Predicazione

LA SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI – 1 NOVEMBRE 2014

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SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

SABATO 1 NOVEMBRE 2014

Una moltitudine di santi che ci insegnano la vita della santità

Commento di padre Antonio Rungi

Gli ultimi santi di questi mesi, quelli elevati agli onori degli altari e quindi da poter venerare, ci dicono quanto sia possibile a tutti raggiungere quella che è la meta e il traguardo più importante della nostra vita: il santo paradiso. Papi, Vescovi, sacerdoti, religiosi laici, di tutte le età, condizioni sociali, nazionalità fanno parte della schiera ufficiale dei santi riconosciuti. Nonostante il numero elevato, se fossero soltanto e semplicemente loro i santi, allora il paradiso sarebbe davvero molto vuoto ed anche triste. Invece i santi sono tutti quelli che anche la parola di Dio di questa solennità annuale con data fissa ci fa considerare ed anche pregare. Nella visione della Gerusalemme celeste, San Giovanni Evangelista ci descrive quella consolante realtà del cielo, dove tutti quanti aspiriamo ad arrivare, non senza fatica e dolore: “E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». I santi sono i salvati, coloro che hanno risposto con amore all’Amore, fino a dare la vita per il Signore. Quel Signore, Gesù Cristo, morto sulla croce, che ha dato la sua vita per noi, proprio per riportarci all’amicizia eterna con Dio. E allora chi sono i santi? «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello». La santità è purificazione ed oblazione, è capacità di accettare la volontà di Dio e fare della sua volontà il proprio cibo spirituale. Santi, allora, non è soltanto Giovanni Paolo II, Giovanni XXIII e tutti i santi riconosciuti dalla Chiesa, ma sono tutti coloro che si sono salvati, perché si sono purificati dalle loro macchie, dal peccato, da tutto che allontana il cuore dell’uomo da Dio. Santi sono e saranno su questa terra, quanti sono poveri in spirito, secondo quanto afferma Gesù nel celebre discorso della montagna che passa come le Beatitudini. Santi sono coloro che sono nella sofferenza di ogni genere e che accettano tutto per amore di Dio, salendo con Cristo il calvario del dolore, ma soprattutto dell’amore che si fa dono. Santi sono i miti che come il mite Agnello, Gesù Cristo, vanno alla morte senza proferire parole, si donano nel silenzio e nel sacrificio di ogni giorno. Santi sono quelli che lottano per la giustizia e la pace e che questi motivi vengono massacri ed uccisi. Santi sono coloro che sanno perdonare, anche di fronte alle offese, calunnie, infamie e maldicenze ricevute. Santi sono coloro che nutrono nel cuore alti valori morali, spirituali e sentimentali e che non vedono ombra di malizia e peccato in nessuna parte. Santi sono i pacifisti e pacificatori che credono e lottano per un modo in cui l’uomo sia all’uomo non un lupo, ma un agnello mansueto. Santi sono anche tutti coloro che da sempre ed oggi rischiano la loro vita per difendere i diritti dei poveri e degli ultimi. La sostanza del vangelo sta, infatti, in questa opzione preferenziale per i poveri e nessuno deve umiliarli o maltrattarli. Santi sono coloro che portano avanti nel mondo il pluralismo della fede, rivendicando giustamente il rispetto della fede cristiana. Quanti martiri anche oggi per questo motivo in varie parti del mondo.

La consapevolezza di essere in un posto speciale dell’immenso cuore di Dio Padre, noi possiamo di dire con l’Apostolo Giovanni di avere una identità che nessuno potrà mai toglierci e una verità assoluta che non può essere messa in discussione: “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. Figli di Dio e la che dopo la morte saremo simili a Lui, perché lo vedremo faccia a faccia. Il Paradiso dei santi a cui aspiriamo è guardare e contemplare in eterno il volto d’amore di Dio Padre, di Dio Figlio, di Dio Spirito Santo, il volto della Santissima Trinità, il volto più bello e perfetto che ha incarnato sulla terra il volto di Dio, Maria Santissima, che ci attende in paradiso. Pensare al paradiso non è, come qualcuno afferma, drogarsi nella vita, illudersi senza avere certezze di alcuni tipo. Pensare al paradiso è pensare all’essenza dell’uomo, che è stato fatto per la felicità con una identità poco meno inferiore degli angeli.  E’ avere una speranza che non delude, ma rende puri, come ricorda l’evangelista Giovanni nel testo della sua prima lettera: Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

Preghiamo tutti i nostri santi, i nostri protettori e in questo giorno di festa in cielo, sia anche festa in terra, nei nostri cuori, nelle nostre famiglie, nelle nostre nazioni, tra tutte le persone che amano Dio e l’uomo nella sincerità del loro cuore, per cui sono in festa, in quanto nell’amore c’è la gioia e la santità vera.

COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA 26 OTTOBRE 2014

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XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

UN GESU’ SOTTO ESAME CONTINUO DA PARTE DEI FARISEI

Commento di padre Antonio Rungi

 

Anche nel Vangelo di oggi, XXX domenica del tempo ordinario, ci troviamo di fronte ad un Gesù che è sotto esame da parte dei farisei.

Domenica scorsa Gesù, nel Vangelo, viene interrogato se era lecito o meno pagare il tributo a Cesare, oggi viene interrogato sulla gerarchia dei comandamenti. Diciamolo con estrema franchezza, come d’altra parte si evince dal testo biblico, si tratta di una messa alla prova per avere di cosa accusarlo ed eliminarlo dalla scena religiosa e sociale del tempo.

Gesù dava fastidio ai potenti del tempo, perché il suo messaggio d’amore, di giustizia, pace, verità, legalità, fraternità, di opzione preferenziale per i poveri, gli emarginati, era in netto contrasto con chi deteneva il potere religioso e politico. Da qui la necessità di sentire, falsamente, l’opinione del maestro, ritenuto, solo apparentemente autorevole da chi questa autorità morale e religiosa a Gesù non l’avevano affatto riconosciuta.

Il tema quindi in gioco è l’importanza dei comandamenti e la loro struttura gerarchica. Potremmo dire che viene prima Dio e poi gli altri. Gesù, tuttavia, è preciso nella risposta e coniuga i due comandamenti nell’unico comandamento dell’amore e della carità.

In sintesi non si ama Dio, senza amare l’uomo, e non si ama l’umanità se non si ama Dio.

L’amore di Dio e l’amore del prossimo camminano di pari passo e nessuno può escludere una parte dell’unico comandamento a favore dell’altra.

Leggiamo il testo del vangelo con grande attenzione e meditiamo ogni parola ed espressione, mettendoci dalla parte dei provocatori o poi assumendo il ruolo di Gesù Maestro.

D’altra parte, anche noi a volte sfidiamo Dio con le nostre provocazioni, con le nostre contestazioni aperte. Ma Dio che comprende le nostre ribellioni, ci dice esattamente quello che ha detto attraverso la voce del suo Figlio, Gesù Cristo, quando viene interpellato sul tema della carità e dell’amore.

Ecco il testo completo del Vangelo di Matteo: “In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Come ben sappiamo questo testo biblico è un richiamo esplicito di quanto  è  già detto e sancito nella Legge e nei Profeti dell’Antico Testamento. Gesù conferma la struttura di rivelazione dell’amore di Dio effettuata nel corso dei secoli per bocca dei profeti e poi codificata nella legge d’Israele.

Nessun cambiamento radicale o sostanziale rispetto al passato, propone Gesù. E’ in gioco la modalità e la misura, ma non l’amore. Siamo, infatti, in una perfetta continuità con quanto già si sapeva circa la gerarchia dei comandamenti da osservare.

