Paradiso

I racconti più recenti di padre Antonio Rungi

La croce del porto

Per la gente del porto era la croce dei giovani. Quella croce, altra circa 20 metri, sul modello dei tralicci che oggi si usano per i ripetitori Tv o dei telefonini, era stata collocata al centro della piazza del porto di una piccola isola del mare nostrum. Alla sera, specialmente d’estate, si radunavano intorno ad essa centinaia di giovani per discutere, per mangiare una pizza, per giocare e qualcuno anche purtroppo per drogarsi. Un giorno capitò una tragedia, che fece discutere il paese intero e pose la quastione se continuare o meno a tenere quella croce in mezzo al piazzale del porto turistico della città. Infatti, durante una delle bravate che i giovani usano fare per mettersi in mostra, una notte un giovane arrampicandosi su quella croce di tubi innocenti cadde a terra e morì. Aveva battuto violentemente la testa sul basamento in cemento armato, del scondo scalino, che era a tre gradini quadrangolari ed aveva un preciso significato teologico, indicando così la Santissima Trinità ; come la Divinità nella sua interezza era presente nel mistero della salvezza, nel momento in cui Gesù Cristo moriva per la salvezza del mondo in quell’unico storico venerdì di passione e morte.

Il primo gradino, quello più grande, che si ergeva da terra era dedicato al Padre, il secondo, più stretto, era dedicato al Gesù Cristo, il terzo più piccolo ancora era dedicato allo Spirito Santo. I nomi della Trinità erano stati scritti e incisi nel cemento armato con cui era stato realizzato il piedistallo della croce del porto. Quando nella notte arrivarono i carabinieri è costatare il decesso del giovane e soprattutto la folla che aveva saputo la notizia e si era raccolta numerosa intorno alla croce del porto, tutti notarono dove aveva battuto la testa e morto il giovane ragazzo, che faceva uso di droga: sul secondo scalino. Le riflessioni e le considerazione al riguardo si moltiplicarono all’istante e nei giorni successivi.

In quell’isola il giovane viveva con i nonni paterni, dal momento che il papà era un marittimo e praticamente non c’era mai su quell’isola; la madre aveva preso un forte esaurimento nervoso e veniva curata sul continente presso una struttura per malati mentali. I due nonni erano piuttosto anziani e controllavo poco l’unico nipote che avevano e non comprendevano affatto se il giovane facesse uso di sostanze stupefacenti. Certo notavano che in casa mancavano frequentemente dei soldi e che lo stesso Nico, questo il nome del giovane, chiedeva continuamente denari per motivi di studio, frequentando un istituto superiore in una scuola vicina al suo paese d’origine.

Quella morte violenta e tragica lasciò nella popolazione locale un terribile dubbio: forse quella croce era una tentazione per i giovani e quindi era meglio che venisse abbattuta e rimossa.

Una sottoscrizione partì in tal senso tra alcuni cittadini che da sempre avevano visto di malocchio la presenza di questo simbolo di culto della fede cattolica.

La sottoscrizione raggiunse un buon numero di adesioni e pertanto venne discussa in un consiglio comunale aperto al pubblico. Il sindaco e i consiglieri discutevano sulla questione e tra loro non c’era accordo, come in tutte le cose politiche. Ad un certo punto il sindaco chiese ai cittadini presenti se qualcuno volesse intervenire e parlare a nome dei cittadini, di quelli che non avevano firmato la sottoscrizione. Mentre calò il silenzio su tutta l’assemblea, tra i presenti una piccola mano si alzò per chiedere la parola. Era un bambino delle scuole elementari del paese che pure durante il giorno insieme ai compagni di classe ed ai suoi amici si trovavano insieme presso la Croce del porto per giocare e parlare, perché quello era l’unico ritrovo dei giovani della città. Il ragazzo con grande coraggio disse esattamente le cose come stavano: “Non è colpa della croce, ma è colpa nostra se ci comportamo male e succedono fatti gravi”. Ed aggiunse: “Abbiamo fatto un sondaggio tra noi ragazzi e tutti siamo contrari alla rimozione della croce, perché per noi è una compagnia e soprattutto una protezione”. Espresse la solidarietà ai nonni del ragazzo morto, perché neppure in quella circostanza di lutto, i due genitori si erano fatti vivi, e chiesero che venisse respinta la petizione popolare e che la croce continuasse a restare li.

Dopo tale intervento ce ne furono altri cento del genere, tanto che il consiglio comunale iniziato alle tre del pomeriggio continuò senza soluzione di sosta, fino alle tre di notte. Dopo aver ascoltato i vari interventi dei cittadini, il sindaco mise a votazione la questione: votare o meno l’abbatimento della croce del porto. Tutti i consiglieri furono contrari e la demolizione non passò. Al contrario si decise di fare della croce del porto un momumento alla memoria del giovane morto. E da quel giorno non si chiamò più la croce dei giovani, ma la croce di Nicola.

Un ultimo providenziale prrovedimento del consiglio comunale per evitare che ci fossero altri incidenti. La croce fu messa in sicurezza, ricordando essa uno storico evento per quella città, di 100 anni prima, alla cui memoria era stata eretta dall’amministrazione del tempo.  

Si reallizzò una inferriata protettiva di tutta il basamento della croce in modo che i ragazzi non potessero salirvi sopra. L’inferriata veniva aperta due volte l’anno: nell’anniversario della morte del ragazzo morto e in Venerdì Santo, quando la Via Cruci si fermava alla Croce del porto per la XII stazione, in cui si ricorda la morte in croce di nostro Signore. Ed ogni anno in quella circostanza tutti ricordavano nella preghiera il giovane morto ai piedi della croce sul secondo gradino dedicato al Figlio di Dio.

Con Cristo morto in croce, tutti dobbiamo fare i conti. Bisogna battere la testa con questa pietra angolare per capire il vero senso della vita umana.

 L’edicola della Vergine Maria

Aveva almeno 300 anni di vita e di storia ed era sistemata in un posto centrale dell’antico borgo mediovale del paese.

Da lì passava praticamente tutta la gente, ogni mattina, dai più piccoli ai più grandi e per tutti quella piccola edicola della Beata Vergine Maria con bambino era un buon auspicio per la giornata.

C’era chi si faceva la croce e sostava un attimo a pregare e poi con la mano a toccare quelle bellissime piastrelle di maiolica che costituivano il mosaico della Madonnina, dolce e tenerissima con Gesù bambino tra le sue braccia, nell’atto di donargli il latte materno.

Altri facevano un semplice gesto del capo in segno di riverenza e saluto e gli anziani invece si toglievano il cappello ed abbassavano la testa in senso di rispetto. Era una liturgia mattutina e diurna, un insieme di lodi e vespri, un vero rito soprattutto di mattutino che lasciavano nel cuore di chi osservava da vicino o da lontano il segno dell’amore verso la Madre del Signore.

Un amore sincero ed un rispetto totale espresso anche attraverso il culto delle immagini sacre.

Una mattina di primavera, quell’icona non c’era più nella sua cappellinna. Era stata portava via da mano sacrileghe, che con mestiere ed esperienza avevano rimosse tutte le piastrelle con componevano la bellissima immagine della Madonna con Bambino.

In quel posto erano impegnati da mesi per lavori pubblici operai che nel loro linguaggio corrente non facevano nulla se non facevano scappare una bestemmia contro Madonna e il Padre Eterno. Anche davanti alla bellissima immagine della Vergine Santa non avevano ritegno di bestemmiare.

Restavano impressionati i bambini che vedevano ogni giorno quello sperpetuo contro la Madonna, i giovani che per quanti si dice comunque sono rispettosi della fede propria ed altrui ed hanno una grande venerazione per la Madre di nostro Signore, gli anziani che per loro quella immagine era familiare e cara e quando la si toccava con la bestemmia scattava in loro un forte risentimento a chi offendeva la religione e il culto delle immagini.

Tra i tanti operai c’erano vari che non credevano affatto o erano di altre sette e confessioni che non ammettono il culto alle immagine sacre. Si pensò subito in paese che potesse essere qualcuno di loro a portare via una immagine della Vergine Santa così bella ed espressiva. Perché si pensava che un cattolico vero oltre a non rubare nulla agli altri, non ruba particolarmente le immagini sacre, perché commette un reato, ma anche un peccato grave.

Sta di fatto che in quella cappellina l’immagine della Madonna con Bambino non tornò più. Ma la cappellina non poteva restare assolutamente così, vuota.

E allora la popolazione di organizzò e fece fare un copia esatta della stessa immagine della Madonna con Bambino e con lo stesso materiale in maiolicato. Il mosaico fu ricomposto anche perché tutti avevano l’immagine della loro Madonnina impressa sulle figurine o sui telefonini. Molti l’avevano messa come immagine di apertura del loro telefono cellulare, in modo che il pensiero fosse costantemente rivolta alla Madre di Dio ogni volta che questo squillava.

Il legame con quella immagine era profondo e solo chi era stato allevato al culto della Vergine Santa e a venerarla con sincerità poteva comprendere il vuoto che aveva lasciato nel loro cuore di ciascuno di loro, chi aveva portato via la loro Madonnina.

Si pregò a lungo per le mani sacrileghe, affinché ritornasse l’immagine originale; ma passarono anni e tutto rimase tale e quale.

La copia che era stata sistemata allo stesso posto, e questo aveva fatto  dimenticare in parte il gravissimo fatto, ma non eliminarlo del tutto dalla coscienza di quel popolo particolarmente devoto della loro Madonna, tanto da dedicare a lei la festa più importante del paese.

Un giorno per puro caso, un operatore ecologico andò a rovistare in mezzo ai detriti di una casa abbandonata e che era ceduta durante una forte scossa di terremoto. Praticamente di quella casa e di quella famiglia non era rimasta pietra su pietra e  ossa su ossa.

Tra le macerie trovò l’immagine spezzettata, come carta, della sua Madonna, senza poterla ricuperarla in toto, in quanto era stata praticamente annientata.

Si cercò anche di rimetterla a posto, ma non fu possibile.

I pochi pezzetti di maiolica di quell’immagine non potevano assolutamente ricostruire tutta la Madonnina, perché mancava la parte più importante: Gesù Bambino.

Una mamma senza il suo figlio, pensò il netturbino, è una vita senza amore e un amore con grande dolore. Ed un figlio senza la madre è una vita dimezzata e senza significato. Maria è Gesù in un inscindibile rapporto di amore e di redenzione, erano il chiaro messaggio a quanti la veneravano in quell’immagine dell’unità e dell’armonia familiare.

Rimettere la Madonna al suo posto, senza Gesù bambino, non sembrò giusto e allora si pensò bene a continuare a venerare la copia della sacra immagine nella sua completezza iconografica.

Perché così era stata realizzata dall’inizio e così doveva giustamente ritornare dopo il sacrilego gesto del trafugamento  fatto da mani indegne di toccare un’immagine sacra, cara a tutta la comunità, anche a chi credente non era.

I piccoli frammenti di quella immagine sacra, con oltre 300 anni di storia da raccontare, furono conservati nel museo della città, a perenne memoria di una vicenda di offesa al culto cattolico delle immagini, che solo una persona arrabbiata con Dio e il mondo intero poteva aver compiuto in una delle notti più oscure della sua vita di buio.

Sarà stata una circostanza, una casualità, ma quella casa in cui fu portata la Madonnina rubata non ci fu mai pace a quanto si seppe dopo il ritrovamento e quella famiglia finì con i suoi componenti sotto le macerie di un terremoto, distruggendo ogni cosa e lasciando visibile solo un pezzetto di paradiso: il doce viso della Madonnina.

  

