colpevole; se ne assume la responsabilità e, in tal modo, si apre nuovamente a Dio e alla comunione della Chiesa al fine di rendere possibile un nuovo avvenire. In poche parole si vergogna di quello che ha fatto ed inizia una vita nuova.
8.La confessione al sacerdote costituisce una parte essenziale del sacramento della Penitenza: «È necessario che i penitenti enumerino nella confessione tutti i peccati mortali, di cui hanno consapevolezza dopo un diligente esame di coscienza, anche se si tratta dei peccati più nascosti e commessi soltanto contro i due ultimi comandamenti del Decalogo, perché spesso feriscono più gravemente l’anima e si rivelano più pericolosi di quelli chiaramente commessi».
9.Secondo il precetto della Chiesa, «ogni fedele, raggiunta l’età della discrezione, è tenuto all’obbligo di confessare fedelmente i propri peccati gravi, almeno una volta nell’anno». Colui che è consapevole di aver commesso un peccato mortale non deve ricevere la santa Comunione, anche se prova una grande contrizione, senza aver prima ricevuto l’assoluzione sacramentale, a meno che non abbia un motivo grave per comunicarsi e non gli sia possibile accedere a un confessore. I fanciulli devono accostarsi al sacramento della Penitenza prima di ricevere per la prima volta la santa Comunione.
10.Sebbene non sia strettamente necessaria, la confessione delle colpe quotidiane (peccati veniali) è tuttavia vivamente raccomandata dalla Chiesa. In effetti, la confessione regolare dei peccati veniali ci aiuta a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire nella vita dello Spirito. Ricevendo più frequentemente, attraverso questo sacramento, il dono della misericordia del Padre, siamo spinti ad essere misericordiosi come lui.
11.Molti peccati recano offesa al prossimo. Bisogna fare il possibile per riparare (ad esempio restituire cose rubate, ristabilire la reputazione di chi è stato calunniato, risanare le ferite). La semplice giustizia lo esige. Ma, in più, il peccato ferisce e indebolisce il peccatore stesso, come anche le sue relazioni con Dio e con il prossimo. L’assoluzione toglie il peccato, ma non porta rimedio a tutti i disordini che il peccato ha causato. Risollevato dal peccato, il peccatore deve ancora recuperare la piena salute spirituale. Deve dunque fare qualcosa di più per riparare le proprie colpe: deve « soddisfare » in maniera adeguata o «espiare» i suoi peccati. Questa soddisfazione si chiama anche « penitenza ».
12.La penitenza che il confessore impone deve tener conto della situazione personale del penitente e cercare il suo bene spirituale. Essa deve corrispondere, per quanto possibile, alla gravità e alla natura dei peccati commessi. Può consistere nella preghiera, in un’offerta, nelle opere di misericordia, nel servizio del prossimo, in privazioni volontarie, in sacrifici, e soprattutto nella paziente accettazione della croce che dobbiamo portare. Tali penitenze ci aiutano a configurarci a Cristo che, solo, ha espiato per i nostri peccati una volta per tutte. Esse ci permettono di diventare coeredi di Cristo risorto, dal momento che « partecipiamo alle sue sofferenze » (Rm 8,17).
13.Poiché Cristo ha affidato ai suoi Apostoli il ministero della riconciliazione, i Vescovi, loro successori, e i presbiteri, collaboratori dei Vescovi, continuano ad esercitare questo ministero. Infatti sono i Vescovi e i presbiteri che hanno, in virtù del sacramento dell’Ordine, il potere di perdonare tutti i peccati « nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ».Il perdono dei peccati riconcilia con Dio ma anche con la Chiesa. Il Vescovo, capo visibile della Chiesa particolare, è dunque considerato a buon diritto, sin dai tempi antichi, come colui che principalmente ha il potere e il ministero della riconciliazione: è il moderatore della disciplina penitenziale. I presbiteri, suoi collaboratori, esercitano tale potere nella misura in cui ne hanno ricevuto l’ufficio sia dal proprio Vescovo (o da un superiore religioso), sia dal Papa, in base al diritto della Chiesa.
14.Alcuni peccati particolarmente gravi sono colpiti dalla scomunica, la pena ecclesiastica più severa, che impedisce di ricevere i sacramenti e di compiere determinati atti ecclesiastici, e la cui assoluzione, di conseguenza, non può essere accordata, secondo il diritto della Chiesa, che dal Papa, dal Vescovo del luogo o da presbiteri da loro autorizzati.
15.«Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in intima e grande amicizia ». Il fine e l’effetto di questo sacramento sono dunque la riconciliazione con Dio. Coloro che ricevono il sacramento della Penitenza con cuore contrito e in una disposizione religiosa conseguono « la pace e la serenità della coscienza insieme a una vivissima consolazione dello spirito». Infatti, il sacramento della Riconciliazione con Dio opera una autentica «risurrezione spirituale», restituisce la dignità e i beni della vita dei figli di Dio, di cui il più prezioso è l’amicizia di Dio. Questo sacramento ci riconcilia con la Chiesa. Con esso, il peccatore, rimettendosi al giudizio misericordioso di Dio, anticipa in un certo modo il giudizio al quale sarà sottoposto al termine di questa esistenza terrena.