Dio va amato con tutto il cuore, le energie e senza limiti, senza misura e parimenti l’uomo va amato avendo come parametro e unità di misura il “se stesso”.

Se da un lato l’amore verso Dio deve caratterizzarsi come totale risposta dell’uomo a questo amore; dall’altro, l’amore verso i fratelli deve trovare un riscontro oggettivo nell’amore che normalmente una persona ha di se stesso. Non si tratta di egoismo, ma di avere un criterio per misurare il grado di amore verso gli altri. Amare se stessi, significa prendersi cura della propria persona, curarsi da tutti i punti di vista. Essere in poche parole samaritani di noi stessi e diventare samaritani per gli altri, in modo da sanare le ferite anche infette del cuore e dell’anima se ci sono nella nostra vita. Non bisogna aver paura di guardarsi dentro e scoprire le proprie fragilità al fine di ricominciare una vera vita di amore e di vero amore verso se stesso, verso gli altri e soprattutto verso Dio, che è amore.

Questo amore verso noi stessi e gli altri come si esplicita, come si concretizza? In poche parole, cosa dobbiamo fare per essere in regola con la legge antica e nuova? Ci viene in aiuto il testo della prima lettura di oggi, tratto dal Libro dell’Esodo, dove sono esplicitate le regole morali e giuridiche che si devono seguire per non danneggiare il prossimo.

Leggiamolo questo brano: “Così dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani. Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».

In sintesi, possiamo trovare delle norme sull’accoglienza dello straniero. E quanto sia attuale questa norma lo comprendiamo alla luce dei problemi dell’immigrazione presente in modo abnorme in Italia.

Il secondo problema è la questione delle vedove e degli orfani. Anche qui siamo su un piano non solo di assistenza sociale, ma soprattutto umana. Chi è senza marito e chi è orfano di uno o di entrambi i genitori deve avere la massica accoglienza nel cuore delle persone e nelle leggi di uno stato civile.

L’altro drammatico tema è quello dell’usura, molto ricorrente nel popolo d’Israele e oggi, nel nostro contesto sociale ed economico, di vera e propria piaga sociale ed emergenza sociale. Quante persone sono sotto usura illegalmente e quanto usura si fa anche legalmente chiedendo interessi altissimi quando le banche danno un prestito con i soldi dei risparmiatori. Tassi d’interesse minimi per i risparmiatori, tassi di interesse altissimi quando si fa credito. La crisi economica di oggi è anche questo, il sistema di usura legale ed illegale che spopola dovunque.

Ultimo tema è quello della restituzione del debito. Non bisogna tenere per sé le cose degli altri, soprattutto se è un salario frutto di onesto lavoro degli operai. Quante volte si ritardano i pagamenti per averne utili aziendali? Quante volte non si fanno scattare gli aumenti ai lavoratori per interessi dell’azienda o dell’economia di un paese?

Ecco i testi biblici ci pongono di fronte ai tanti problemi morali e sociali, ai quali dobbiamo rispondere con la giustizia, la solidarietà, la carità. Questa è la via maestra per vivere il comandamento dell’amore nell’oggi del mondo.

In conclusione, di fronte ai tanti mali del mondo, un atteggiamento è richiesto per cambiare le sorti di questa umanità, in perenne emergenza spirituale, umanitaria e sociale. Ci vuole la conversione del cuore, abbattendo gli idoli che ci allontanano dal Dio vero e santo. Ce lo ricorda l’Apostolo Paolo nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla sua prima lettera ai Tessalonicesi. “Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne. Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene”.

Convertirsi al Dio dell’amore e della carità, senza finzioni o falsità, senza confondere il Dio vero, dagli idoli e dai falsi che l’uomo si costruisce di volta in volta per dare significato alla sua vita, privata del vero Dio.

Sia, allora, questa la nostra umile preghiera nella domenica dedicata all’amore e alla carità verso Dio e verso il prossimo: “O Padre, che fai ogni cosa per amore e sei la più sicura difesa degli umili e dei poveri, donaci un cuore libero da tutti gli idoli, per servire te solo e amare i fratelli secondo lo Spirito del tuo Figlio, facendo del suo comandamento nuovo l’unica legge della vita”. Amen.

 

Commento alla parola di Dio di padre Antonio Rungi – Domenica 19 ottobre 2014

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XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

19 OTTOBRE 2014

L’IPOCRISIA DEI FALSI GIUSTI

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa XXIX domenica del tempo ordinario mette davanti a noi il tema dell’ipocrisia. Una parola e soprattutto un atteggiamento di vita ben conosciuto da tutte le culture e ben sostenuto al tempo di Gesù dai farisei e da coloro che volevano apparire giusti e perfetti e che non lo erano affatto.

Gesù, nel testo del Vangelo di oggi, cogliendo l’occasione proprio da parte di coloro che gli vengono a chiedere una sua opinione e un suo parere se era giusto o meno pagare le tasse, egli sottolinea l’importanza di essere onesti nel campo morale e religioso, ma anche nel campo sociale, economico e politico.

I farisei e gli erodiani, due gruppi per nulla credibili ed attendibili da un punto di vista morale, di fronte alla risposta saggia ed oculata del maestro devono prendere atto della loro superficialità e della loro inconsistenza.

Solo parole e solo pesi per gli altri, ma loro non erano capaci di muovere un dito neppure per il bene della comunità. Figuriamoci se erano propensi a pagare tasse e decime ai chi riscuoteva le tasse nel nome del popolo romano e di Cesare. Volevano che fossero gli altri a farlo, ma loro no. I primi evasori fiscali li troviamo proprio in questo periodo. Gesù invece vuole che tutti osservino le leggi e paghino il dovuto allo Stato nella speranza che venga utilizzato per il bene della comunità. Leggiamo il brano del Vangelo di Matteo che risulta essere di grande attualità anche nei comportamenti di molti, soprattutto nella politica, nell’economia e nel sociale: “In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.  Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Il messaggio di questo brano è chiaro. Bisogna uscire dall’ambiguità, dalla settorializzazione delle questioni. Ogni problema economico e sociale è anche un problema morale e religioso.

Le regole sono precise: dare a Dio ciò che spetta al Dio come culto e rispetto della religione e dare allo Stato ciò che spetta allo Stato senza commistioni di ruoli, ma in sintonia nel cercare il vero, il bene e l’utile per tutti.

Perciò giustamente i messi dei farisei e degli erodiani mettono subito in chiaro la posizione di Gesù Maestro che è veritiero ed insegna la verità secondo Dio, ma il loro intento era di farlo cadere in qualche contraddizione per trovare il modo di accusarlo di operare contro i romani. Ma Gesù risponde nella verità e alla luce della giustizia sociale. Migliore insegnamento non potevano avere da quel Maestro, che li taccia di malizia ed ipocrisia.

Quanto sia attuale questo argomento anche nel mondo della chiesa e di quanti si professano cristiani nel sociale e nella politica, lo comprendiamo alla luce del magistero di Papa Francesco che su questo argomento è tornato spesso nei suoi discorsi, omelie e catechesi. L’ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione, egli afferma. I cristiani non debbono usare “un linguaggio socialmente educato”,  incline “all’ipocrisia”, ma farsi portavoce della “verità del Vangelo con la stessa trasparenza dei bambini”. I farisei che si avvicinano a Gesù tanto amabilmente, sono gli stessi che nel giovedì santo andranno a prenderlo nell’Orto degli Ulivi, e il venerdì lo trascineranno davanti a Pilato. I farisei si rivolgono a Gesù «con parole morbide, con parole belle, con parole troppo zuccherate», «cercano di mostrarsi amici». Ma è tutto falso. Questi non amano la verità ma soltanto se stessi, e così cercano di ingannare, di coinvolgere l’altro nella loro menzogna, nella loro bugia. Loro hanno il cuore bugiardo, non possono dire la verità. È proprio il linguaggio della corruzione, l’ipocrisia. L’ipocrisia non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola. Mai! Va sempre con l’amore! Non c’è verità senza amore. L’amore è la prima verità. Se non c’è amore, non c’è verità. Questi vogliono una verità schiava dei propri interessi. C’è un amore in loro, possiamo dire: ma è l’amore di se stessi, l’amore a se stessi. Quell’idolatria narcisista che li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia».  Verità, giustizia, amore, rispetto delle regole vanno di pari passi nella vita di ogni cristiano e di ogni uomo di buona volontà.