Il barbone della stazione

 In tre mesi era cambiata radicamente la sua vita. Il fallimento dell’azienda di famiglia di cui era il direttore generale e soprattutto il fallimento del suo matrimonio con Angela, di cui era profondamente innamorato. Due figli piccoli, Luca e Matteo, di 7 e 5 anni, rispettivamente. Dopo il fallimento di entrambi le cose, dovette lasciare casa e paese, per trasferirsi altrove. Il giudice aveva pure stabilito il mantenimento dei figli e della moglie, rimasti senza nulla, anche con la casa ipotecata, ma con il permesso di abitarci. Stefano che provò a trovare lavoro altrove, dopo aver dato lavoro a tutti, non trovò nulla da nessuna parte. Aveva nel suo cuore il desiderio di non far mancare nulla alla sua famiglia. Cosa fare, di fronte alla chiusura totale di prospettive? Trovò una soluzione poco onorevole e non auspicabile per nessuno, anche se rispettabilissima, di fronte ad altre più difficili e problematiche decisioni. Decise di fare il barbone presso la stazione di una grande metropoli del nord. Ogni mattina, di buon ora si alzava e praticamente si travestiva per non farsi riconoscere, dal momento che era una persona in vista, noto ed un volto familiare. Parrucca, vestiti stracciati, barba incolta, una maschera di uomo per nulla riconoscibile, neppure ai più scaltri detective. Appenna arrivato alla stazione si posizionava all’inizio del binario ove arrivavano i pendolari. Evitava i binari della Freccia Rossa e degli Intercity sui quali viaggiavano i ricchi. Il motivo era semplice da capirsi: sono i poveri che aiutano altri poveri, mentre i ricchi difficilmente lo fanno. D’altra parte anche forte della conoscenza del vangelo, lui cattolico convinto, Stefano sapeva benissimo, una volta caduto in disgrazia, su quale versante operare per vivere la sua nuova sfida. La giornata praticamente trascorreva alla stazione a chiedere l’elemosina. Rientrava alla sera con l’ultimo treno delle 18,00, quando le fabbriche e i negozi chiudevano e, terminati i turni, gli operai ed i pendolari facevano ritorno a casa. Aveva per spostarsi un vecchio motorino che aveva fatto aggiustare e con il quale viaggiava senza neppure essere assicurato. Appena arrivava a casa si metteva in ordine, in quel bugigattolo che aveva avuto in prestito da un vecchio amico che abitava lontano e fuori l’Italia. Si era adattato alla meno peggio in quel monolocale a qualche km dalla sua vecchia e bellissima casa di proprietà, ove continuavano a vivere la moglie e i due figli. Ogni giornata riusciva a fare con la raccolta dai 30 ai 40 euro. Tolto qualche panino per lui e lo stretto necessario, il resto lo metteva da parte per dare l’assegno familiare alla moglie ed ai figli per non far mancare loro ciò di cui avevano bisogno. Anche i bambini avevano dovuto ridimensionare le aspettative, dopo che la madre e i parenti avevano detto esattamente come stavano le cose. Stefano soffriva per la mancanza della moglie, ma soprattutto dei suoi due piccoli angeli, una vera tempesta di gioia e felicità quando le cose andavano bene. Ora erano tristi, non tanto per le cose che mancavano, ma perché non potevano vedere il padre. Il tribunale dei minori aveva revocato al genitore la patria potestà, per incapcità di guidare la famiglia. Una sofferenza immensa, un colpo al cuore di questo ex-dirigente e imprenditore dell’Italia bene. Prima di scendere alla stazione, divenuta il luogo del suo lavoro, passava davanti casa per cercare di vedere i suoi bambini. Non gli riusciva mai, perché gli orari non confacevano. Egli doveva arrivare di buon mattino al capofila dei treni dei pendolari perché doveva racimolare qualcosa  per loro. E così succedeva. Nella postazione fissa che aveva preso, ormai la gente che passava di buon mattino o durante la giornata lasciava sempre qualcosa nel cestino che portava con sé e dove i viaggatori lasciano cadere qualche piccolo o più una più consistente mometina. Qualcuno di loro si era riproposto di fare la prima azione buona della giornata lasciando 1 euro al giorno a Stefano, l’ex-industriale, che ora viveva sotto mentite spoglie. Un giorno, ricorda bene il barbone della stazione, fu di quelli che ti restano per sempre nella memoria. Come sempre stava all’inizio del binario per chiedere l’elemosina. Ad un certo momento tra la folla dei pendolari, che correvano fuori della stazione, vede arrivare una giovane signora con un bambino tenuto per mano. A man mano che si avvicinava riconobbe che era la sua moglie e il primo dei suoi figli, che erano vestiti abbastanza bene. Erano scesi in città dal paese per un controllo medico per il bambino. Quando furono a pochi metri e la signora fece finta di non vedere, Luca, il primo figlio di Stefano, disse con candore alla mamma. “Mamma diamo qualcosa a questo signor, vedi in quale condizione si trova?”. La mamma trasse dal suo borsello 1 euro e lo passò a Luca per posarlo nel cestino del barbone. A quel punto guardando negli occhi quel signore, disse spontaneamente. “Papà. Ma tu sei il mio papa?”. “Ti sbagli” replicò Sfefano. Anche Angela aveva capito che sotto quelle mentite spoglie c’era suo marito. Strattonò Luca dicendogli che si era confuso e che doveva camminare altrimenti si faceva tardi per arrivare all’ospedale. Ma il bambino insisteva, che era suo padre. Appena si furono allontanati, Stefano si alzò dalla postazione dell’elemosina e corse nel bagno della stazione e incominciò a piangere senza fermarsi più. Quel giorno smise di chiedere l’elemosina e preso il motorino, ritornò a casa per non farsi vedere in quello stato dalla moglie e dal figlio. Nella sua mente risuonava la voce del bambino che più si allontanava e più chiamava: papà. Uno choc emotivo di quelli che ti segnano la vita. Da quel giorno, Stefano non scese più alla stazione per chiedere soldi e l’elemosina, per una questione di dignità per la sua famiglia. Ormai la moglie lo sapeva come racimolava il poco necessario per mantenerli a tutte e tre. Il giorno seguente Angela, dopo aver accompagnati i bambini a scuola, si recò da Stefano per chiarire la cosa. Entrambi convennero che non poteva andare avanti così e propose a Stefano suo marito di andare a lavorare con il padre di lei in campagna, a fare il contadino, pur di salvare la dignità sua, quella dei bambini e della sua famiglia. Stefano accettò e la giornata lavorativa che pecepiva di 50 euro al giorno con i contributi permise alla famiglia di vivere meglio e a Stefano di non fare una vita da mendicante della stazione per il bene della sua famiglia, ormai perduta ed in parte ritorovata. Angela, infatti, non volle che Stefano ritornasse a casa, ma permise di vedere i bambini e fece in modo che il tribunale revocasse, attraverso il suo legale, il dispositivo sulla patria potestà e sul frequentare i bambini. Un piccolo passo in avanti Stefano lo aveva fatto ed era più sereno, pur ammettendo i tanti errori gestionali che aveva fatto quando era dirigente dell’azienda familiare e faceva sprechi di ogni genere. Investimenti sbagliati, acquisti di auto, amava il lusso, la bella vita, le ferie all’estero, giocare, divertirsi perché i soldì erano tanti. Ma la crisi era arrivata anche per la sua azienda e l’aveva travolto buttandolo sul lastrico e coinvolgendo in questa cattiva gestione tutta la sua parentela e i vari dipendenti. Aveva imparato la lezione, ma dovette lavorare per anni per uscire dall’emergenza. I figli una volta diventati maggiorenni frequentarono regolarmente il papà, mentre Angela decise di rimanere sola e farsi una vita nel campo della professione, essendo ormai un architetto ben avviato.

 

 

La modella

 Da piccola sognava di diventare una delle modelle più belle e richieste, oltre che pagate del mondo. Non c’era dubbio. Era una bellissima ragazza. Tutto a posto per fare questo lavoro e magari anche per partecipare ad uno dei concorsi, quelli che si fanno per essere apprezzate e anche ben pagate. Il suo curriculum professionale si era svolto tutto regolare, aveva superato prove, aveva fatto provini, e si era sempre classificata tra le prime se non la prima in senso assoluto. In lei aumentava la stima e la personale autovalutazione arrivò alle stelle, tanto che nessuno si poteva più avvicinare per parlarle. Era una star almeno nella sua zona, anche se non ancora era decollata a livello nazionale e internazionale. In questo suo desiderio di realizzazione nel mondo della moda o dello spettacolo o della televisione era sostenuta dalla mamma che pure aveva sognato di fare lo stesso discorso, ma non le era stato permesso dai genitori, che la pensavano diversamente da lei. Non mancò anche il sostegno del padre, che pur di accontentare la figlia, con tanta sofferenza, vedeva sfilare la sua bambina, ormai donna, tra ali di uomini, molti dei quali cittadini del luogo. Gli apprezzamenti anche in dialetto locale non mancavano verso la figlia. Ed il padre nel silenzio doveva sopportare tutto, considerato che la figlia ormai si era esposta. Venne il giorno in cui ci furono le selezioni per un concorso importante e tra le aspiranti modelle c’era propria la sua figlia diletta. Doveva trasferirsi dal paese alla capitale per partecipare alle selezioni. La partenza dal paese fu in ritardo e qundi per arrivare in tempo con l’auto, guidata dal fidanzato della ragazza sulla quale c’erano leì e i due genitori, si correva a mille all’ora. Una corsa folle, senza rispettare limiti di velocità, facendo sorpassi azzardati, non considerando i rilevatori di velocità disseminati abbondanti lungo tutto il percorso. Nulla in quel momento era più importante: arrivare in tempo alla selezione, perché sarebbe stata un’ottima occasione per decollare nel campo della moda e dello spettacolo a livello internazionale ed avere un contratto lavorativo considerevole. Tutto bene fino alla periferia della città. I 300 Km di distanza il ragazzo l’aveva percorso in poco più di un’ora, alla media di 200 Km all’ora. Ma il dramma si sarebbe consumato a lì a poco, quando l’auto ad alta velocità in una curva sbandò e andò a sbattere davanti al muro. I sistemi di sicurezza dell’auto non causarono grossi traumi ai viaggianti,. Tutti gli airbag erano scattati e aveva protetti i quattro passeggeri da morte certa. La macchina distrutta e i viaggianti con vari escorazioni e ferite. Chi ebbe la peggio in questo terribile incidente fu proprio l’aspirante modella, che ebbe varie lesioni al viso e ferite più o meno profonde alle altre parti del corpo. Tutti i quattro furono portati in ospedalle per gli accertamenti e per le cure del caso. Tre poterono lasciare l’ospedale alla sera stessa, per la ragazza ci vollero diversi giorni per mettere a posto tutto il suo corpo e soprattutto la sua anima e la sua psiche. Il sogno di una vita si era infranto davanti ad un muro sull’autostrada. Ma da quella triste esperienza usci profondamente segnata, ma altrettanto matura per capire che la vita, vale più di una gara per modelle o di un posto di lavoro nel mondo dello spettacolo e della moda. La bellezza fisica non sempre gioca a favore di chi è in possesso di questo singolare dono di Dio, perché più importante è la bellezza del cuore e dell’anima che se ben curata e custodita ci accompagna per tutta la vita, mentre la bellezza esteriore si deturpa con il passare delle ore, dei giorni, dei mesi e degli anni. Da quel giorno Melissa non gareggiò più, si accontentò di trovare un onesto lavoro e sposarsi con il suo Giorgio, anch’ egli traumatizzato per il grave incidente. La più “suonata” di tutta la vicenda fu la madre di Melissa, che da quel giorno avvertiva un senso di colpa che portò con se fino alla tomba. Melissa ebbe tre bellissime bambine, anch’esse aspiranti miss. Ma come madre ormai forte della triste espienza non forzò la volontà delle sue figlie, né chiedeva di premere sull’acceleratore quando le ragazze viaggiano con i rispettivi fidanzati per partecipare ad un concorso di bellezza. Aveva il terrore che potesse succedere anche a loro, ciò che era successo a lei. Prevenire è meglio che curare si era detto nella sua mente di non più figlia, condizionata dalla madre, ma di madre che amava teneramente le sue figlie e non le esponeva a nessun pericolo né alllo sguardo indiscreto di tante persone che lavorano nel campo della moda e dello spettacolo.

 

Naim l’africano

 Era in quella scuola del Sud il primo bambino di colore che faceva ingresso nella scuola dell’obbligo ed aveva appena sei anni, come i tanti bambini italiani che in quell’anno facevano ingresso nella scuola elementare. Era originario del Benin ed è era un bambino bellissimo e simpaticissimo, sprigionava da tutti i suoi pori la voglia e la gioia di vivere. In quella prima classe della scuola elementare tutti gli altri erano bambini del posto, di colore bianco, e tra loro c’era un bambino dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Di quei bambini figli dei grandi signori delle aree del sud con l’aria della persona superiore. Vestiva benissimo, alla moda, aveva tutti i libri a posto, zaino firmato e tutto il resto di marca. Il bambino nero, pulitissimo, aveva pochissime cose con sé, l’essenziale per la scuola, ma era volenteroso nello studio. Comprendeva perfettamente e subito la lezione delle maestre, che insegnavano su quel modulo di classi elementari. In poche parole divenne subito il primo della classe, attirandosi, da un lato la benevolenza delle maestre, e dall’altra la gelosia del bambino biondo che poco riusciva negli studi. I dispetti quotidiani si rinnovavano ogni giorno e non solo in classe, ma anche durante l’orario del gioco all’aperto e durante la mensa. Qui scattava l’odio raziale del bambino bianco, che era stato mal educato dai genitori, perché essi non amavano per nulla i neri ed erano evidentemente persone per nulla tolleranti verso gli extracomuniari. Quel bambino biondo era cresciuto nell’odio razziale e quindi non vedeva di buon occhio la presenza dell’africano nella sua classe e per di più anche il primo in assoluto negli studi. Un giorno mentre giocavano negli spazi aperti della scuola, il bambino biondo cadde e si ruppe la gamba. Il primo a soccorrerlo fu l’africano che con parole di adulto cercava di incoraggiare e sostenere il bambino biondo nella sua sofferenza, in attesa che arrivassero i genitori e soprattutto l’autoambulanza per portarlo in ospedale. Senza farlo muovere, si accostò a lui e nel suo perfetto italiano che aveva appreso benissimo in pochi mesi, gli raccontava delle storie del suo paese d’origine, proprio quando i bambini cadevano e si facevano male e non potevano arrivare né dottore, né autoambulanza, ma solo la mamma o il padre quando c’erano ed erano capaci. A intervenire in quelle circostanze erano solo le suore missionarie o i sacerdoti missionari che in qualche modo cercavano di lenire il dolore dei piccoli e dei grandi con i pochi rimedi medici che avevano a disposizione. Di racconto in racconto, dopo quasi 10 minuti dall’incidente, arrivarono i due genitori del bambino biondo e trovano l’africano vicino al loro figlio. In un primo momento con la rabbia sul volto pensarono che fosse stato l’africano a far male al loro bambino. Il loro figlio capì dagli sguardi e nonostante il dolore che aveva in quel momento si fece avanti dicendo: “Mamma, papà, grazie a Naim sono qui a soffrire di meno. Lo ringrazio di cuore perché è stato un tesoro con me, mentre i miei compagni sono andati via per paura o per non darmi una mano”. I genitori del piccolo Alex, il bambino biondo, presero tra le braccia Naim, lo baciarono e lo ringraziarono per aver fatto compagnia al loro bambino. Nel frattempo arrivò l’autoambulanza e con tutti gli accorgimenti e la prudenza del caso il bambino fu portato in ospedale, curato ed ingessato. Dovette stare 40 giorni al letto e in casa. Ad andarlo a trovare tutti i giorni a fargli fare i compiti e a spiegare le lezioni ad Alex era Naim, l’africano, che nel colore della pelle del suo amico Alex non vedeva né il bianco, né il biondo dei capelli, né gli azzurri occhi del suo compagno, ma solo un suo caro amico al quale voleva bene. La lezione del piccolo Naim per lo stesso Alex e soprattutto per i suoi genitori fu efficace e da allora in poi, in quella famiglia il razzismo scomparve per sempre dai pensieri e dai comportamenti di quei nobili signori di un paese del Sud.

 

Il pianto del ragazzo

 Era tutto solo nella chiesa della Madonna del Carmine e piangerva a dirotto, davanti al santissimo sacramento dell’altare. Da poco si era conclusa la celebrazione eucaristica, durante la quale il sacerdote, nell’omelia, aveva trattato temi importanti come l’unità della famiglia. Evidentemente il ragazzo era rimasto scosso dalle parole del predicatore e riviveva nel suo cuore il dramma dei genitori separati e rivedeva tutte le volte che tra loro due c’erano stati diverbi e come essi avevano segnato la sua psicologia. Nella chiesa vuota era rimasto il ragazzo e una suora. La quale si avvicina al giovane per chiedere: come mai piangesse. “Niente, sorella”, disse. “Voglio stare un altro poco qui davanti a Gesù, per chiedere lumi sul mio futuro”. La suora lascia il ragazzo a meditare davanti all’altare e continua a fare le sue cose, visto che alla chiesa del Carmine era annesso il monastero delle Carmelitane di vita attiva. A distanza di un’ora ritorna nella stessa chiesa per vedere se il ragazzo era ancora lì a pregare e a piangere. Con grande gioia, nota che non c’era più, era andato via. La suora si accingeva a chiudere la porta della chiesa, quando all’improvviso sopraggiunge novamente il ragazzo con le lacrime agli occhi e con un magone nel cuore.La suora sconcertata e preoccupata dello stato d’animo del ragazzo, pensando che potesse farsi del male, chiede aiuto al sacerdote che era ancora in sacrestia a svolgere il suo ministero di padre spirituale. “Padre correte –grida la suora – un giovane si sente male ed ha bisogno di voi”. Il sacerdote lascia quello che stava facendo, dice alla penitente che stava confessandosi di aspettare un attivo che sarebbe ritornato subito. Va in chiesa e si accosta al giovane che continua a piangere a dirotto. Lacrimoni cadono abbondanti dal viso del giovane.  

“Cosa ti è successo, ragazzo mio” chiede il sacerdote.  

“Nulla padre, ho bisogno di pregare, di stare davanti a Gesù Sacramentato”.  

Al che il sacerdote disse di rimanere li finquando voleva.  

Il giovane rimase ancora un’altra ora davanti al santissimo sacramento e poi usci di nuovo.  

Il sacerdote visto che non c’era più nessuno in chiesa, incominciò a chiudere la porta dell’ingresso, quando all’improvviso nuovamente arriva il ragazzo, che piange fortissimamente e chiede conforto al sacerdote.  

“Cosa è successo?”, domandò il prete.  

“Una cosa terribile”, padre, ho visto mia madre nella macchina di un altro uomo, che non è mio padre, che stava in atteggiamento affettuoso, per non dire altro, con questo uomo. E’ stato un colpo mortale per me. Sono corso in chiesa a pregare, perché non sapevo cosa fare in quel momento. Ho chiesto l’aiuto al Signore. Ho aspettato un’ora e sono uscito con la speranza che mia madre avesse salutato quell’uomo e fosse tornata a casa. Invece non era così. Ogni ora sono uscito, ma lei stava sempre lì. Anche in questo momento sta con quella persona. Se vuole, padre, può rendersi conto personalmente della cosa”.  

Al che il prete: “Ti credo figlio mio, non ho bisogno di verificare nulla. Questi fatti purtroppo capitano sempre più frequentemente ai nostri giorni. Non  ci dobbiamo rassegnare alla situazione che si è creata. Ma ti chiedo cosa possiamo fare?”. 

Il ragazzo, replicò subito al sacerdote. “Tanto per iniziare, non le faccia più insegnare il catechismo, visto che è una sua collaboratrice, padre. Quale messaggio di vita cristiana può dare ai ragazzi che si preparano alla cresima?”.  

Al che il sacerdote. “Non posso che darti ragione figlio mio. L’insegnamento della vita vale più di un anno di catechismo. Tua madre da domani in poi, se è vero quello che dici, non potrà più insegnare ai bambini e tantomeno essere credibile per quello che ti raccomanda di fare a te che sei suo figlio. Ma ti posso chiedere una cosa?, aggiunse il sacerdote. 

 “Certo”, rispose il ragazzo.  

“Quando rientrerai –disse il prete- a casa e vedrai tua madre, fa finta di nulla di quello che hai visto. Aspetta che sia lei a dirti la verità, dal momento che sei l’unico figlio e l’unica persona con cui vive ufficialmente, nascondendo agli occhi degli altri la sua vera condotta di vita”.  

Al che il ragazzo. “E se non dovesse dirmi nulla?”.  

Replicò il sacerdote: “Fai una cosa semplice, evangelica, vai da lei e con un grande gesto di amore e di tenerezza, dille: mamma solo un figlio può amare sinceramente la sua mamma e sola una mamma vera può amare davvero il suo figlio”.  

E chiedele: “Mi vuoi ancora bene?. Se ti dice di sì sappi che sta attraversando un momento difficile della sua vita e tu come figlio devi starle vicino per recuperarla all’amore e alla famiglia”.  

Al che il ragazzo: “Io devo stare vicino a mia madre? Ma deve essere lei ad essere vicino a me”.  

Al che il sacerdote disse al ragazzo: “Chi più capisce, più comprende e patisce. Tu hai capito ora che tua madre non è quella che tu pensavi. Lei ora ha bisogno di te, più che tu di lei. Perché tu hai Gesù e sei corso da Lui in questo momento di sconforto. Lei purtroppo è corsa in braccia di un altro uomo, pensando di aver risolto i suoi problemi interiori. Non è così. Lei sta più male di te ed ha bisogno del tuo amore per uscire fuori da questa situazione di immoralità. Fammi il piacere –disse il sacerdote – ora che esci dalla chiesa e vai a casa, fa come ti ho detto e domani passa a dirmi come è andata”.  

Il ragazzo tornò il giorno dopo dal sacerdote, tutto felice e contento, ringraziando il padre per i buoni consigli che gli aveva dato.  

La mamma in quella sera stessa aveva chiamato il suo amante ed aveva detto che era finito, in quanto era più importante l’educazione dei figli che soddisfare i propri istinti e che era disonesto a svolgere il ministero di catechista, vivendo in quella situazione di immoralità, avendo ancora un marito ed un figlio, non solo sulla carta, ma ancora nel cuore.  

La conversione era avvenuta, frutto anche di quella preghiera e del pianto di quel ragazzo, preoccupato di perdere l’amore della mamma e la sua famiglia per sempre.  

La signora non tornò a fare catechismo, anzi fu lei stessa a dire al prete che non se la sentiva e svuotò il sacco di tutta la situazione personale che si era portata avanti da anni, subito dopo la nascita di quel bambino, ormai ragazzo, che tanta preoccupazione ed ansia le procurava in quanto era l’unico vero bene della sua vita.  

L’errore commesso richiedeva una seria purificazione e il modo per attuarlo fu quello di lasciare la parrocchia, dove la notizia in parte era risaputa, e ritarsi a pregare e a frequentare altri ambienti religiosi, ove non era conosciuta e pertanto poteva continuare a vivere la sua esperienza di fede, dopo una sincera confessione fatta al santuario della Madonna del Carmine, ai cui piedi versò tante lacrime di pentimento e di purificazione.  

Maria ormai si era pentita e incominciava una nuova vita, portando la gioia e il sorriso nella sua famiglia. Fece in modo che anche il marito ritornasse a casa e si ricominciasse tutti e tre insieme l’avventura della vita coniugale e familiare, nella sincerità dei rapporti interpersonali.

 

Il falso cieco 

Un giorno, un uomo non vedente, non conosciuto da quella gente, stava seduto, (come tanti specie di domenica) sui gradini di una chiesa con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: “Sono cieco, aiutatemi per favore”.  

Un signore che stava entarndo in chiesa si fermò a leggere il cartello e soprattutto a controllare quanto aveva finora racimolato. Notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello. Si chinò e versò altre monete. Poi, senza chiedere il permesso a quell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase: “Aiutatemi, perché ho una famiglia e non ce la faccio a vivere, sono senza lavoro”.  

Quello stesso pomeriggio il signore tornò dal finto non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote. 

Il miracolo della solidarietà e della carità si era rinnovato anche davanti a quella chiesa, dove di veri e finti chiechi si alternavano per chiedere l’elemosina ai fedeli che entravano ed uscivano dal luogo di culto. 

Il finto non vedente lo riconobbe e lo ringraziò per la scritta vera che aveva fissato sul cartello. Quel signore rispose: “No devi ringraziarmi di niente.  Ho solo scritto la verità, ben conoscendoti e sapendo le tue condizioni. Questa gente non ti conosce e non sanno chi sei. Ma non devi strumentalizzare coloro che davvero soffrono per la cecità”. Sorrise e andò via. 

Dire la verità, non vergognarsi della propria povertà, chiedere aiuto a chi può darlo è un atto di amore e rispetto verso di se e verso quanti dipendono dalle nostre sorti.  

Certo che non bisogna falsificare le carte o le condizioni di salute per ottenere un beneficio, sapendo di poter agire sulla sensibilità degli altri. 

I non vedenti veri sono in primo luogo ad essere nelle attenzioni delle persone sensibili, ma non bisogna sfruttare questa categoria di persone  per ottenere favori, quali pensioni ed altro, perché alla fine prima o poi i finti invalidi vengono scoperti.  

Ma al di là di questo è soprattutto la coscienza che dovrebbe mordere a chi non ha diritto ad una pensione di invalidità. Lo stesso chiedere l’elemosima fingendosi per cieco, offende la dignità, la sensibilità e la sofferenza di chi cieco è davvero.

 

Il testo della meditazione di questa mattina al Gruppo di Pagani

CENACOLO DI PREGHIERA “TOMMASO M. FUSCO” – PAGANI

RITIRO SPIRITUALE 3 MARZO 2013 – STELLA MARIS – MONDRAGONE

Fede e santità della vita

Tutti siamo chiamati ad essere santi, ognuno secondo il proprio stato di vita. E per aspirare alla santità è necessario avere una carica spirituale fortissima ed una fede convinta e matura, coraggiosa e speranzosa. Partiamo da un dato concreto: non è possibile testimoniare Gesù Cristo, non è possibile educare alla vita bella del Vangelo, come ci ricordano i vescovi italiani nel progetto nazionale che ci sta accompagnando negli ultimi anni, se noi non facciamo un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella nostra vita. E questo perché la santità è anche un racconto… il racconto della mia esperienza viva di Gesù Cristo.

Qualche premessa. 

Che cos’è la santità? E’ la vita nello Spirito di Dio: niente di più, niente di meno.

E che cos’è la spiritualità? E’ la mia esperienza concreta davanti a Dio.

La santità è solo questo, e niente di eccezionale… la vita nello Spirito di Dio. È la vita nuova nello Spirito del Cristo risorto. E la spiritualità è la mia esistenza concreta davanti a Dio: sono quello che sono davanti a Dio, non quello che vorrei essere. In questa ottica la santità è accessibile a tutti. La santità, infatti, è la vita, la crescita nella grazia come ci indica lo Spirito del Cristo risorto; è la grazia battesimale che ci trasforma sin dal nostro primo istante della esistenza. 

Domande di fondo

E’ possibile educare alla santità, parlare di santità in questo tempo di crisi? Ma quando della forza del Vangelo viene meno attraverso il nostro stile di vita? Le nostre chiese, i nostri conventi, le nostre parrocchie hanno ancora qualcosa da dire al mondo e alla società? Si può ancora parlare di santità, di pretesa cristiana, di identità cristiana? Si può essere santi in questo tempo di crisi?

Parto da un’affermazione di Papa Benedetto XVI, che giovedì 28 marzo, alle 20,00 conclude il suo ministero petrino, in seguito alle libere dimissioni date il 11 febbraio 2013, al quale va tutta la nostra gratitudine, che nella sua Lettera Apostolica “La porta della fede”, pubblicata in forma di Motu Proprio l’11 Ottobre 2011, al n. 2 afferma: “capita ormai, non di rado, che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali, politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come a un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene persino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto, nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori del Vangelo, oggi non sembra essere più così nei grandi settori della società, a motivo della grande crisi di fede che ha toccato molte persone”. Questo grande dono della fede non rappresenta più un valore di unità nelle nostre comunità e nella stessa società: quindi questa crisi è sicuramente una crisi di fede. Quindi parlare della santità significa certamente andare a rivedere il nostro percorso di fede, il nostro percorso di incontro con Gesù Cristo. Ogni racconto, anche spirituale, nasce da un’esperienza! Se io faccio un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella mia vita, allora lo posso anche io raccontare. Se Gesù Cristo diventa una dottrina, un rito, una tradizione, anche, se volete, un’identità culturale … e spesso nelle nostre parrocchie si è cristiani per identità culturale, la santità, invece, intesa come via della crescita nello Spirito, richiede un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella propria vita. Quindi annunciare Cristo Redentore non significa parlare di una dottrina, né di un contenuto di una sapienza da meditare. Annunciare significa testimoniare Cristo nella propria vita. Potremo dire che la santità è la testimonianza di Cristo nella propria vita.

Santità e conversione

Tempo di Quaresima, tempo di conversione e di maggiore impegno nella santità. La metanoia, la conversione non è uno sforzo etico, non è una questione di buona volontà, ma come ci ha detto il grande profeta Gioele, nella Prima Lettura della Messa del Mercoledì delle Ceneri, convertirsi è ritornare a Dio con tutto il cuore. Ora si tratta di capire che cosa è il cuore.

Nella Scrittura il cuore è la sede della volontà , della conoscenza, dell’intelligenza, della nostra razionalità. Si pensa con il cuore, si ragiona con il cuore. Nella Scrittura non c’è questa separazione tra fede e ragione, intelligenza e volontà, come nella nostra società moderna.

Nella Scrittura il cuore è la sede dei sentimenti, ma soprattutto della volontà. “Ritornare a Dio con tutto il cuore” significa recuperare unità nel nostro essere ‘persona’.

La santità è esperienza di unità, di comunione con Dio e i fratelli. Il peccato, invece, è un’esperienza di divisione e di separazione da Dio e, ovviamente, anche dai fratelli, dal corpo della Chiesa. “Ritornare a Dio con tutto il cuore” è un cambiamento del modo di agire e di essere, e cambiamento anche del nostro modo di pensare, perché noi non siamo convertiti e, per l’appunto, innanzitutto nel modo di pensare la fede, la parrocchia, il nostro rapporto con Gesù Cristo.