Nel brano della prima lettura di oggi, tratto dal libro del profeta Isaia, ascoltiamo queste parole di speranze rivolte al popolo santo di Dio e che diventano le nostre parole e la nostra speranza nell’oggi della Chiesa: “Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo,  ebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».

Da una parte un Dio che ama e dall’altra un popolo indifferente a questo amore, distratto e preso da altri pensieri ed interessi che non sono quelli del Signore. Quanto cammino c’è da compiere anche oggi nella chiesa per far sì che la fede Dio sia davvero al centro della nostra vita e delle nostre azioni.

Cosa che Paolo invece ha compreso perfettamente, dopo la conversione, impegnandosi a vivere secondo quanto egli stesso afferma nel brano della seconda lettura della liturgia di oggi, tratta dalla lettera ai Tessalonicesi: “Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione”.

Un altro Paolo, della Croce, fondatore dei Passionisti, di cui oggi celebriamo la festa liturgica, a distanza di 1700 anni comprese perfettamente come bisogna vivere e quali scelte radicali per il Signore si dovevano fare per essere in pace con se stesso, con Dio e con gli altri: la scelta del donarsi per amore, del distacco da ogni cosa per servire la causa del vangelo e la causa dei poveri.

Sia questa la nostra sincera ed umile preghiera in questo giorno di festa per tutti e specialmente per i Passionisti che oggi ricordano il loro santo Fondatore, San Paolo della Croce: O Padre, a te obbedisce ogni creatura nel misterioso intrecciarsi delle libere volontà degli uomini; fa’ che nessuno di noi abusi del suo potere,  ma ogni autorità serva al bene di tutti, secondo lo Spirito e la parola del tuo Figlio,  e l’umanità intera riconosca te solo come unico Dio”.

Il Commento dalla parola di Dio di Domenica XXVIII- 12 ottobre 2014

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XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 12 OTTOBRE 2014 

LA FESTA DELLE NOZZE ETERNE E GLI INVITATI DEL REGNO 

Commento alla Parola di Dio di padre Antonio Rungi. 

Anche in questa XXVIII domenica del tempo ordinario ci viene presentata, nel testo del Vangelo, un’altra parabola sul Regno di Dio. E’ parabola della festa delle nozze, alla quale sono invitati tutti, ma tutti erano degni di parteciparvi. Alla fine la selezione tra i degni e gli indegni viene automaticamente, senza intervento da parte del Signore che ha predisposto ogni cosa per degnamente svolgere questa speciale festa in occasione delle nozze del suo Figlio.  Leggiamo con attenzione il brano del Vangelo di Matteo: “In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:  «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Come è facile intuire, in questo brano evangelico c’è un forte appello da parte di Gesù a che i suoi discepoli, convinti della loro scelta di vita, possano sperimentare la gioia della misericordia. Nessuno è escluso dal Regno dei cieli, tutti sono chiamati ed invitati a farne parte con una degna condotta di vita e di moralità. Non è un semplice atto di adesione, la questione dell’appartenenza al Regno di Dio, non è la stessa cosa di un tesseramento ad un partito politico o ad un’ associazione benefica o di volontariato, ma investe tutta la persona, anima e corpo, per far funzionare tutto l’assetto della persona e dello stesso corpo ecclesiale. Bisogna avere quella veste bianca dell’innocenza, della purificazione di propri errori e di un inizio di vita nuova. Quella veste bianca è simboleggiata dall’innocenza battesimale. Nel momento in cui riceviamo questo sacramento, da piccoli o da grandi, la nostra anima e la nostra persona è resa pura, perché viene rimosso il peccato originale e noi siamo nella piena grazia di Dio. Questa veste bianca, come molti esegeti dicono, e che nel vangelo di oggi è messa in evidenza, non è l’unica possibilità per entrare nel Regno di Dio. Una volta si sottolineava che al di fuori della chiesa non ci fosse salvezza. Dopo il Concilio Vaticano II si è voluto anche evidenziare che la salvezza che Cristo è venuto a portare sulla terra è per tutti. Gesù sulla croce non è morto per un gruppi limitato di esseri umani che aderiscono alla sua religione, ma è morto per tutti. Coloro che senza loro colpa non conoscono Cristo nella loro vita, ma che vivono da cristiani naturalmente avranno la stessa possibilità di salvarsi di quanti questo dono della fede l’hanno ricevuto da piccoli e in un contesto religioso evidentemente cristiano. Noi che siamo venuti alla fede da piccoli abbiamo una maggiore responsabilità nel confronti del Regno di Dio che va accolto, ma anche fatto conoscere e diffuso.

Aperto alla gioia e alla speranza è il testo della prima lettura di oggi, tratto dal libro del profeta Isaia, nel quale sono forti gli accenti del dolore, della sofferenza e dell’amore, che ci si imbatte in un testo di estrema attualità e quindi di estremo bisogno di amare e di essere amati. “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto, l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».

Tutti sono chiamati alla gioia dell’incontro  con Cristo in questa vita e soprattutto nell’eternità. Il banchetto di cui parla Isaia nel brano di oggi, non è altro che questo. E sappiamo con la certezza della fede che in quella nuova realtà futura non ci sarà né pianto, né dolore e né morto, perché tutto è gioia e tutta è vita, perché il Dio in cui crediamo è il Dio della vita e non della morte, è il Dio della gioia e non del dolore, anche se in Cristo ha scelto la via della croce per salvarci, la via cioè dell’amore che si fa dono fino a offrire per l’uomo la stessa sua vita.

In questa prospettiva soteriologica e cristologica possiamo leggere l’incoraggiante brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla lettera di san Paolo Apostolo ai Filippesi, che come, è ben noto, è incentrata su Cristo redentore, sul Cristo Salvatore, sul Cristo crocifisso e morto per noi, per capire quale strada percorrere per essere felici in questo mondo e per l’eternità. Tutto Paolo può in Cristo, noi tutto possiamo in Colui che è la nostra redenzione e salvezza. Tutto possiamo in Gesù e con Gesù e senza di Lui non possiamo fare nulla, assolutamente nulla. Abbandonarsi in Dio è quindi la strada maestra per la vera felicità della persona credente. Ascoltiamo questo breve ma toccante brano dell’epistolario del grande apostolo delle genti: “Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù. Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

Vogliamo concludere queste brevi riflessioni sulla parola di Dio di questa domenica XXVIII del tempo ordinario dell’anno liturgico, con la preghiera iniziale della santa assemblea, convocata oggi, nel giorno di festa, la domenica, giorno del Signore con questa preghiera: “O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo Figlio, donaci la sapienza del tuo Spirito, perché possiamo testimoniare qual è la speranza della nostra chiamata, e nessun uomo abbia mai a rifiutare il banchetto della vita eterna o a entrarvi senza l’abito nuziale”.  Per quanto ci è possibile, mettiamo tutta la nostra buona volontà per conservare bianca quella veste della santità che ci è stata consegnata nel giorno del battesimo. Nessuno di noi renda nera una veste bianca di Cristo e nessuno la imbratti con peccati e crimini indegni di ogni cristiano che ami veramente Dio, la Chiesa e l’umanità, perché c’è il rischio della dannazione e della perdizione eterna come ci ricorda il versetto finale del vangelo di oggi, che condanna definitivamente chi si è presentato al banchetto della vita senza la recuperata innocenza che passa attraverso la conversione, il pentimento e la penitenza. Infatti  cosa fece il Signore per chi non aveva agito bene? “Il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Signore liberaci dalla dannazione eterna e dall’inferno, ben convinti che gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi.