Nel termine “metanoia”, “santità” metteteci quanto più c’è di carnale, di umano, ed eliminate tutto ciò che sa di spiritualità disincarnata.

Nel termine spiritualità, nel termine conversione, mettete tutto ciò che è carnale, perché il cristianesimo è una religione carnale. 

Qual è il proprium della fede cristiana? E’ la Risurrezione … ma la risurrezione di che cosa? La risurrezione della carne, perché oggi molti credono nella risurrezione non si sa di che cosa… dell’anima, dello spirito.

La fede, la mia esperienza con Gesù Cristo passa sempre attraverso delle relazioni. San Francesco, ad esempio, riprendeva sempre qualche frate orante che si infastidiva se qualche altro frate si avvicinava per chiedergli qualcosa, perché non voleva essere disturbato nella preghiera. Noi cristiani non professiamo la salvezza delle anime, ma della persona: non si salvano le anime, ma le persone. Con il tema della conversione occorre recuperare tutta la dimensione antropologica e quindi far cadere tanti idoli nel nostro cammino di fede, nel nostro cammino di santità: l’individualismo esasperante nelle nostre comunità, il carrierismo anche dei fedeli laici nella parrocchia, le gelosie presenti anche nelle comunità cristiane. Se non curiamo queste ferite, cioè se non recuperiamo l’uomo, non ci possiamo presentare da nessuna parte a parlare di Gesù Cristo, proprio perché, in questo caso, non siamo delle persone credibili.

La santità del Beato Tommaso Maria Fusco passa attraverso scelte coraggiose di vita, attraverso la croce, la sofferenza, l’incomprensione.

Santità e missione

La missione è l’annuncio del Vangelo oggi, in ogni contesto, in un mondo che è già cambiato! Il mondo è cambiato, e noi, come Chiesa ce ne siamo accorti in ritardo. La proposta cristiana è sempre più ai margini della nostra società. Quindi non esiste più alcuna pretesa. Noi annunciamo, parliamo di Gesù Cristo, ma sempre con la pretesa di essere riconosciuti, che gli altri ci dicano bravo!. Noi pretendiamo che gli altri ci ascoltino, che gli altri riconoscano che Gesù Cristo è la Verità.

Noi pretendiamo, come religiosi o fedeli laici di essere una fiaccola o una luce, ma sul cammino di chi? C’è chi la luce non la vuole vedere, come c’è chi non vuole nessuno annuncio, chi non vuole essere salvato. Nel concetto di missione, evidentemente, dobbiamo mettere in cantiere una possibile esperienza di fallimento, che non ci deve abbattere, ma che rientra anche nel nostro cammino di santità, di vissuto, di annuncio del Vangelo. Quindi un tema serio da trattare nelle nostre comunità, come anche nelle nostre famiglie, è il tema della marginalità. I cristiani sono ai margini della società. Il servizio socio-caritativo di molte nostre Chiese, di parrocchie, di diocesi, per i poveri, il lavoro delle Caritas, per il mondo laico, non credente, è visto come un’affermazione di potere della Chiesa. La società ci vede come Chiesa ai margini e non riconosce nel nostro impegno per il Vangelo il servizio, ma una forma di potere. Educare, formarsi alla vita bella del Vangelo significa anche mettere in cantiere questa esperienza di fallimento.

Nel concetto di missione mettiamoci anche la parrocchia, che non è la panacea per tutti i mali: parocia significa casa in esilio tra le case in esilio. Non è la casa tra le case: nelle nostre parrocchie la percentuale dei fedeli che partecipano alla vita parrocchiale è il 2-3% in generale nei grossi centri urbani, anche se in varie città si raggiunge, per fortuna, ancora un numero più elevato.

Nell’intuizione del compianto vescovo pugliese, don Tonino Bello, la parrocchia è la fontana della piazza, dove ci deve stare sempre l’acqua: quando incontriamo una fontana senza l’acqua restiamo delusi. La parrocchia è la fontana ove c’è sempre l’acqua fresca che sgorga: c’è chi la usa per rinfrescarsi, per dissetarsi, chi ci gioca un po’… chi la sciupa … chi la guarda e se ne va …

In una parrocchia ci deve stare sempre l’acqua viva. Dobbiamo anche accettare che non tutti verranno alla fontana ad attingere.

In questa esperienza di conversione, dunque, cambiamo anche il nostro modo di pensare, di essere Chiesa, di essere sempre giusti al servizio degli altri.

La santità, dunque, come l’annuncio, la conversione, come la testimonianza, è un problema di fede e di libertà: di fede perché se la fede è dare il cuore, se la fede è camminare dietro il Cristo crocifisso e risorto, allora essa è la santità, la crescita nello Spirito; di libertà perché è una questione di scelta. Mi piace ricordare, al proposito, un teologo del secolo scorso, Karl Rahner, il quale già negli anni ’70 parlava di una sorta di ateismo preoccupato.

Rahner diceva che i cristiani, perché si sentono in minoranza, si sentono emarginati, praticano un ateismo “preoccupato”, cioè la vergogna di testimoniare, di parlare di Gesù Cristo. Ma… noi … a dire il vero, nelle nostre parrocchie parliamo di Gesù, raccontiamo la nostra esperienza di Gesù quando preghiamo, partecipiamo all’eucaristia, insegniamo? Nelle nostre comunità religiose parliamo di Gesù tra di noi, raccontiamo l’esperienza spirituale?

Il nostro approccio alla fede è sempre ancora dottrinale, ci vergogniamo ancora di raccontare la nostra esperienza concreta di Gesù Cristo. Questa vergogna esiste tra i preti, tra i frati, tra i fedeli laici … Noi dobbiamo raccontare la nostra esperienza di Gesù Cristo nella nostra vita: quindi è una questione di fede e di libertà. Il Papa ci dice che viviamo in una società in cui i valori cristiani sono stati messi da parte e, quindi, ognuno pratica una verità, ognuno pratica un percorso di fede di liberazione. Quindi nessuno più si ente obbligato a confrontarsi con la proposta cristiana. Se tu oggi vuoi essere santo vuoi essere un profeta, vuoi essere luce, la prima cosa che devi fare ci devi credere, devi praticare quel percorso e devi andare contro corrente: ecco perché è una questione di libertà. Mi convinco nel tempo che il cammino di conversione che dobbiamo fare come Chiesa è proprio un cammino di libertà, andando contro i luoghi comuni, contro i pregiudizi, i giudizi superficiali, contro il plauso che cerchiamo dalla folla. L’insegnamento di Papa Benedetto XVI con le sue dimissioni dal soglio pontificio ci dicono molto su questo versante.

Spesso valutiamo le nostre parrocchie, il nostro successo pastorale dal fatto che le chiese sono piene o sono vuote: questo è un falso valore. La santità è questione di fede: nella vita bisogna fidarsi di qualcuno: se ci fidiamo di Dio e vogliamo essere dei discepoli, allora saremo anche dei credenti.

Dice Dio in Geremia, capitolo 1, 8: “Io sono con te”, cioè sono sempre dalla tua parte, sono sempre vicino a te, sono presente alla tua vita. Quindi se  ci fidiamo di Dio, allora la nostra vita cambierà di significato.

Due sono le malattie che colpiscono la vita spirituale nostra: la sclerocardia (indurimento del cuore) e l’indifferenza.

Innanzi ai segni dei tempi, ai segni della storia, un cristiano che non si lascia interpellare da certi cambiamenti epocali, da certi segni della società è un ammalato di porosis, di indifferenza, al punto da non essere neanche più un profeta.

Ecco due immagini che possono aiutarci  come cristiani, nel cammino della santità.

La prima immagine è la metafora del vetro: dobbiamo essere persone trasparenti.

Se sono trasparente come il vetro, rifletto la luce, splendo di questa luce, allora sarò significativo nel mondo di oggi, allora potrò educare alla vita bella del Vangelo. Ma se sono opaco non avrò niente da dire.

Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, parla del volto di Cristo nella Chiesa e la Chiesa come volto di Cristo. La Chiesa attraverso il peccato opacizza il volto di Cristo. Il falso moralismo non ci rende credibili, e questo è vero anche per chi esercita autorità.

L’altra immagine è quella del giardino. I Padri della Chiesa hanno riletto il fatto che Adamo è collocato nel Giardino dell’Eden con l’idea che quel Giardino è Cristo. Adamo, anche dopo il peccato non viene scacciato dal Giardino, ma viene ricollocato nel Giardino che è Cristo. Questo significa che dobbiamo veicolare attorno all’uomo una santità, un cammino spirituale, un cammino di annuncio. Un cammino di annuncio che non gira attorno all’uomo non è vero ed autentico. Quindi l’immagine del Giardino significa che noi dobbiamo prenderci cura dell’uomo. Al riguardo, nella Lettera agli Ebrei si parla del Figlio di Dio sacerdote eterno, Gesù Cristo, che si è preso cura della stirpe di Abramo.

Girare attorno all’uomo: la santità passa sempre per un discorso che è antropologico. Adamo non è cacciato dal giardino, ma è messo nella storia della salvezza. La Chiesa deve prendersi cura di Adamo, cioè orbitare attorno all’uomo, alle nuove esigenze antropologiche. Evangelizzare, formarsi, convertirsi, essere santi è imparare a girare intorno all’uomo, conoscere le nuove frontiere antropologiche dell’umanità.

La metafora del giardino e del vetro denunciano, forse, un problema di crisi di fede, alcuni mali del nostro agire da cristiani, l’individualismo, il trionfalismo, il fideismo. Non è possibile che in una comunità cristiana ci sia un vuoto di formazione spirituale e dottrinale.  Questo è un problema di fede, perché se non so cosa mi dà la mia religione, posso aderire facilmente ad un’altra religione. Se non conosco il proprium della mia fede… Quale prodotto mi offre il cristianesimo?, ci chiediamo quasi in termini commerciali. Quali risposte mi offre. Se non so cosa è la risurrezione della carne allora posso cadere in una sorta di relativismo, in qualsiasi momento della nostra vita.

Allora cosa dobbiamo fare?

Dobbiamo tentare di essere anti-segno: questo è il nostro impegno. I Greci cercavano la sapienza, gli Ebrei i segni della sapienza. Noi invece predichiamo Cristo crocifisso e risorto. Quindi non dobbiamo convincere nessuno. Dobbiamo essere anti-segno, ripartire da questa esperienza di marginalità. Ma voi credete veramente che Paolo ad Efeso aveva fondato delle Chiese? Le Chiese di Paolo era quattro case, tre famiglie … Ad Efeso, nell’esempio, chi ascoltava Paolo? Poche persone. Però Paolo annunciava Gesù Cristo, questa proposta di vita nuova, alla persone di buona volontà. Quindi non ci dobbiamo vergognare di Gesù Cristo, né sentirci inferiori a chicchessia, o cercare carrierismo o trionfalismo. Noi siamo essere umani, abbiamo bisogno a volte di certezze: se la chiesa è piena, se ad un incontro vi sono tante persone il parroco è contento … ma non è quello che ci deve dare sicurezza. Anche se ci sono solo tre persone di buona volontà nella nostra parrocchia, noi vogliamo essere anti-segno, andare contro-corrente. Questa è l’unica risposta che noi abbiamo. Ci vergogniamo di annunciare il Vangelo, di predicare la parola della fede, in ogni occasione, dice Paolo a Timoteo, opportuna e inopportuna (2 Tim 1,2). Quindi dobbiamo raccontarci la nostra esperienza vera di Gesù Cristo; dobbiamo fare scelte impopolari e poco seducenti per la società, allontanandoci dalla mentalità di questo secolo. Ad esempio, se una coppia non è preparata, consigliatele di non sposarsi in chiesa; se una coppia viene a ricevere il sacramento della Cresima solo perché si deve sposare, ma ditegli che si possono sposare anche senza il Sacramento della Cresima: essere anti-segno!

Interroghiamoci frequentemente su questa possibilità di essere anti-segno, impopolari, senza avere la pretesa di sedurre le persone.

L’esempio di Tommaso Maria Fusco

Tommaso Maria Fusco, settimo di otto figli, nacque a Pagani (SA), in diocesi di Nocera-Sarno, il 1° dicembre 1831, dal farmacista dott. Antonio, e dalla nobildonna Stella Giordano, genitori di integra condotta morale e religiosa che seppero formarlo alla pietà cristiana e alla carità verso i poveri.

Fu battezzato lo stesso giorno della nascita nella Parrocchia di San Felice e Corpo di Cristo.

Ben presto rimase orfano della madre, vittima dell’epidemia colerica nel 1837 e, pochi anni dopo, nel 1841, perdette anche il padre. D’allora si occupò della sua formazione don Giuseppe, lo zio paterno, il quale gli fu maestro negli studi primari.

Fin dal 1839, anno della canonizzazione di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, il piccolo Tommaso aveva sognato la chiesa e l’altare e finalmente nel 1847 entrò nel Seminario diocesano di Nocera, dal quale nel 1849 uscirà consacrato sacerdote il fratello Raffaele.

Il 1° aprile 1851 Tommaso Maria ricevette il Sacramento della Cresima e il 22 dicembre 1855, dopo la formazione seminaristica, fu ordinato sacerdote dal Vescovo Agnello Giuseppe D’Auria.

In questi anni di esperienze dolorose, per la perdita di persone care alle quali si aggiungeva quella dello zio (1847) e del giovane fratello Raffaele (1852), si sviluppa in Tommaso Maria una devozione già cara a tutta la famiglia Fusco: quella al Cristo paziente e alla sua SS. Madre Addolorata, come viene ricordato dai biografi: «Era devotissimo del Crocifisso e tale rimase sempre».

Fin dall’inizio del ministero curò la formazione dei fanciulli, per i quali in casa sua, aprì una Scuola mattinale, e ripristinò la Cappella serotina, per i giovani e gli adulti presso la chiesa parrocchiale di San Felice e Corpo di Cristo con lo scopo di promuovere la loro formazione umana e cristiana. Essa fu un autentico luogo di conversioni e di preghiera, come lo era stata nell’esperienza di Sant’Alfonso, venerato e onorato a Pagani per il suo apostolato.

Nel 1857 fu ammesso alla Congregazione dei Missionari Nocerini, sotto il titolo di San Vincenzo de’ Paoli, con la immissione in una itineranza missionaria estesa specialmente alle regioni dell’Italia meridionale.

Nel 1860 fu nominato cappellano del Santuario della Madonna del Carmine, detta delle Galline, in Pagani, dove incrementò le associazioni cattoliche maschili e femminili, e vi eresse l’altare del Crocifisso e la Pia Unione per il culto al Preziosissimo Sangue di Gesù.

Per l’abilitazione al ministero del confessionale, nel 1862 aprì nella sua casa una Scuola di Teologia morale per i Sacerdoti, infiammandoli all’amore del Sangue di Cristo: nello stesso anno istituì la «Compagnia (sacerdotale) dell’Apostolato Cattolico» per le missioni popolari; nel 1874 ebbe l’approvazione dal Papa Pio IX, oggi beato. Profondamente colpito dalla disgrazia di un’orfana, vittima della strada, il 6 gennaio giorno dell’Epifania del 1873, dopo attenta preparazione nella preghiera di discernimento, don Tommaso Maria fondò la Congregazione delle «Figlie della Carità del Preziosissimo Sangue». L’Opera ebbe inizio nella Chiesa della Madonna del Carmine, alla presenza del Vescovo Raffaele Ammirante il quale, con la consegna dell’abito alle prime tre Suore, benedisse il primo Orfanotrofio per sette orfanelle povere del paese. Sulla nascente famiglia religiosa e sull’Orfanotrofio, dietro sua richiesta, non tardò a scendere anche la benedizione del Papa.

Don Tommaso Maria continuò a dedicarsi al ministero sacerdotale con predicazione di esercizi spirituali e di missioni popolari; e su questa itineranza apostolica nacquero le numerose fondazioni di case e orfanotrofi che segnarono la sua eroica carità, ancora più intensa specialmente nell’ultimo ventennio della sua vita (1870-1891).

Agli impegni di Fondatore e Missionario Apostolico associò anche quelli di Parroco (1874-1887) presso la Chiesa Matrice di San Felice e Corpo di Cristo, in Pagani, di confessore straordinario delle monache di clausura in Pagani e Nocera, e, negli ultimi anni di vita, di padre spirituale della Congrega laicale nel Santuario della Madonna del Carmine. Ben presto don Tommaso Maria, divenuto oggetto d’invidia per il bene operato col suo ministero e per la vita di sacerdote esemplare, affronterà umiliazioni, persecuzioni fino all’infamante calunnia nel 1880, da un confratello nel sacerdozio. Ma egli sostenuto dal Signore, portò con amore quella croce che il suo Vescovo Ammirante, al momento della fondazione, gli aveva preconizzato: «Hai scelto il titolo del Preziosissimo Sangue? Ebbene, preparati a bere il calice amaro». Nei momenti della durissima prova sostenuta in silenzio, ripeteva: «L’operare e il patire per Dio sia sempre la vostra gloria e delle opere e patimenti che sostenete sia Dio la vostra consolazione in terra e la vostra mercede in cielo. La pazienza è come la salvaguardia e il sostegno di tutte le virtù».

Consumato da una patologia epatica, don Tommaso Maria chiuse piamente la sua esistenza terrena il 24 febbraio 1891.

Ritiro spirituale – Suore Diocesi di Sessa Aurunca

RITIRO SPIRITUALE MENSILE

SUORE DELLA DIOCESI DI SESSA AURUNCA

CARINOLA –DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

 

LA VITA CONSACRATA UN CAMMINO DI LUCE

E DI TRASFIGURAZIONE

 

Negli ultimi anni del XX secolo si è avvertita la necessità di descrivere più accuratamente l’identità dei vari stati di vita nella Chiesa: “in questi ultimi anni si è avvertita la necessità di esplicitare meglio l’identità dei vari stati di vita, la loro vocazione e la loro missione specifica nella Chiesa” (VC 4b). La risposta a tale necessità è avvenuta mediante il lavoro di tre Sinodi, i cui frutti sono stati raccolti da Giovanni Paolo II in tre Esortazioni postsinodali. Il 30 dicembre 1988 venne pubblicata l’Esortazione postsinodale sui laici “Christifideles laici”. Il 25 marzo 1992 apparve l’Esortazione postsinodale sulla formazione dei sacerdoti “Pastores dabo vobis”. Il 25 marzo 1996 è stata firmata l’Esortazione postsinodale sulle persone consacrate “Vita consecrata”. Consapevole dei deplorevoli attacchi all’identità della vita consacrata, mossi a volte persino mediante l’uso di frasi del Concilio, nell’ultima Esortazione il Papa ha voluto soprattutto illustrare la peculiare e positiva identità della vita consacrata nella Chiesa. Le riflessioni del Papa infatti si incentrano sull’identità biblica e teologica della vita consacrata.

Nel suo luminoso testo, il Papa non prende un atteggiamento di rottura con il passato. Segue, invece, una linea di continuità e di sviluppo. Segue una linea di continuità, perché presenta una identità in armonia con il Magistero del Concilio. Il Papa dichiara esplicitamente che, tanto nelle sue catechesi sistematiche sulla vita consacrata, tenute durante e dopo il Sinodo, come nella sua Esortazione, il Concilio “è stato luminoso punto di riferimento” (VC 13d). Segue anche una linea di sviluppo, perché esplicita meglio gli elementi positivi dell’identità della vita consacrata e perché intende offrire, con piena consapevolezza, una interpretazione autentica dei testi del Concilio. Ad esempio, il Papa ripropone (cfr VC 29b) l’affermazione del Concilio, secondo la quale la professione dei consigli evangelici appartiene indiscutibilmente alla vita e alla santità della Chiesa (cfr LG 44) e, respingendo le false interpretazioni, la spiega con autorità in questo modo: “Questo significa che la vita consacrata, presente fin dagli inizi, non potrà mai mancare alla Chiesa come un suo elemento irrinunciabile e qualificante, in quanto espressivo della sua stessa natura” (VC 29b).

Nella sua lettera “Novo Millennio ineunte” (6 gennaio 2001), il Papa invita i religiosi e le religiose a coltivare con cura i valori positivi della loro “speciale consacrazione” (NMI 46), attuando con rinnovato slancio il programma di “ripartire da Cristo” (NMI 29), supremo consacrato e missionario del Padre.

 

1. I più importanti documenti con cui confrontarsi

 

1) Orientamenti della costituzione dogmatica “Lumen gentium” (1964).

2) Orientamenti del decreto “Perfectae caritatis”(1965).

3) Orientamenti del motu proprio “Ecclesiae Sanctae” (1966).

4) Orientamenti dell’istruzione “Renovationis causam” (1969).

5) Orientamenti del nuovo “Messale Romano” (1970).

6) Orientamenti del “Rito della professione religiosa” (1970).

7) Orientamenti dell’Esortazione “Evangelica testificatio” (1971).

8) Orientamenti dell’Esortazione “Evangelii nuntiandi”.(1975).

9) Orientamenti del documento “Mutuae relationes” (1978).

10) Orientamenti di Giovanni Paolo II nei primi anni del suo pontificato (1978-1980).

11) Orientamenti del documento “Religiosi e Promozione umana” (1980).

12) Orientamenti del documento “Dimensione contemplativa della vita religiosa” (1980).

13) Orientamenti del documento sulla pastorale delle vocazioni (1982).

14) Orientamenti del nuovo “Codice di Diritto Canonico” (1983).

15) Orientamenti dell’istruzione “Elementi essenziali” (1983).

16) Orientamenti dell.’Esortazione “Redemptionis donum” (1984).

17) Orientamenti del messaggio di Giovanni Paolo II ai Religiosi e alle Religiose del Brasile (1986).

18) Orientamenti di Giovanni Paolo II nel discorso all’USMI (1988)

19) Orientamenti della lettera a tutte le persone consacrate (1988)

20) Orientamenti dell’istruzione “Potissimum institutioni” (1990).

21) Orientamenti della lettera di Giovanni Paolo Il ai Religiosi e alle Religiose dell’America Latina (1990).

22) Orientamenti dell’Enciclica “Redemptoris missio” (1990).

23) Orientamenti del documento sulla pastorale delle vocazioni (1992).

24) Orientamenti del nuovo “Catechismo della Chiesa Cattolica” (1992).

25) Orientamenti dell’istruzione “La vita fraterna in comunità” (1994).

26) Orientamenti di Giovanni Paolo II delle catechesi in occasione del Sinodo sulla vita consacrata (1994-1995).

27) Orientamenti dell’Esortazione “Vita consecrata” (1996).

28) Orientamenti del messaggio di Giovanni Paolo II per la celebrazione della Giornata della vita consacrata (1997).

29) Orientamenti dell’istruzione “La collaborazione inter-Istituti per la formazione” (1998).

30) Orientamenti di Giovanni Paolo II nel Giubileo della vita consacrata (2000).

31) Orientamenti della lettera “Novo millennio ineunte” (2001).

 

 

 

2. Vita di speciale configurazione a Cristo

 

La vita consacrata deve essere innanzitutto una presenza viva di Cristo nel mondo: “Veramente la vita consacrata costituisce memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato” (n. 22c). Questa è la nota più caratteristica, sia tra i cristiani sia tra i non cristiani: “Le persone consacrate, infatti, hanno il compito di rendere presente anche tra i non cristiani (cfr LG 46; EN 69) il Cristo casto, povero, obbediente, orante e missionario” (n. 77).

Nella linea dell’inizio del capitolo VI della costituzione “Lumen gentium”, ma con una esplicitazione trinitaria, dobbiamo affermare: “La vita consacrata, profondamente radicata negli esempi e negli insegnamenti di Cristo Signore, è un dono di Dio Padre alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito. Con la professione dei consigli evangelici i tratti caratteristici di Gesù – vergine, povero ed obbediente – acquistano una tipica e permanente “visibilità” in mezzo al mondo” (n. 1a). Per illustrare il rapporto biblico e teologico esistente tra la vita consacrata e la vita di Cristo, l’Esortazione predilige il linguaggio diretto e positivo, presente anche nei testi del Concilio: “La vita consacrata (…) rappresenta nella Chiesa (…) la forma di vita che Gesù supremo consacrato e missionario del Padre per il suo Regno, ha abbracciato” (n. 22a). Nella vita consacrata si abbraccia la proposta di una esistenza “cristiforme” (n. 14b), che richiede “l’adesione conformativa a Cristo dell’intera esistenza” (n. 16b). L’aspirazione della persona consacrata “è di immedesimarsi con Lui, assumendone i sentimenti e la forma di vita” – (n. 18b), con “il desiderio esplicito di totale conformazione a Lui” (n. 18c). Il supremo desiderio dei religiosi e delle religiose deve essere quindi quello di diventare “persone cristiformi” (n. 19b). Questa identità biblica e teologica determina la natura della formazione, che deve avere la configurazione a Cristo come il suo obiettivo centrale: “Dal momento che il fine della vita consacrata consiste nella configurazione al Signore Gesù e alla sua oblazione, è soprattutto a questo che deve mirare la formazione. Si tratta di un itinerario di progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre” (n. 65b). Volendo, tuttavia, sottolineare che non intende negare agli altri cristiani l’elemento di una comune, battesimale e fondamentale configurazione a Cristo, l’Esortazione usa alle volte il linguaggio caratterizzante della formula “più”, presente anche nei testi del Concilio: la vita consacrata “più fedelmente imita” (n. 22a) la forma di vita di Gesù, e ne è “una conformazione più compiutamente espressa e realizzata” (n. 30a). Sempre per lo stesso motivo, l’Esortazione, come il Concilio, indica che quella della vita consacrata è una “speciale conformazione a Cristo” (n. 3ld). Questa caratteristica della speciale configurazione a Cristo si riferisce tanto alla figura biblica di Cristo come “supremo consacrato (…) del Padre” (n. 22a), quanto alla sua figura di “Apostolo del Padre” (n. 9b) o “supremo missionario del Padre” (n. 22a). Perciò il senso biblico e teologico della “nuova e speciale consacrazione” (nn. 30t; 3ld) e della “speciale missione” (n. 17a) delle persone consacrate è una caratteristica soprattutto cristologica.

 

3. Vita di speciale comunione di amore col Padre

 

Il religioso e la religiosa sono legati alla Trinità non solo a causa della grazia santificante e dei doni ricevuti nel battesimo, ma anche a motivo della “grazia della vocazione” (n. 64b). Essi, infatti, ricevono una “grazia di (…) speciale comunione di amore con Cristo” (n. 15c), che è anche grazia di speciale comunione di amore col Padre. All’origine della “speciale grazia di intimità” (n. 16a), con cui Cristo chiama alcune persone alla vita di speciale sequela, “sta sempre l’iniziativa del Padre” (n. 14b), “sorgente dell’amore” (n. 111b),”che attrae a sé (cfr Gv 6, 44) una sua creatura con uno speciale amore e in vista di una speciale missione” (n. 17a). “L’esperienza di questo amore gratuito di Dio è a tal punto intima e forte che la persona consacrata avverte di dover rispondere con la dedizione incondizionata della sua vita, consacrando tutto, presente e futuro, nelle sue mani” (n. 17a). Per questo la vita consacrata “è annuncio di ciò che il Padre compie con il suo amore, la sua bontà, la sua bellezza” (n.

20a).

La vita consacrata ha una “triplice relazione” (n. 36f), un “triplice orientamento: verso il Padre, innanzitutto” (n. 36e). Dato che la vita consacrata “realizza a titolo speciale quella confessio Trinitatis che caratterizza l’intera vita cristiana” (n. 2la), tale confessione deve essere rivolta verso il Padre, innanzitutto . La persona consacrata deve rendersi conto che Dio Padre è anche il suo più alto formatore, perché “Dio Padre (…) è il formatore per eccellenza di chi si consacra a Lui” (n. 66a; cfr nn.70fg). Il Padre è l’agente più determinante di tutta l’opera della formazione, l’agente divino che “plasma nel cuore dei giovani e delle giovani i sentimenti del Figlio” (n. 66a). Come Cristo, che durante tutta la sua esistenza terrena si lasciò formare dal Padre vivendo sempre “in atteggiamento di docilità al Padre” (n. 22b), le persone consacrate, “docili alla chiamata del Padre” (n. 1b), debbono ininterrottamente lasciarsi plasmare dallo stesso Padre.