Il commento alla Parola di Dio di Domenica 21 settembre 2014

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XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014

 

I PRIMI E GLI ULTIMI NELLA VIGNA DEL SIGNORE

 

Commento di padre Antonio Rungi

 

La liturgia della parola di Dio, oggi, in base ai testi che leggiamo, ci mette in crisi da un punto di vista umano e secondo la logica degli esseri umani che valutano le cose in ragione alla quantità e non alla qualità, all’efficienza e alla produttività e non alla logica della passione e dell’amore. Il Vangelo di oggi, in particolare, circa la chiamata degli operai nella vigna del Signore, a qualsiasi ora del giorno, e che alla fine ricevono la stessa ricompensa da parte del padrone, sembra minare il diritto del lavoro, del merito, e della giustizia sociale. Potremmo dire che in questo caso il padrone è ingiusto, quando ingiusto non lo è affatto, perché non viene meno ai suoi patti con i primi e si sente generoso nel dare la stessa ricompensa agli ultimi. Ma qui non sono in gioco gli interessi umani, qui è al centro dell’insegnamento di Cristo la passione per la diffusione del suo Regno e diciamolo, pure, anche la conquista della salvezza eterna. Perché si tratta di conquistare un premio, anzi di avere un riconoscimento in base al lavoro che si è prodotto personalmente n vista di questo importante traguardo della vita. Forse alla fine, chi è stato chiamato per primo ed aveva davanti a sé tanto tempo per lavorare non ha fatto più di tanto, cullandosi sulla sua condizione di lavoratore assunto dalla prima ora. E’ quello che capita anche nella vita, chi ha una sicurezza economica, chi ha un lavoro stabile e sicuro e che è impegnato in tale settore da sempre, può lasciarsi andare e godersi di quanto già dato. Poi magari arriva la crisi ed anche chi stava apparentemente al sicuro incomincia a traballare ed avere paura. Chi arriva all’ultimo momento, sarà per l’entusiasmo, sarà per aver realizzato una sua aspettativa di vita è più generoso nel servizio, più entusiasta e più innovativo. I primi e gli ultimi a volte entrano in conflitto anche in tanti ambiti ecclesiali, parrocchiali, religiosi, umani. Subentra una gelosia, si fa spazio la concorrenza il predominio del tempo e di conseguenza si entra in lotta e si va a controllare anche i risultati delle proprie prestazioni. Ecco la mentalità di chi, dei lavoratori della vigna del Signore, che ci vengono presentati oggi nel testo del Vangelo e che sono stati i primi a contrattare con il datore di lavoro, ad un certo punto quando ricevono al paga contestano l’operato di quel signore che ha voluto dare la stessa paga agli ultimi arrivati. Come dire che io sono stato il primo a rispondere, o Dio, alla tua chiamata, per cui debba essere il privilegiato. Io entrare ed avere diritto ad entrare nel tuo regno e gli altri, quelli che si sono aggiunti lungo la strada non farne parte o al limite attendere per entrarci. Ma il Signore è venuto sulla terra a salvare tutti e a tutti i momenti della vita e della storia. I primi sono come gli ultimi perché nel cuore di Dio e nel suo infinito amore misericordioso c’è solo una grande speranza, che tutti i suoi figli si salvino e raggiungano la felicità. Certo per chi ha lavorato tanto nella vigna del Signore ha potuto gustare anche il servizio che ha espletato per amore nel tempo abbastanza lungo della vita. Chi ha per una serie di circostanze è entrato in questo regno più tardi non deve essere penalizzato, soprattutto se non è stata colpa sua non aderirvi subito. Tempo fa un giovane mi raccontava questa sua esperienza personale. “Padre, mi disse, fino a qualche giorno fa, ero credente, frequentavo i sacramenti regolarmente, ero appassionato della religione cattolica. Ad un certo punto sono diventato ateo. E vi spiego anche il perché. I miei genitori si sono separati e poi hanno divorziato. Erano entrambi cattolici, parlano a noi loro figli di amore, tolleranza, accettazione, sacrifici. Si erano anche sposati in chiesa. Poi, non so per quali motivi, hanno lasciato la strada del matrimonio ed ognuno si è fatto la sua vita.  Noi figli non abbiamo avuto nessuna considerazione nelle loro decisioni. Solo il giudice ha dovuto stabilire con sentenza cosa dovevano fare per noi, i tempi i assegnazione all’uno e all’altra. Ecco Padre la mia crisi di fede è nata da qui. Io ero stato chiamato da piccolo alla fede. Battezzato, Prima Comunione, ministrante nella parrocchia, campi scuola, di tutto e di più, frequenza sistematica della messa. Insomma un santo in miniatura. E tale mi sentivo nel cuore, perché allora i miei genitori erano uniti (forse solo apparentemente) e noi respiravano il clima dell’amore e la fede, la pratica religiosa era un fatto naturale. L’amore ti porta ad operare ed anche la fede diventa più praticabile. Da primo sono diventato ultimo almeno in questo campo. Ora con il suo aiuto voglio recuperare e ritornare alla fede, non a quella fede apparente dei miei genitori, ma alla fede vera e convinta che voglio costruire sulle macerie della mia vita”. Quel giovane oggi è ritornato alla fede e si è sposato anche in chiesa con matrimonio cattolico e vive felicemente con la sua sposa la vita coniugale avendo avuto anche il dono di tre figli che cura con amore e gioia cristiana.

Questo racconto si intona perfettamente con il brano del Vangelo di Matteo di oggi, che è necessario leggere nella prospettiva non solo della vita terrena, ma soprattutto eterna. In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.  Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

C’è il rischio di sentirsi al sicuro nel Regno futuro perché abbiamo creduto per primi. Ma come è stata la nostra fede, come l’abbiamo vissuta? Forse all’acqua di rosa, annacquata, come spesso ricorda Papa Francesco nelle sue sistematiche meditazioni quotidiane, nelle udienze generali e nei discorsi ufficiali. Proprio perché siamo venuti per prima alla fede, non dobbiamo essere gelosi e invidiosi, anzi dobbiamo sforzarci a far si che altri fratelli sentano l’attrattiva del Regno di Dio anche all’ultimo momento della loro vita. Il premio eterno, il santo paradiso non è una garanzia solo di chi è entrato nel cammino della fede da piccolo, ma per tutti e non è riservato solo a chi è cristiano, cattolico, ma per tutti. La salvezza il Signore l’ha portato per tutti gli uomini della terra e nessuno può essere pregiudizialmente escluso da questa verità assoluta. Certo è meraviglioso poter lavorare nella vigna del Signore fin dal mattino della nostra vita; ma non sempre questo avviene in tante persone, perché alla fede e poi alla testimonianza e alla missione vi sono giunti in tempi successivi, forse a metà della loro vita e spesso anche alla fine della vita. Per tutti Dio è misericordioso e dona il premio in maniera inaspettata e sorprendente. Quanti doni dal cielo ci giungono senza saperli riconoscere e soprattutto senza saper dire grazie a Colui che ci dona ogni cosa! Facciamo nostro il monito del profeta Isaia, che accogliamo nel testo della prima lettura della liturgia della parola di questa domenica. “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”. Forte richiamo alla conversione della mente e del cuore nella logica di Dio, che ha altri pensieri e progetti e non coincidono affatto con il nostro modo di pensare e sperare. Chi conosce il pensiero di Dio, chi è proiettato verso il mondo della felicità, si lascia andare in un discorso che Paolo Apostolo fa, con semplicità, nel brano della seconda lettura di oggi. Egli scrive ai cristiani di Filippi: “Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo”.