La vocazione alla vita religiosa è una “chiamata del Padre” (n. 1b), “un’iniziativa tutta del Padre” (n. 17b). La rivelazione (cfr Gv 17, 11) presenta il Padre come “Padre Santo” (n. 111b) e ci fa “scoprire nell’iniziativa del Padre, fonte di ogni santità, la sorgente originaria della vita consacrata” (n. 22a). Il Padre è “prima origine e scopo supremo della vita consacrata” (n. 2le). Perciò alle decisive domande “da dove vieni?” e “dove vai?”, il religioso e la religiosa possono rispondere: “A Patre ad Patrem” (n.17t), “dal Padre al Padre”, cioè dalla “sublime bellezza di Dio Padre” (n.16d) alla gloriosa “casa del Padre” (n. 52b).

 

4. Vita di speciale comunione di amore con lo Spirito Santo

 

La persona consacrata ha un peculiare rapporto con la Trinità (cfr nn. 14b; 16d; 2la). Come abbiamo detto, la persona consacrata riceve una “grazia di (… ) speciale comunione di amore con Cristo” (n. 15c), che è necessariamente anche grazia di speciale comunione di amore col Padre (cfr n. 17a). Il doveroso rispetto dell’armonia trinitaria, ci. obbliga a pensare che tale grazia è anche grazia di speciale comunione di amore con lo Spirito Santo.

Ogni cristiano riceve dallo “Spirito Santo e santificante” (n. 95b) la grazia sacramentale e i doni del battesimo. Il religioso e la religiosa, tuttavia, ricevono dallo stesso Spirito uno specifico dono: “A questa chiamata corrisponde, peraltro, uno specifico dono dello Spirito Santo, affinché la persona consacrata possa rispondere alla sua vocazione e alla sua missione” (n. 30c).

Si tratta di “un particolare dono dello Spirito, che apre a nuove possibilità e frutti di santità e di apostolato” (n. 30d). Ai religiosi e alle religiose, quindi, viene offerto un peculiare dono, che ha la forza di trasformarli in “persone cristiformi” (n. 19b): “Una tale esistenza “cristiforme”, proposta a tanti battezzati lungo la storia, è possibile solo sulla base di una peculiare vocazione e in forza di un peculiare dono dello Spirito” (n. 14b). In questo modo la speciale sequela di Cristo ha anche “una connotazione essenzialmente (… ) pneumatologica” (n. 14b).

I religiosi e le religiose debbono coltivare “in modo particolarmente vivo” (n. 14b) insieme all’orientamento “verso il Padre” (n. 36c) e all’orientamento “verso il Figlio” (n. 36d), l’ “orientamento verso lo Spirito Santo” (n. 36e). Mai si può dimenticare che “la chiamata alla vita consacrata è in intima relazione con l’opera dello Spirito Santo” (n. 19b): “E’ lo Spirito che suscita il desiderio di una risposta piena; è Lui che guida la crescita di tale desiderio (…); è Lui che forma e plasma l’animo dei chiamati, configurandoli a Cristo casto, povero e obbediente e spingendoli a far propria la sua missione” (n. 19b). Alimentando “la fedeltà allo Spirito Santo” (n. 62g), coltivando con speciale cura la “vita nello Spirito” (n. 71b), i religiosi e le religiose saranno veramente fedeli alla “propria identità” (n. 71b) e raggiungeranno “una serenità profonda” (n. 71b). Lo Spirito farà gustare loro la sua “amicizia” (n. 111d), le riempirà della sua “gioia” (n. 111d) e del suo “conforto” (n.111d), e le renderà “specchio della bellezza divina” (n. 111d).

 

5. Vita di speciale configurazione alla Vergine Maria

 

Il mistero della vita religiosa, visto alla luce della vita evangelica della Vergine Maria, acquista un nuovo splendore. In effetti, come conferma l’Esortazione, Maria “è esempio sublime di perfetta consacrazione, nella piena appartenenza e totale dedizione a Dio” (n. 28b). Perciò “la vita consacrata guarda a Lei come a modello sublime di consacrazione al Padre, di unione col Figlio e di docilità allo Spirito, nella consapevolezza che aderire “al genere di vita verginale e povera” (LG 46) di Cristo significa far proprio anche il genere di vita di Maria” (n. 28c). Tutte le persone consacrate sono chiamate a coltivare con maggiore chiaroveggenza il valore mariano della loro vita spirituale: la presenza di Maria ha “un’importanza fondamentale sia per la vita

spirituale di ogni singola anima consacrata, sia per la consistenza, l’unità, il progresso di tutta la comunità” (n. 28a). Maria è modello di vita consacrata: “pronta nell’obbedienza, coraggiosa nella povertà, accogliente nella verginità feconda” (n. 112c). Maria è maestra nel pregare (cfr n. 34b), nel “proclamare le meraviglie” (n. 112b) del Signore, nel “portare Gesù” (n. 112b) e nell’unione al Cristo sofferente (cfr n. 23c).

L’Esortazione invita esplicitamente a fare un approfondimento biblico sulla dimensione mariana della vita consacrata, meditando assiduamente “le parole e gli esempi (… ) della Vergine Maria” (n. 94a). “Ogni missione inizia con lo stesso atteggiamento espresso da Maria nell’annunciazione: ‘Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto’ (Lc 1, 38)” (n. 18d). La comunione della persona consacrata con la Vergine Maria è una speciale comunione di amore: “Nella Vergine la persona consacrata incontra (… ) una Madre a titolo del tutto speciale” (n. 28d). Alla “speciale tenerezza materna” (n. 28d) di Maria, la persona consacrata risponde “amandola e imitandola con la radicalità propria della sua vocazione” (n. 28d).

MONDRAGONE. RITIRO SPIRITUALE QUARESIMALE

 RITIROFEBBRAIO2013.jpg“Non voglio che la carità La carità che nasce dalla fede”, è una delle espressioni che ha scritto la Serva di Dio Victorine le Dieu, fondatrice delle Suore di Gesù Redentore, che a Mondragone hanno una loro storica presenza alla Colonia permanente della Stella Maris. Domani 21 febbraio 2013 si svolgerà in questa struttura di accoglienza e di spiritualità il quinto incontro di spiritualità nell’anno della fede e in preparazione alla Pasqua 2013. Si tratta del primo ritiro di questa Quaresima 2013 che assume uno speciale significato sia per la ricorrenza dei 150 anni della nascita delle Suore di Gesù Redentore e sia per la rinuncia del Papa, Benedetto XVI, al ministero petrino. Il tema che padre Antonio Rungi, missionario passionista e teologo morale presenterà nella giornata di ritiro sarà: “La  fragilità della nostra fede. L’esperienza della Serva di Dio Madre Victorine Le Dieu”. Il ritiro spirituale aperto a tutti (sacerdoti, religiosi e laici) è così programmato: Ore 9.00: Accoglienza; Ore 9,25: celebrazione delle lodi (in cappella); Ore 10,00: Prima meditazione dettata da padre Rungi, sulla fragilità della nostra fede (in sala Le Dieu); Ore 11,00: Pausa (in silenzio); Ore 11,15: Adorazione eucaristica e confessioni (in cappella); Ore 12,00: celebrazione eucaristica, presieduta da padre Rungi  (in cappella); Ore 13,00: Pranzo; Ore 14,00: Deserto (passeggio solitario nel giardino); Ore 15.00: Via crucis (in giardino se il tempo e’ buono), su testi di Papa Ratzinger; Ore 16,00: Seconda meditazione dettata da padre Rungi sull’esperienza di fede vissuta dalla Serva di Dio (in sala Le Dieu); Ore 17.00: celebrazione dei Vepri (in sala Le Dieu), Ore 17,30: saluti.

 

A seguire il corso di formazione spirituale sono diversi laici di Mondragone e dintorni che da tre anni vengono accompagnati nel loro itinerario di fede da padre Antonio Rungi, passionista. Si tratta di persone giovani e meno giovani che fanno parte di un cammino spirituale avviato dal otto anni dalle Suore della Stella Maris, mediante i cenacoli di preghiera, la via crucis, il rosario settimanale, le varie celebrazioni in occasione di ricorrenze particolari per l’istituto e d’estate anche il rosario in spiaggia. Guidate dal loro assistente spirituale, padre Antonio Rungi, le Suore della Stella Maris rappresentano uno degli istituti più dinamici da un punto di vista spirituale e di iniziative varie in tutta la Diocesi di Sessa Aurunca. Le sei religiose che compongono attualmente la comunità della Stella Maris, guidate dalla responsabile, Suor Maria Paola Leone, sono molto impegnate nel campo spirituale, apostolico e pastorale. In occasione poi dei 150 anni della nascita del loro istituto, le Suore della Stella Maris stanno portando avanti un progetto pastorale di ampio respiro, compreso quello di un Recital sulla vita della loro fondatrice, Madre Victorine Le Dieu che verrà rappresentato a Maggio 2013. Comune pure le Suore stanno predisponendo un seminario di studi sulla figura della fondatrice, che si svolgerà alla Stella Maris nel mese di maggio.

 

 

 

 

 

Domani 14 febbraio importante convegno alla Lateranense

Cruz_Cipriani Giovanni_Mapa do Brasil_a_2003.JPG“La fede nasce dall’ascolto della Croce”, è questo il tema del Seminario di studi promosso dalla Cattedra Gloria Crucis, presente nell’Università Teologia Lateranense in Roma e che si svolgerà il giorno 14 febbraio 2013, giovedì, alla Lateranense.
Il seminario sarà anche l’occasione per riflettere sulla rinuncia del Santo Padre, Benedetto XVI, al ministero petrino, per motivi di salute e per il bene della Chiesa. La Lateranense che è l’Università del Papa è il luogo ideale per approfondire questo tema, da un punto di vista teologico, ecclesiologico e canonico. I passionisti, infatti, sono impegnati da anni nella Lateranense, per  portare avanti un progetto di particolare attenzione sul mistero del Cristo Crocifisso e sulla Memoria Passionis, secondo il carisma del loro fondatore, San Paolo della Croce. Il Verbum Crucis è infatti centrale nella loro spiritualità, ma anche nel loro impegno di evangelizzazione. Da qui la concentrazione in questo seminario di studi sul tema della fede, che nasce dalla parola della Croce. Nell’anno della fede, non poteva mancare questa accentuazione del mistero della redenzione del genere umano, partendo dal Crocifisso e dalla Passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, cuore di tutta la fede cristiana. Dopo la celebrazione del capitolo generale, nel settembre-ottobre scorso, anche i passionisti italiani stanno in fase di nuova organizzazione e sistemazione giuridica, ma anche di stile di vita. Con la nuova configurazione intitolata al Vescovo Martire, il beato Eugenio Bossilkov, tutti passionisti delle sei ex-province italiane stanno portando avanti un progetto di nuova evangelizzazione, partendo proprio dalla fede nel Cristo Crocifisso e Risorto. Il seminario di studi si inquadra in questa ottica di formazione teologica, biblica, spirituale e pastorale permanente, dalla quale nessun religioso si deve sentire esentato, in quanto nell’aggiornamento sistematico, essi possono riscoprire il dono della vocazione della missione nella Chiesa e nel mondo contemporanei.  Tematica e programma del seminario: “La fede nasce dall’ascolto della Croce. “Abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi (1Gv 4,16)”.

SESSIONE MATTUTINA – Ore 9,00. Presentazione e Moderatore: Prof. Fernando Taccone, cp, Direttore della Cattedra Gloria Crucis. Saluto: S.E. Mons. Enrico DAL COVOLO, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense. Relazione: Credere di fronte al Verbum crucis del Prof. Romano Mons. Penna, biblista emerito della Pontificia Università Lateranense. Dialogo.11, 30 Intervallo. 12.00  Comunicazione: Fede e Croce nell’insegnamento del Concilio Vaticano II, Prof. Renzo Mons. Gerardi, Facoltà di Teologia, PUL. Dialogo.Ore 13.00, Pausa pranzo.

SESSIONE VESPERTINA – Ore 15,00. Relazione: La fede di Maria “una spada ti trafiggerà l’anima” (Lc 2,35), a cura del Prof. Aristide Serra, osm, Pontificia Facoltà Teologica “Marianum”. Dialogo. 16,30 Intervallo. 16,45 Tavola Rotonda: I mass-media sulla fede, di fronte alla sofferenza e alla morte, interverranno: Dott. Ciro BENEDETTINI  passionista, Vice Direttore della Sala Stampa Vaticana; Dott. Luigi
Accattoli, vaticanista, Dott. Aldo Maria VALLI, vaticanista. 18.00 Conclusione dei lavori.

P.Antonio Rungi cp

Le dimissioni annunciate di Papa Benedetto XVI

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Le dimissioni del Papa, Benedetto XVI

 

di P.Antonio Rungi cp

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La notizia delle dimissioni del Santo Padre, Benedetto XVI, un filmine a ciel sereno, ha lasciato interdetto  e presi alla sprovvista tutti, anche se più di qualche volta il Papa aveva fatto intendere di questa possibilità, qualora ci fossero state le condizioni per rassegnare le dimissioni. E ciò è avvenuto oggi 11 febbraio 2013 quando il Papa parlando ai cardinali nel concistoro tenuto per la canonizzazione di altri tre santi, ha detto senza mezzi termini la sua opinione ed ha indicato anche le modalità e il tempo in cui la sede di Pietro sarà vagante, ovvero dalle ore 20.00 del prossimo 28 febbraio 2013. Personalmente sono molto rattristato per questa notizia, anche perché non siamo stati abituati all’idea delle dimissioni di Papa, dopo l’esperienza drammatica e di sofferenza di Papa Giovanni Paolo II, che portò a termine il suo mandato, nonostante una gravissima malattia che lo rese praticamente inabile per diversi mesi, se non anni. Oggi è Beato Giovanni Paolo II anche perché ha portato a termine il suo mandato. Per Papa Benedetto XVI tutto il massimo rispetto e la comprensione ed il suo gesto è sicuramente tra quelli profetici e che passano nella storia come indicatori di marcia soprattutto su alcuni temi. Il primo è che il Papa, in base dal diritto canonico, può liberamente dimettersi in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione. Cosa che ha fatto, dopo circa 800 anni dall’ultima dimissione che si registra nella Chiesa di un Sommo Pontefice, che fu quella di Papa Celestino V, passato alla storia come il Papa del Gran Rifiuto per alcuni, mentre per altri il Papa coraggioso e profetico che seppe fare una scelta di coscienza e di responsabilità. Stessa cosa per Papa Benedetto XVI: una scelta di grande senso di responsabilità e di amore verso la Chiesa.

 

Ecco quello che ha detto nella sua dichiarazione questa mattina davanti al collegio cardinalizio:

 

Carissimi Fratelli,

 

vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Dal Vaticano, 10 febbraio 2013

BENEDICTUS PP XVI

 

Commento

 

Il Papa ha rispettato in toto la prassi canonica prevista per questi casi eccezionali. Leggiamo infatti nel Codice di Diritto Canonico che è la legge della Chiesa Cattolica tutto ciò che attiene alla persona e all’ufficio del Papa.

 

Il Diritto canonico

 

Articolo 1 – Il Romano Pontefice.

Can. 331 – Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò, in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente.

 

Can. 332 – §1. Il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione. Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato Vescovo.

 

§2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.

 

Can. 333 – §1. Il Romano Pontefice, in forza del suo ufficio, ha potestà non solo sulla Chiesa universale, ma ottiene anche il primato della potestà ordinaria su tutte le Chiese particolari e i loro raggruppamenti; con tale primato viene contemporaneamente rafforzata e garantita la potestà propria, ordinaria e immediata che i Vescovi hanno sulle Chiese particolari affidate alla loro cura.

 

§2. Il Romano Pontefice, nell’adempimento dell’ufficio di supremo Pastore della Chiesa, è sempre congiunto nella comunione con gli altri Vescovi e anzi con tutta la Chiesa; tuttavia egli ha il diritto di determinare, secondo le necessità della Chiesa, il modo, sia personale sia collegiale, di esercitare tale ufficio.

 

§3. Non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice.

 

Can. 334 – Nell’esercizio del suo ufficio il Romano Pontefice è assistito dai Vescovi, che possono cooperare con lui in diversi modi, uno dei quali è il sinodo dei Vescovi. Inoltre gli sono di aiuto i Padri Cardinali e altre persone, come pure diverse istituzioni, secondo le necessità dei tempi; tutte queste persone e istituzioni adempiono in suo nome e per sua autorità l’incarico loro affidato per il bene di tutte le Chiese, secondo le norme determinate dal diritto.

 

Can. 335 – Mentre la Sede romana è vacante o totalmente impedita, non si modifichi nulla nel governo della Chiesa universale; si osservino invece le leggi speciali emanate per tali circostanze.

 

Considerazioni

Dopo queste considerazioni di carattere giuridico, non ci resta che pregare ed attendere l’elezione del nuovo Papa, che potrà avvenire entro la Pasqua del 2013.

A Papa Ratzinger diciamo semplicemente un infinito grazie per tutto quello che ha fatto, detto, realizzato, costruito, rettificato, ripreso, preannunciato, profetizzato in otto anni di servizio alla Chiesa nel massimo ufficio e grado della gerarchia ecclesiastica. Il suo gesto profetico vuol significare per noi cattolici del XXI secolo che anche il Papa, giunto ad un certo punto e non avendo più le forze, possa rassegnare liberamente le dimissioni. Un esempio quello di Papa Benedetto XVI che tanti dovrebbero seguire in tanti campi e non solo in quello ecclesiastico.

 

E per lui un bellissimo racconto in cui c’è la sintesi di quanto è successo oggi e succederà negli anni futuri. Nel nostro cuore resterà come il Papa teologo, pastorale, catechista, coraggioso, scrittore, musicista, sensibilissimo nonostante le apparenze e nonostante la sua origine tedesca. Un Papa “tedesco” che di tedesco aveva solo la nazionalità, mentre il suo pensiero e il suo cuore ha viaggiato e continuerà a viaggiare sulle grandi ali della libertà, ben sapendo che anche come Papa dimissionario, che vivrà nel monastero entro le mura vaticane, che fede e ragione sono due ali per incontrare il Signore: lui le ha utilizzate entrambi per giungere a questa decisione, che tutti rispettiamo e che faremo rispettare a chi mai ha nutrito rispetto e amore verso Papa Benedetto XVI, un uomo di Dio e un uomo della provvidenza e della luce sulla chiesa e sul mondo contemporaneo.

 

Il vecchio saggio della città.

 

di P.Antonio Rungi

 

C’era un anziano signore, che abitava verso la collina più alta dove era situata la città, chiamata dai sette colli. Era considerato il saggio  del villaggio.

Dalla mattina alla sera, vegliava e pregava, nella speranza che tutto si svolgesse regolarmente e serenamente nel contado. Spesso le cose andavano nel verso giusto, ma tante altre volte le cose non andava per niente bene.

Ogni giorno si domandava se fosse colpa sua, se le cose non andavano secondo un preciso concetto di efficienza che si era determinato tra coloro che governavano il paese.

Pensando e ripensando alle tante cose che non andavano un giorno chiese lumi al suo padre spirituale, al quale aprì tutto il suo cuore e tutta la sua sofferenza.

Il padre spirituale e confessore che conosceva bene la statura morale, umana, spirituale ed intellettuale del vecchio saggio, gli disse semplicemente: “Hai ragione, le cose non sono come prima ed ora tu non ce la fai più a portare il peso e la fatica di essere di guida agli altri. Pensaci bene, una via di salvezza e di uscita per te e per gli altri c’è sempre”.

Il vecchio saggio allora pensò per mesi ed anni cosa fare, se lasciare o meno il suo incarico di guida per ritirarsi nel deserto a pregare.

E dopo attenta riflessione arrivò alla decisione che era giunto il tempo di non più procrastinare la decisione. Dopo una notte vissuta in preghiera, a prima mattina, convocò tutti i suoi consiglieri più stretti e con grande semplicità, senza drammatizzare, mettendo a nudo la sua debolezza fisica, conseguente all’età avanzata, decise ufficialmente di lasciare il colle più alto della città e ritirarsi nella solitudine per continuare a pregare ed attendere con fede il momento del trapasso.

All’annuncio dell’imminente abbandono, tutti furono presi dal dolore e dalla nostalgia, ma qualcuno nel profondo del suo cuore incominciò a gioire, perché quel vecchio saggio era la sua coscienza critica e il suo continuo richiamo ai valori più alti della vita umana.

Altri per la verità confidavano che fosse arrivato il tempo per salire anch’essi sull’alto colle, dove si vedeva la città e si dominava il panorama, ben contenti della decisione di quell’uomo saggio.

Arrivò il tempo del saluto ultimo del vecchio saggio e chi era stato da lui guidato pianse amaramente, perché non avrebbe visto più il suo volto e non avrebbe più sentita la sua voce. Aveva solo la speranza che lui continuasse a pregare per la sua anima e per il bene della città.

Confidava pure che continuasse a far pervenire a quanti avevano stima di lui un messaggio cifrato in pillole di amore, sapienza ed intelligenza, saggezza e bontà come era stata l’intera sua vita, ormai verso fine.

Quel saggio, contrariamente alle aspettative dei detrattori, visse ancora molti anni. E ritirandosi tra le mura di un monastero, non faceva altro che pregare e continuare a scrivere.

Con lui, però, aveva portato “due grandi e semplici amori della sua vita”: il pianoforte del papà e il gattino che un giorno aveva incontrato per strada e gli aveva fatto compagnia quando era un semplice mortale e viveva a valle.

Nei momenti di profonda solitudine e di amarezza per quanto non era riuscito a fare quando era nelle piene sue facoltà fisiche, si dava alla musica e dalle mani non più leste e leggere di una volta continuavano ad uscire brani musicali che chi li ascoltava toccava il cielo con le mani.

Quando era triste per le tante incomprensioni avute con i più vicini e stretti collaboratori, si abbracciava teneramente il gattino, quasi a sfiorare con la tenerezza del cuore e l’affetto di un padre ogni persona che aveva incontrato nel suo lungo itinerario di saggio.

Un giorno quel saggio morì e lasciò scritto nel suo breve testamento queste semplici e sante parole: “Sono stato un umile servo nella vigna del Signore ed ora il buon Dio voglia premiare i miei sforzi di essergli stato fedele fino alla fine”.

Quel saggio fu seppellito tra le persone semplici di un cimitero nascosto, dove solo pochi lo andavano a trovare per pregarlo e dirgli semplicemente grazie.

Nel frattempo sull’alto colle salì un altro saggio che non era tra i candidati e pronosticati a svolgere il ruolo del sapiente del villaggio.

La gioia dei cittadini di avere un nuovo uomo saggio alla guida del villaggio ben presto si trasformò in critica, rimpiangendo il saggio di prima, che tanto bene aveva lasciato nella mente e nel cuore della gente.

Per il nuovo saggio del villaggio ci vollero degli anni per poter entrare nel cuore dei cittadini e farsi amare meglio e più dei suoi predecessori, perché anche lui aveva messo in conto una cosa importante valida per chi sale i colli e vive in alta montagna e per chi vive nella valle delle lagrime: “che nulla è eterno e definitivo su questa terra, perché tutto passa, ma solo Dio resta”.

 

Questa era la mia preghiera scritta per Papa Benedetto, esattamente un anno fa.

  

Preghiera per papa Benedetto XVI – Padre Antonio Rungi, passionista

 

Signore, che doni una lunga vita
a quanti sono forti nel corpo e nello spirito
ti ringraziamo per gli 85 anni di vita
del Romano Pontefice, Papa Benedetto XVI.
Dona al pastore universale della chiesa,
per moltissimi anni ancora,
una lunga e salutare vita,
per il bene dell’intera umanità.
Nel costante servizio alla verità, alla vita,
alla giustizia e alla pace universale,
fa’ che ogni sua parola, proclamata nel Tuo nome,
possa raggiungere il cuore di quanti credono,
e di quanti non credono,
di quanti sono artefici delle sorti delle nazioni
e di quanti sono operatori di violenza di ogni genere.
Non permettere, Signore della vita e della storia,
che il successore di Pietro,
in questo inizio del nuovo millennio,
soffra a causa della poca fede nella chiesa e nel mondo,
della scarsa carità non vissuta dai piccoli e dai grandi,
dall’assenza della speranza che più non alberga
nel cuore del genere umano.
In questa tappa importantissima
della sua avventura terrena ed umana,
dona a Papa Benedetto, la serenità, la pace,
il sorriso e la gioia di vivere di uomo di Dio,
quale pastore universale del popolo eletto,
sparso su tutta la terra e in cammino verso i pascoli eterni.
Conservalo sempre di più nelle energie fisiche,
umane e spirituali, perché possa continuare
il suo alto magistero in mezzo all’umanità,
segnata da tanti dubbi, incertezze e smarrimenti,
perché la sua parola, pronunciata nel Tuo nome, Dio di verità,
ne possa illuminare la strada e indicarne la direzione finale.
Dona, o Signore, a Papa Benedetto,
la tua santa benedizione dal cielo,
e, per intercessione della Vergine benedetta,
concedi a lui il sollievo da tante sofferenze
causate dai membri della chiesa,
e di quanti avversano la barca di Pietro.
Possa il suo cuore e la sua mente
di sapiente ed oculato Pontefice,
godere di una lunga e serena vita,
come semplice e umile lavoratore nella Vigna del Signore.
Amen.


(Padre Antonio Rungi, passionista)

 

 

 

Frattamaggiore (Na). La meditazione per il ritiro mensile- Gennaio 2013

ANCELLE DEL SACRO CUORE DI GESU’ DI CATERINA VOLPICELLI

RITIRO MENSILE DELLE ANCELLE –PICCOLE ANCELLE ED AGGREGATE

EDUCARCI ED EDUCARE ALLA FEDE SULLE ORME

 DI CATERINA VOLPICELLI

 

La fede, un cammino

 

1. LA FEDE, UN VIAGGIO DI FIDUCIA E SPERANZA IN DIO

 

Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. (Gen 12,1)

 

Tu, figlio dell’uomo, fatti un bagaglio da esule e di giorno, davanti ai loro occhi, preparati a emigrare; davanti ai loro occhi emigrerai dal luogo dove stai

verso un altro luogo. (Ez 12,3)

 

Spesso, ciò che si cerca non lo si trova alla fine del cammino, ma lungo la strada. Ogni partenza è un’iniziazione alla vita. Perché solo chi parte rimane, solo chi parte non si allontana, solo chi parte non si smarrisce. Questa frase sembra un insieme di paradossi, e accade molto spesso di pensare che sia vero esattamente l’opposto: chi non parte rimane, chi sta fermo non si allontana, chi non si muove non si perde, non si smarrisce. In realtà, questo è

forse vero per le cose, ma non è così per gli esseri viventi, soprattutto non è così per le persone. Pensiamo, per esempio, a un bambino che sta per nascere: egli si trova in uno stato di «equilibrio perfetto» in cui non c’è spazio per lo sviluppo di stati emotivi come il senso di solitudine, il sentimento del bisogno, la paura e l’angoscia. La nascita rappresenta la perdita di questo equilibrio perfetto: è la rottura dell’unità originaria, è l’irruzione di un pericolo che minaccia la vita stessa del nascituro, è l’apertura dello spazio e l’inizio del tempo, intesi come coscienza della “separazione” (dalla madre) e della “mancanza” (di cibo, di calore, di sicurezza). Ma la nascita è anche l’unica possibilità che, pur comportando un pericolo ineliminabile, può dirsi realmente aperta alla vita. Dicevamo dunque, solo chi parte rimane: se il bambino non “partisse”, se cioè potesse evitare di nascere, per ciò stesso non potrebbe vivere, perché esistere è “venire alla luce”! E, solo chi “viene alla luce”, rimane. Dicevamo poi, solo chi parte non si allontana: se il bambino non iniziasse il suo viaggio, se non accettasse di patire la strettezza di quel “primo passaggio”, non potrebbe “venire vicino” e essere preso in braccio. In questo senso, solo chi rischia di attraversare i passaggi decisivi – spesso angusti – della vita, non si allontana da se stesso e da coloro che lo amano. Infine, solo chi parte non si smarrisce: se il bambino si rifiutasse di nascere non saprebbe mai che cosa ha perduto; e, proprio il “voler rimanere” al calore del seno materno, gli farebbe perdere il sentiero della vita. Per questo, solo chi si affida al “richiamo che impone di andare” non si smarrisce.