Chi ha ricevuto una chiamata da Dio, come gli operai del Vangelo, chi ha ricevuto soprattutto una speciale vocazione al servizio di Cristo e della Chiesa si deve comportare in modo degno del Vangelo. Quanta ipocrisia, falsità, menzogna, quanti farisei, quanta apparenza, quanta fiction nella vita di tanti cristiani. Mi sembra che stiamo a recitare una parte, sul palcoscenico di quel teatro della vita, dove tutti vogliono essere i primi attori, senza neppure averne le doti e le qualità, dove si rivendica il ruolo della primazia e della superiorità, disprezzando gli ultimi, quelli che con grande umiltà si sforzati, nonostante le loro debolezze e fragilità di essere fedeli alla parola data a Dio e agli altri. Ecco perché alla fine di queste riflessioni possiamo rivolgerci a Dio con questa preghiera, la colletta della messa di questa domenica XXV del tempo ordinario: O Padre, giusto e grande nel dare all’ultimo operaio come al primo, le tue vie distano dalle nostre vie quanto il cielo dalla terra; apri il nostro cuore all’intelligenza delle parole del tuo Figlio, perché comprendiamo l’impagabile onore di lavorare nella tua vigna fin dal mattino”. Convinti più che mai chebuono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature”. Amen. 

IL COMMENTO DI P.ANTONIO RUNGI ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA 31 AGOSTO 2014

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XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO 

“PENSARE SECONDO DIO..E’ INNAMORARSI DEL CROCIFISSO” 

Commento alla parola di Dio di padre Antonio Rungi 

La XXII domenica del tempo ordinario, nel testo del vangelo ci riporta un nuovo dialogo ed incontro di Gesù con Pietro. Ma, in questo, caso, si tratta di un incontro di chiarimento della concezione sul modo di pensare di Pietro circa la persona e la missione di Cristo. Se nella confessione di Cesarea di Filippi, Pietro riconosce Gesù come Figlio di Dio, qui Pietro non riesce ad entrare nel grande mistero del Cristo Crocifisso e Redentore, che passa attraverso la passione e il dolore. Non riesce ad accettare la croce, né a capire il senso più vero del soffrire e del patire nell’ottica di Cristo Crocifisso. 

Il testo del Vangelo che oggi ascoltiamo ci dice esattamente la consistenza di questa rivelazione che Gesù fa di se stesso, proprio a coloro, i discepoli ed Pietro in particolare, che, meglio di ogni altro, dovrebbe riconoscere in Lui il vero Salvatore e i l’atteso Messia, non potente nelle cose della terra, ma potente nelle cose del cielo. Invece, quanta fatica costa a Pietro accettare un Messia sofferente ed accettare la croce, come via preferenziale per seguire Gesù. Proprio in questi giorni, nel ministero della confessione, mi ritrovo davanti a delle persone di ogni condizione sociale, che sono state toccate dalla perdita di persone care, soprattutto di figli giovani e bravi, ma anche toccate dalle varie malattie, soprattutto quella più terribile e ricorrente che è il tumore o il male oscuro della depressione. Quanto è difficile anche per un sacerdote dare parole di conforto e di speranza alle persone che vivono queste sofferenze indicibili da un punto di vista umano. L’unico e costante richiamo che faccio a me stesso e agli altri, nel momento della prova e del dolore, è alzare la testa e guardare la croce e chi su quella croce è stato inchiodato dall’odio e dalla cattiveria umana: Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che passò tra la gente facendo solo il bene.  

Ecco la Croce e soprattutto il Crocifisso è l’albero della nostra vittoria contro ogni tentazione ad azzerare nel nostro pensiero e nella nostra vita. Meditare su questo brano del Vangelo, che, a mio modesto avviso, è uno dei più belli e significativi di tutto il messaggio cristiano, come sacerdote passionista vi invito a farlo, personalmente, non solo oggi, in questo giorno di festa che è la domenica, ma sempre, soprattutto nei momenti difficili della nostra vita e, spesso, sono tanti e ricorrenti perché non si vide la via d’uscita. Quella via è indicata dalla Via Crucis, dalla via del Calvario che prima o poi tutti i veri cristiani sono chiamati a percorrere, seguendo il nostro maestro.  Matteo, nel descrivere con dovizia di particolari questo dialogo tra Gesù e suoi apostoli, ci offre in questo brano una meditazione sul mistero di Gesù Crocifisso, che dobbiamo saper valorizzare per la nostra crescita spirituale: “In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

Pensare secondo Dio è pensare nell’ottica della Croce, come amore ed oblazione. E la vera sequela di Gesù passa attraverso questa adesione e risposta d’amore a lui. Possiamo guadagnare ed avere tutto in questo (e molti per la verità ce l’hanno pure), ma a nulla serve possedere delle cose, se poi non si possiede la vera ricchezza che è Cristo e l’amore. Facciamo nostro questo appello ed invito di Gesù: Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?”.

Guadagniamo davvero le cose che contano per sempre e non quelle che contano per un tempo, quel tempo della vita terrena che non è tutto. Lasciamoci sedurre dalle cose di Dio e non da quelle della carne e degli uomini, come ci ricorda la prima lettura della liturgia di oggi, tratta dal profeta Geremia:Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;  mi hai fatto violenza e hai prevalso”. E chi si lascia prendere il cuore e la vita da Dio ha una grande missione nel mondo da compiere: “Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me. Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!». Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”.

Avere l’ardore missionario, non per denunciare, ma per testimoniare con la propria vita l’amore verso Dio, la verità, l’onesta, la giustizia, la pace, la rettitudine del cuore e della vita.

Noi vogliamo essere sulla linea che Paolo Apostolo ha tracciato, da un punto di vista morale e dottrinale, nella bellissima lettera ai Romani: “Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”.

Non ci vogliamo conformare alla mentalità del mondo, di un mondo di oggi specialmente, in certe realtà culturali, sociali, politiche, economiche corrotto al massimo. E come spesso ci ricorda Papa Francesco che “è tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio. E, passo dopo passo, finiscono per convincersi che dovevano uccidere Gesù, e uno di loro ha detto: “E’ meglio che un uomo muoia per il popolo”.

Sia questo il nostro sincero atteggiamento di cristiano e la nostra autentica preghiera in questa giornata di festa domenicale e per il resto della nostra vita: “Rinnovaci con il tuo Spirito di verità, o Padre, perché non ci lasciamo deviare dalle seduzioni del mondo, ma come veri discepoli, convocati dalla tua parola, sappiamo discernere ciò che è buono e a te gradito, per portare ogni giorno la croce sulle orme di Cristo, nostra speranza”. Amen.

COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA XIX – 10 AGOSTO 2014

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DOMENICA XIX DEL TEMPO ORDINARIO

 

10 AGOSTO 2014

 

USCIRE DALLA PARALISI SPIRITUALE

 

padre Antonio Rungi, passionista

 

Tutti noi sperimentiamo la paura, soprattutto nei momenti più difficili della nostra vita, quali una malattia, la solitudine, la morte, la privazione di qualcosa, la frattura di un rapporto affettivo o d’amore, la perdita del lavoro, della famiglia, degli affetti, dell’amicizia, della stima. La paura ci prende e a volte ci sovrasta, bloccando di fatto la nostra vita umana, sociale, ecclesiale. Per paura non si esce da casa, non si svolge bene una missione, non si rischia. A ciò si aggiunga quello che oggi è la malattia più diffusa che è l’angoscia esistenziale, la depressione, gli attacchi di panico, per problemi veri o a volte immaginari. Dobbiamo tutti lottare con queste paure che spesso ci bloccano e non ci fanno agire. Io la definisco paralisi psicologia e spirituale. A volte ci proviamo pure ad uscire da certe paure, ataviche, ma basta un nonnulla che ritorniamo ad essere come prima, peggio di prima, più prudenti di prima. E’ vero che viviamo in un mondo che fa paura per i comportamenti strani ed imprevedibili delle persone e della stessa natura, ma fondamentalmente noi non siamo nati per vivere nella paura, ma nella gioia, nella letizia, nella speranza, nella vera felicità che parte dal coraggio ed il coraggio parte dalla fede.

 

Il Vangelo di oggi, quello della XIX domenica del tempo ordinario, ci aiuta ad entrare nel tema della fede e del coraggio che deriva dalla fede. Le persone piene di fede sono state e saranno sempre coraggiose, perché hanno la certezza interiore e spirituale che non sono mai sole, con loro c’è sempre il Signore. Il racconto della tempesta sedata con l’intervento di Gesù, che salva gli apostoli che stavano naufragando, al di là del significato teologico e spirituale che indica (la chiesa in tempesta, salvata da Cristo, la barca simbolo appunta di questa comunità che ha bisogno di guide illuminate e coraggiose) ci fa capire, oggi, alla luce di questo brano quanto cammino dobbiamo ancora fare per entrare nella vera fede, quella fede che parte dal riconoscere Gesù Cristo, il vero ed unico salvatore. Quando ci affidiamo ad altri salvatori, che non possono salvare, rincorriamo false concezioni della vita e della storia. Rincorriamo il mito della salute e della bellezza e basta poco per per perdere l’una e l’altra; il mito del benessere, del denaro e basta una cristi per metterci in crisi e non saperci più orientare e perdere di fiducia e di speranza; il mito del successo e basta poco per essere emarginato ed escluso dalla società, dai vari mercati se non scendi a compromessi o se hai perso quota, consistenza e soprattutto appoggi di ogni genere; il mito del progresso e basta poco per accorgerci che non sappiamo difenderci dalle malattie più banali, quando nel mondo muoiono milioni di persone per la nostra incuria e superficialità nell’affrontare i veri drammi dell’umanità. Ascoltiamo e meditiamo attentamente sul vangelo di oggi che potrebbe essere inteso in modo riduttivo, pensando solo alla mancanza di fede o alla crisi che può interessare la barca di Pietro,cioè la Chiesa, in determinati momenti e periodi storici, come quello che stiamo vivendo e dal quale stiamo tentando di uscire con il coraggio e la forza profetica di papa Francesco, dei vescovi, dei sacerdoti, dei fedeli laici che lottano per il bene e per il vero progresso dell’umanità.

 

Un testo evangelico tra i più importanti ed interessanti per leggere il mondo con gli occhi della fede, della speranza e dell’amore, in poche parole con gli occhi di Cristo.

“[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».  Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!».  Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

 

Vorrei sottolineare di questo vangelo tre importanti dichiarazioni da parte di Gesù e degli apostoli. Da parte di Gesù: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».  E poi “Vieni”. Ed infine: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Da parte di Pietro: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed anche: «Signore, salvami!». Da parte degli apostoli: «È un fantasma!» e «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Volendo riflettere su queste espressioni vediamo un triplice atteggiamento: quello di fiducia e di sicurezza da parte di Gesù; quello dell’incertezza e del dubbio da parte di Pietro, e quello del passaggio dall’immaginazione alla fede degli apostoli che stavano sulla barca insieme a Pietro. Il punto di riferimento di tutto il discorso è Gesù, è lui il centro dell’attenzione. Da fantasma iniziale, come lo vedono gli apostoli all’inizio della tempesto, al riconoscimento del suo essere Figlio di Dio, di fronte alla tempesta sedata. E’ il cammino della fede che richiede tempo, fallimenti, paure, incertezze per approdare alle profonde convinzioni che senza di Dio e senza Gesù non possiamo davvero fare nulla. Questo cammino di fede richiede la docilità allo Spirito Santo. Questa docilità è espressa in modo esemplare da profeta Isaia, che nel brano della prima lettura di oggi si presenta a noi come la persona attenta alla voce di Dio, una voce che non fa rumore o sconquasso, ma che tocca il cuore, penetra nell’anima e modica l’assetto del pensare e dell’agire di chi si lascia toccare da questa voce.

 

Bellissimo il brano della prima lettura sul quale ognuno può abbondantemente riflettere per dare una risposta personale alla voce di Dio e alla voce della coscienza che ci richiama sulla retta vita.

“In quei giorni, Elia, [essendo giunto al monte di Dio, l’Oreb], entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Esci e fèrmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna”.

 

Ripromettiamoci di ascoltare quello che dice il Signore: Egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli. Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra. Questo ascolto sincero e vissuto produrrà nella vita quello che davvero desideriamo tutti:  Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo.

 

Essere missionari della fede e della speranza è quanto ci chiede di fare san Paolo Apostolo nel brano della seconda lettura di oggi. Quante pene e tribolazioni nel nostro cuore perché la fede non cresce dentro di noi ed intorno a noi. Forse è davvero tempo di dare una svolta consistente al nostro modo di agire da presunti cristiani e non da veri cristiani, da cristiani all’acqua di rosa come ci ricorda Papa Francesco e non da cristiani che ripongono la loro fiducia totale nel Signore. Scrive, infatti l’Apostolo delle Genti: “Fratelli, dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.  Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen”.

 

Questa bellissima professione di fede in Cristo sia il motivo costante del nostro lottare per la fede, non perché dobbiamo fare dei proseliti, ma semplicemente perché mossi da un amore immenso per il Signore, noi possiamo dare ragione della fede, della speranza e della carità che portiamo nel nostro cuore, convinti più che mai che Gesù è il vero, unico e assoluto salvatore e redentore dell’uomo, della chiesa e della storia.

 

Esprimiamo il nostro forte desidero di pregare in questo giorno del Signore, con le parole della Colletta della liturgia eucaristica di questa domenica: “Onnipotente Signore, che domini tutto il creato, rafforza la nostra fede e fa’ che ti riconosciamo presente in ogni  avvenimento della vita e della storia, per affrontare serenamente ogni prova e camminare con Cristo verso la tua pace. Amen”

Il Commento alla liturgia della parola di Dio di domenica 27 luglio 2014

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DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO

27 LUGLIO 2014

Il Regno di Dio è una novità infinita

di padre Antonio Rungi

Il Vangelo di questa XVII domenica del tempo ordinario ci presenta altre tre brevi parabole, dette da Gesù, per far capire il senso ed il valore del Regno di Dio, che Egli stesso instaura con la sua venuta nel mondo e che Egli stesso fa conoscere e diffonde mediante la predicazione della buona novella. Tanti esempi che Gesù apporta per il suo uditorio stabile o occasionale, per far comprendere la necessità di incrociare questo Regno nella sua persona, attraverso un atto di fede e di accettazione della sua missione. Gesù non chiede altro che la disponibilità del cuore dell’uomo di lasciarsi prendere dall’amore e dalla passione per il Regno di Dio, un regno tutto particolare per natura, costituzione e finalità. Il regno è un tesoro nascosto che se lo si scopre si fa in modo di acquisirlo subito a qualsiasi prezzo. E sul valore del regno è l’altro esempio delle pietre preziose che il mercante compra, una volta trovatele per caso o per ricerca personale. Come pure, il terzo esempio della rete gettata nel mare che raccoglie ogni genere di pesci, per poi fare la selezione per scegliere quelli buoni dai cattivi. Quelli adatti e maturi al Regno, quelli che non ancora hanno raggiunto la maturità ed il sapore adatto per entrare a far parte della tavola imbandita del Regno di Dio. E su questo terzo esempio che Gesù si sofferma in modo particolare e fa le sue giuste considerazioni e riflessioni, per spingere i suoi ascoltatori e soprattutto i suoi discepoli che erano esperti di mare e di cernita di pesci, a guardare avanti, altrove, oltre il tempo e a fissare lo sguardo nell’eternità. Dice, infatti, Gesù che  “così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”. Ritorna qui, il Maestro divino, sul tema della separazione tra i buoni e i cattivi, alla fine dei tempi. Ritorna a parlare, detto in termini più immediati ed accessibili a tutti, del Paradiso e dell’Inferno, cioè delle massime eterne che sono la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso. Proprio, perché preso dalla necessità di essere un Maestro ed istruire saggiamente i suoi ascoltatori e discepoli Gesù, alla fine chiede ai presenti: “Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». In poche parole trasforma la sua esistenza in novità di vita, pur non dimenticando il bene ed il valore del suo passato, perché in ogni storia personale, anche problematica e drammatica, c’è sempre un filo di bontà che va saggiamente valorizzato. Armonizzare passato e futuro, attraverso un’operazione di presa di coscienza del presente che non sempre è ben chiara nella mente del credente. A volte si ha nostalgia del passato e si pensa solo al futuro, ma non si sa valorizzare ciò che il Signore ci dona nell’oggi. Egli è l’eterno oggi, che rende vivo e interessante ogni passo dell’uomo in cammino verso l’eternità. Chiediamo al Signore, come il Re Salomone, di cui ci racconta la prima lettura di oggi, tratta dal primo libro dei Re, la docilità del cuore e la saggezza nell’amministrare le cose di Dio e le cose degli uomini. Virtù come l’equilibrio, la giustizia, la docilità ad ascoltare, la disponibilità a risolvere i problemi  sono patrimonio di tutti, ma non tutti vi accedono in modo sincero. Salomone dal Signore viene accontentato nelle richieste, perché non aveva chiesto nulla per sé, né potenza di alcun genere o bene di qualsiasi consistenza. E’ quello che dovremmo chiedere nelle nostre umili preghiere di tutti i giorni, quando ci rivolgiamo a Colui che tutto sa e tutto può e che ci dona le cose necessarie al nostro vero bene, ma noi non le sappiamo comprendere o valorizzare appieno. San Paolo Apostolo nel breve brano della Lettera ai Romani di oggi, seconda lettura della liturgia della parola di questa domenica, ha chiara questa consapevolezza e la propone come via di interpretazione per differenziare il cammino del bene, rispetto a quello del male. Egli scrive: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”. E’ evidente che il cammino di conformazione a Cristo, chiede ad ogni credente una presa di coscienza della propria identità di cristiano, con i vari aspetti che caratterizzano la vita presente e soprattutto quella futura. Il tema della predestinazione è qui sottolineato in ragione di un cammino che siamo chiamati, in quanto tutti abbiamo accesso alla salvezza, mediante  Gesù Cristo. Sta a noi prendere il largo e seguire le orme di Colui che per noi è morto ed è risorto.

Sia questa la nostra preghiera sincera e convinta di questo giorno di festa, che viviamo all’indomani della ricorrenza dei santi Gioacchino ed Anna, i genitori della Madonna e i nonni materni di Gesù Redentore. “O Dio, nostra forza e nostra speranza, senza di te nulla esiste di valido e di santo; effondi su di noi la tua misericordia perché, da te sorretti e guidati, usiamo saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni”. Amen.

Commento alla parola di Dio di Domenica 13 luglio 2014

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DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO 

METTERSI IN ASCOLTO DELLA PAROLA 

di Padre Antonio Rungi                                 

Viviamo in un mondo, dove tutti vogliono parlare e solo pochi sanno ascoltare. In realtà dovrebbe essere il contrario. Ascoltare molto e parlare poco, perché le nostre parole spesso sono vuote ed insignificanti o addirittura fanno disastro, offendono, mistificano e creano seri problemi di comunicazione interpersonale. Oggi al centro della liturgia della parola di Dio, di questa XV domenica del tempo ordinario, c’è appunto l’importanza dell’ascolto della parola di Dio, della efficacia della stessa e dei frutti che produce in modo diversificato in chi è disponibile a lasciarsi toccare nel cuore da questa parola.

Partendo dalla prima lettura, tratta dal profeta Isaia, cogliamo in essa tutta l’importanza ed il valore della parola di Dio assimilata alla pioggia che cade dal cielo e che irriga e fa germogliare ogni cosa. Quando più è predisposta e dissodata ed accogliente questa terra, che è il cuore e la mente dell’uomo, più la parola di Dio fa effetto e produce frutti, espressi in opere di bene e di santità.

Così dice il Signore: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».

Le varie immagini tratte dalla natura e dall’ambiente di vita quotidiana ci aiutano a capire, secondo quando scrive il profeta Isaia, come bisogna rapportarsi alla Parola di Dio, che esce dalla sua bocca e non vi ritorna senza aver prodotto ciò per cui l’ha inviata. Qui è chiaro il riferimento alla Parola di Dio per eccellenza, che è Gesù Cristo, il Verbo Incarnato che viene in questo mondo e salva l’uomo dalla schiavitù del peccato, per poi ritornare al Padre, dove aver ultimato la sua missione di redentore e salvatore. In questa Parola dobbiamo riscoprire il valore e il significato di ogni altra parola di Dio o dell’uomo. Nella misura in cui ci confrontiamo con Cristo, parola di Dio rivelata a noi, noi possiamo comprendere il linguaggio stesso di Dio, che è il linguaggio dell’amore, della misericordia e del perdono. In qesta parola e mediante Cristo, noi possiamo rivolgerci a Dio e pregare così: “Accresci in noi, o Padre, con la potenza del tuo Spirito la disponibilità ad accogliere il germe della tua parola, che continui a seminare nei solchi dell’umanità, perché fruttifichi in opere di giustizia e di pace e riveli al mondo la beata speranza del tuo regno”.
Per questa parola che ci ha preso il cuore e la vita, bisogna sapere soffrire ed accettare ogni cosa nella nostra esistenza terrena, senza mai abbattersi, scoraggiarsi, demotivarsi; ma guardando avanti nel segno di questa parola che è vita, gioia, speranza e risurrezione. Se non avessimo fiducia nella parola del Signore, ogni cosa che facciamo come cristiani perderebbe di senso e prospettiva. E’ proprio questa fiducia nella parola del Signore che ci fa operare, agire, sperare e soffrire per amore e con amore, come Cristo ha fatto per noi. L’apostolo Paolo sottolinea questo aspetto nel brano della seconda lettura di questa domenica, tratto dalla celebre Lettera ai Romani. Egli scrive con grande speranza nel suo core: “Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”.

Nel tempo noi gemiamo, soffriamo, patiamo, ma nel tempo, in questo nostro tempo, nel tempo stesso che il Signore ha consegnato nella consistenza e nella qualità a ciascuno di noi, noi costruiamo quello che sarà il senza tempo, sarà l’eternità, sarà Dio per sempre con noi e per noi. Infatti, “noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. E’ questa visione di beatitudine piena e definitiva che predispone il nostro cuore ad accogliere la parola e in nome di questa parola affrontare ogni prova della vita.

In questa logica di accoglienza si comprende benissimo la bellissima ed espressiva parabola detta da Gesù in persona ai tanti suoi amici fedeli che lo seguivano. E’ la parabola del Seminatore. Gesù siede e spiega. La gente è sulla spiaggia ed ascolta. Quale migliore ambiente per rivivere questa parola, oggi, in tempo di ferie estive, per chi se le può permettere, che fare una catechesi in riva al mare, come Gesù osava fare. Catechesi fatte bene, con la calma, nel silenzio, nel raccoglimento. Erano altri tempi, altre spiagge, altri ascoltatori quelli del tempo di Gesù. Oggi le nostre spiagge sono ben altra cosa che luoghi di ascolto della natura e della voce di Dio e dei fratelli. Sono spiagge che svuotano l’esistenza umana, perché la riempiono di cose materiali e la svuotano di Dio e della sua parola di vita.

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.

Immaginiamo, anzi organizziamo sulle nostre spiagge la lettura e il rivivere questo brano del vangelo di oggi, proclamando con fede, coraggio, amore e passione a quanti usufruiscono dei beni naturali che sono di tutti, perché il mare, la spiaggia, l’acqua, il cielo e tutto il resto sono di Dio e dell’umanità. E allora riascoltiamo nella sua interezza questa parola così bella ed affascinante, che tocca tanti aspetti della vita umana e della predisposizione dell’uomo a farsi prendere per mano da Dio e lasciarci da Lui accompagnare sui sentieri della vera gioia e pace del cuore.

Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».

Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e no comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”.

Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

Vorrei, che ognuno a conclusione di questo itinerario spirituale compiuto oggi ascoltando le tre letture bibliche ed il salmo responsoriale facesse un bell’esame di coscienza. Tra chi mi collocherei oggi, tra le persone che Gesù esamina e pone come metro di paragone per accogliere in modo più o meno ampio e duraturo la sua parola? Siamo la strada, siamo il terreno sassoso, siamo rovi, siamo il terreno buono? In base alla nostra attuale condizione spirituale possiamo dare la nostra risposta. Anzi nel rileggere la nostra vita e la nostra storia ed esperienza di fede possiamo rispondere con maggiore cognizione di causa e precisione. Forse spesso siamo stati tra coloro che hanno solo ascoltato, ma mai messo in pratica; qualche volta abbiamo ascoltato e messo in pratica. Forse raramente abbiamo ascoltato e messo in pratica dando i massimi frutti, compatibili con la nostra persona e la nostra fragilità. Ecco il camminano della parola chiede a tutti noi, fratelli e sorelle, una vera conversione, un cambiamento di rotta, una cambiamento di mentalità che è possibile nella misura in cui ascoltiamo Gesù, la Chiesa, il Papa, i Vescovi, i nostri pastori e non ascoltiamo noi stessi, pensando che noi e soltanto noi siamo fonte di verità e coerenza massima nelle nostre attività, fossero anche quelle più eccelse in campo spirituale ed ecclesiale. Signore donaci l’umiltà del cuore per capire i nostri sbagli e rettificare la nostra vita sulla tua parola di vita. Continua a seminare nella nostra vita la gioia e la speranza che va oltre i confini del tempo e si colloca nella gioia eterna del santo Paradiso. Amen.

COMMENTO DI PADRE ANTONIO RUNGI ALLA PAROLA DI DIO – SESTA DOMENICA DI PASQUA

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SESTA DOMENICA DI PASQUA – 25 MAGGIO 2014

Pregherò il Padre e vi darà un altro Paràclito.

A cura di padre Antonio Rungi

La sesta domenica di Pasqua ci prepara spiritualmente a due altri grandi eventi della vita trinitaria: l’Ascensione al cielo di Gesù Cristo e l’invio dello Spirito Santo, nel giorno della Pentecoste. E’ la Trinità che congiuntamente opera in ogni situazione come è facile comprendere dal brano del vangelo di oggi, tratto dall’evangelista Giovanni, che riporta uno dei discorsi più consolanti di Gesù stesso: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi”. Ed aggiunge cose di grande rilievo spirituale che sono aperti alla speranza e alla positività: “Non vi lascerò orfani: verrò da voi”. Cristo non ci abbandona, anche se sale al Padre, da dove è disceso per portare a compimento l’opera della salvezza del genere umano. Un Dio che si fa compagno della nostra vita e diventa l’Emmanuele e un Dio che è Spirito e continua ad agire senza soluzione di rapporto con questa umanità e con l’intera creazione, fino all’avvento glorioso del Risorto, alla fine dei tempi, quando Dio sarà tutto in tutti. Questa pienezza di amore, come presenza della Trinità in noi la possiamo fin d’ora sperimentare, nella misura in cui viviamo nella carità, nell’amore, in una fedeltà assoluta alla volontà di Dio ed al suo disegno di salvezza e redenzione per tutti. Gesù ci ricorda, infatti, “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui”. Ed evidenzia in questo discorso intenso: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti… Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”. Tutto parte dall’amore trinitario, tutto si sviluppa in una logica di amore trinitario e tutto si conclude in questo Dio amore, che è Padre, è Figlio e Spirito Santo”. Mossi dall’amore sono i primi apostoli di Cristo e del Vangelo e mossi dall’amore sono gli apostoli del vangelo di oggi, come ci ricorda Papa Francesco nella sua Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Nel brano della prima lettura, tratto dagli Atti degli Apostoli vediamo impegnati nell’opera missionaria tre apostoli: Filippo, Pietro e Giovanni. Chi per un verso e chi per un altro tutti operano in sintonia con il progetto pastorale di evangelizzazione posto in essere dagli apostoli stessi e scaturito dai vari incontri più o meno ufficiali che il gruppo teneva sistematicamente. Anche perché le esigenze crescevano ed era necessario coordinare il tutto, per evitare confusioni di ruoli o sovrapposizioni di interventi e di azioni. Così “Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città”. Così, Pietro e Giovanni, che di fronte alla moltitudine dei cristiani della Samaria “scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo”. Possiamo ben capire che si tratta dell’amministrazione del Sacramento della Cresima, dal momento che avevano ricevuto il Battesimo. Quello Spirito di verità, di carità, di armonia, gioia e pace i cui frutti sono evidenziati nella seconda lettura di oggi, tratta dalla prima lettera di San Pietro. Infatti scrive il capo del collegio apostolico: “Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito”. I frutti dello Spirito allora sono davvero doni speciali per ciascuno e per tutti. Volendo elencarli, facendo tesoro di quanto abbiamo ascoltato della parola di Dio, essi sono: la speranza, la dolcezza, il rispetto di tutti, la retta coscienza, la misericordia, il perdono, il bene, la giustizia, la vita interiore, la docilità alla volontà del Signore, la gioia. Quella gioia e gaudio che solo una persona accorta e sensibile alla parola di Dio e alla buona notizia del Regno di Dio può e deve sperimentare profondamente ogni giorno della sua esistenza. Tali doni, infatti, fanno di ogni discepolo di Cristo una persona davvero spirituale, ricca spiritualmente, svuotata delle cose insignificanti e che non contano, ma piena di tutto ciò che rende il cuore e la vita di una persona degna di essere definita cristiana, come preghiamo, oggi, nella colletta di inizio messa, che è un vero progetto di vita spirituale ed apostolica insieme: “O Dio, che ci hai redenti nel Cristo tuo Figlio messo a morte per i nostri peccati e risuscitato alla vita immortale, confermaci con il tuo Spirito di verità, perché nella gioia che viene da te, siamo pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi”. Amen.