Così è anche per noi: ogni partenza è anche un parto da cui viene alla luce un uomo nuovo: se non si vuole perdersi nel labirinto dell’esistenza, bisogna partire. Il bambino non ha alternative, per lui la nascita non è una scelta; l’adulto invece può anche agire diversamente, può evitare di assecondare l’impulso ad andare, può chiudere gli orecchi al richiamo antico e sempre nuovo che chiede di mettersi in strada per iniziare il cammino. Ogni partenza è sempre “comandamento” e “grazia”: comandamento, perché si presenta come un imperativo (devi partire); grazia, perché il poter partire è sempre anche una liberazione, una possibilità immensa che ci viene offerta di vedere, di sentire, di incontrare, di vivere.

La partenza è l’istante in cui il viaggiatore sembrerebbe più che mai solitario e padrone dei suoi passi, eppure – spesso solo a distanza di tempo – egli potrà rendersi conto che la sua partenza è dovuta a un richiamo e a una spinta che vengono da molto lontano. Chi parte ha certo in sé una forza, un moto che lo sollecita, ma nel suo stesso intimo vi è anche il peso di una gravità paralizzante, mai completamente vinta: sono sempre mille e le ragioni per non partire, per rinunciare, per abbandonare il proposito di mettersi per strada. Ma vi sono dei “segnali”, dei “richiami”, dei “suggerimenti” con cui la natura stessa ci invita a prendere la via, a dare un senso ai nostri movimenti vani e senza scopo, e alle nostre molteplici agitazioni: il sole sorge e prende una direzione precisa nel suo andare, così la luna, le stelle, i pianeti. Il vento soffia e ci sollecita ad andare in un altro luogo, altrove  il mare si muove con un moto misterioso, simile a quello del nostro cuore: ogni battito sembra uguale agli altri, eppure ogni battito è unico e, se lo si sa ascoltare, ogni battito pulsa con uno scopo, a un tempo, immenso e preciso. Ed è proprio lì, dentro il cuore, che l’uomo, in alcuni momenti particolari della vita, sente risvegliarsi un richiamo urgente e inconfondibile: «Parti! È ora che tu vada!».

Partire è come attraversare una “porta misteriosa” che dà accesso un mondo che, per chi sta fermo, semplicemente non esiste. Partire è lo stile della fede. Il credente è un camminatore: non sa mai esattamente “che cosa” o “chi” incontrerà sul suo cammino, ma sa che l’essenziale accade sempre “sulla via”. L’uomo lo sa, lo riconosce, lo sente e, forse proprio per questo, tutte le volte che qualcuno parte c’è qualcosa in noi che vorrebbe partire insieme con lui; perché, quando c’è qualcuno che parte per davvero, tutti sentono risvegliarsi dentro al cuore quel richiamo originario ad andare, a uscire dalle nostre “schiavitù” (come quella d’Egitto), magari attraversando un territorio arido e pericoloso, in un faticoso deserto, che, però, è la strada che porta alla “terra promessa”. Anche quando sono le rondini a partire sentiamo nelle loro ultime grida un richiamo che ci sospinge e ci commuove, e ci ricorda che anche noi dovremmo trovare il coraggio per partire davvero!

 

2. LA FEDE COME RICHIAMO ORIGINARIO

Il richiamo è quello di mettersi in cammino; certo, camminare è faticoso, ma necessario per ritrovare il senso della propria esistenza.

Il movimento è la vita stessa del cosmo, il suo modo naturale di essere e di perire. Da sempre l’uomo tenta di dare un senso al proprio muoversi: tenta di orientarlo, di etichettare di giustificare il moto con nomi e obiettivi che, in verità, lo spiegano solo in parte. Ci si muove per raggiungere una meta, per concludere un affare, per incontrare un amico o per scontrarsi con un nemico. Molte giustificazioni che forniscono al viaggiatore l’occasione desiderata: potersi finalmente mettere in cammino.

Ma ogni senso e ogni giustificazione appaiono, allo spirito attento, irrimediabilmente parziali, e la ragione ultima del cammino resta sempre di là dal senso dato e dichiarato, dalla motivazione per cui lo si è intrapreso. L’interrogativo quindi ritorna e incalza: “Perché si è in cammino? Perché non se ne può fare a meno?”. La risposta, in verità, risiede in un moto profondo dell’anima e di cui il bisogno fisico di muoversi non è che una sorta di risonanza esteriore: è l’intimo che agita, come è l’intimo che calma, e non è, come a volte sembrerebbe, il moto del cosmo ad avvolgere e trascinare. Quest’ultimo è solo uno specchio che aiuta a comprendere, a leggere, a dare un nome a quanto accade in profondità: il moto, ogni moto, tutto il moto viene dall’anima. La fatica di tutta una vita è quella di disciplinare il proprio moto, di orientarlo, di dargli un senso. La fatica sarà quella di rendere via ciò che sembra precipizio; cammino ciò che è tentato dal vuoto; itinerante colui che spesso si scopre errante. Vano, oltre che insensato, è dunque il tentativo di arrestare l’inarrestabile; ciò non sarebbe che morte, unica vera assenza di movimento, e potrebbe condurre anche alla patologia del falso viaggio e dei suoi surrogati mortiferi: le droghe, in fondo, non sono che «veicoli per gente che ha dimenticato come si cammina». Camminare, nella realtà, è vivere, assecondare l’impulso vitale e accettare di farsene compagno. Non si tratta di fermare il moto inquieto, bensì di dare, attraverso il cammino, «una forma all’irrequietezza umana» (B. Chatwin). L’uomo nasce nomade, oltre che nudo: senza città né accompagnamenti, senza difese. Un marchio, questo, che rimane in qualche modo scolpito nelle sue profondità, per poi riemergere in occasioni particolari quasi volesse ricordargli la propria incancellabile origine: tu sei un nomade e, come te, la natura intera. L’uomo ha bisogno della protezione di una casa, della difesa di una città, ma a volte la casa “protegge troppo”, fino a impedire all’uomo di stare con se stesso, la città difende fino a soffocare. È in occasioni di questo tipo che riaffiora alla mente l’eco di quel moto delle viscere, mai spento, che chiede di essere seguito da un altro movimento, fisico innanzitutto, che ne assecondi il ritmo interiore. L’uomo allora riscopre il cammino, ne sente tutta l’urgenza, come fosse un andare necessario, imposto dalla vita. In modo simile anche l’uomo religioso avverte che la fede impone un cammino: per incontrare Dio è necessario mettersi in moto, iniziare un cammino verso una meta, per lo più, sconosciuta. La comunione con il Dio vivo e vero è una promessa che viene rivolta solo a chi è disposto a partire, e si sviluppa attraverso un itinerario, un viaggio, si impara nella pratica umile e quotidiana del camminare. La fede nasce dall’aver compiuto un cammino di liberazione da qualche forma di schiavitù; e la fede sempre ha bisogno di nutrirsi della memoria di quel viaggio: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi

quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2). Chi sta fermo rischia di incontrare soltanto degli idoli.

La primitiva comunità cristiana non trovò immagine migliore per definirsi che quella di “via”: gli Atti degli apostoli attestano che i primi cristiani venivano indicati come «quelli della via». Essi erano tali, perché seguaci di una particolare “via”, quella che il Signore stesso aveva loro indicato: «Io sono la via» (Gv 14,6). È dunque necessario partire e mettersi “per via”, è necessario scovare la domanda che si cela nell’impulso originario a muoversi, e rispondergli prendendo la decisione di iniziare a camminare. Così scrive Bruce Chatwin nel suo libro Le vie dei canti: «Chissà, mi domandai, se il nostro bisogno di svago, la nostra smania di nuovo, era, in sostanza, un impulso migratorio istintivo, affine a quello degli uccelli in autunno? Tutti i grandi maestri hanno predicato che in origine l’uomo “peregrinava per il deserto arido e infuocato di questo mondo” – sono parole del Grande Inquisitore di Dostoevskij –, e che per riscoprire la sua umanità egli deve liberarsi dei vincoli e mettersi in cammino… Se era così, se la “patria” era il deserto, se i nostri istinti si erano forgiati nel deserto, per sopravvivere ai suoi rigori – allora era più facile capire perché i pascoli più verdi ci vengono a noia, perché le ricchezze ci logorano e perché l’immaginario uomo di Pascal considerava i suoi confortevoli alloggi una prigione». Il momento di partire è questo; esso implica un distacco, forse perfino uno strappo doloroso, in ogni caso il partire richiede energia e determinazione: è la fine di un certo modo di vivere e

l’inizio di un altro, nuovo, stile di vita. La fede è la capacità di affidarsi al richiamo fondamentale che chiede di partire.*

 

3. CONDIZIONI PER CAMMINARE

 

3.1. Grazia e fede e conversione

• La grazia è l’“energia” che alimenta il nostro cammino, è come il “pan di via” degli elfi che permette di camminare a lungo senza stancarsi.

• La grazia è vissuta come desiderio di essere amati e di amare: è questo desiderio che dà forza e che permette di raggiungere la meta.

• Questo desiderio struttura la coscienza nella forma di un «affectus fidei», cioè nella forma di una trama di legami “affettivi” (affectus) che, se contratti nella fede (fides) cioè in un libero darsi a quanto ci appare affidabile e giusto. Non si arriva da soli alla meta, ma solo grazie alla forza di legami “giusti”, cioè “veri”, “sinceri”, “affidabili”.

• In questa giustizia l’uomo riconosce la verità dell’esistenza e inizia a pensare a Dio come fondamento di quei legami che permettono all’uomo di camminare e di arrivare al traguardo.

• La fede cristiana è la forma della coscienza che si struttura secondo la trama di legami affettivi sorti dalla conversione alla bella notizia (evangelo) di quel legame primo e fondamentale con l’Abbà di Gesù, cioè con quello stesso Padre (letteralmente “papà”) che Gesù ama e serve.

• La fede cristiana è innanzitutto affidamento a quel legame con l’Abbà che Gesù ha vissuto e rivelato.

• La fede è seguire Gesù. Tale sequela implica il prendere la propria croce ogni giorno. La croce è lo strumento di morte di Gesù: il comando di Gesù chiede la disponibilità del discepolo ad andare con Gesù fino alla morte, a condividere cioè interamente il suo cammino, che va fino alla croce; perché «chi vuole salvare la propria vita, la perderà…».

La fede è affidamento a un senso che si annuncia, che richiama, che promette, in maniera affettivamente [non soltanto razionalmente] significativa e persuasiva: camminare nella fede è seguire una promessa che si avverte prima di tutto nel cuore.

• La rivelazione cristiana svela il fondamento dell’ordine della creazione (la creazione viene rivelata come campo di forze nascoste – metafisiche – come la giustizia e la verità, le quali la orientano verso un futuro di speranza); la rivelazione inoltre instaura l’ordine della redenzione (il Regno di Dio germoglia e cresce già ora, cioè nel momento in cui si costruiscono trame evangeliche). La fede come riconoscimento del volto nascosto del mondo, soprattutto nel senso del grande bene che freme per attuarsi nelle cose, nelle persone, nelle comunità: camminare nella fede è cedere che quello che ora vediamo è solo una piccola parte di quello che c’è effettivamente da vedere.

 

3.2. Alcuni percorsi per una riflessione sulla fede…

a. “Come faccio a sapere che questa è la strada giusta?”; ossia, decidere di mettersi in cammino costa fatica. Questa domanda esprime l’idea che prima di mettermi in cammino dovrei sapere con certezza qual è la meta. In questo senso la domanda riproduce l’ideale cartesiano e illuminista di coscienza. Quando si pretende di avere idee chiare e distinte si rischia di non partire mai! La fede decide di sé nel momento in cui sente che ne vale la pena, anche se non conosce tutti i dati, e nemmeno la maggioranza degli aspetti dell’itinerario.

b. “Ma sì, partiamo. Caso mai torniamo indietro”; cioè, la scelta di tenere tutte le porte aperte. Questo ragionamento esprime l’idea di partire in ogni caso, ritenendo sempre possibile cambiare strada, come se il nostro cammino non ci segnasse e non fosse determinante nella percezione della meta, della sua bellezza, ma anche di quanto sia compromettente mettersi sulla sua strada. Questo ragionamento riproduce l’ideale postmoderno di coscienza che, ritenendo di non poter avere alcuna certezza (verità), suggerisce di intraprendere un cammino sapendo di poter comunque tornare indietro… “Va’ dove ti porta il cuore” o “Cogli l’attimo fuggente”… tanto, poi, puoi sempre cambiare idea. Ma, in realtà, è proprio possibile tenere aperte tutte le vie? Il cammino, ad un certo punto, non ci impone una scelta? E se non scelgo riesco davvero a camminare? La fede è decidersi, è fedeltà nelle scelte.

c. “Ma qui non si arriva mai! Vale proprio la pena di continuare a camminare?”; ossia, la tentazione di interrompere il cammino. Questa domanda mette alla prova il nostro desiderio. Il desiderio di arrivare alla meta potrebbe ripiegarsi su qualcos’altro. Mi accontento di un altro luogo, minore. Mentre il desiderio ci appassiona, fermarsi al bisogno significa fermarsi a un’emozione, a qualcosa di “ridotto” rispetto allo slancio del desiderio. Fuor di metafora: mentre il desiderio traccia una linea, uno slancio, il bisogno delinea un circolo, un ripiegamento. La fede è passione che non si accontenta di mezze misure.

d. “Ma questa giuda conosce proprio la strada?”; cioè, la tentazione di voler far da soli. Questa domanda nasce facilmente sul terreno di un’ideale democratico coltivato come insieme di soggetti autonomi e autofondati. Ma, in realtà, da soli non facciamo neanche un passo; come ognuno sa bene, ricordando di essere stato bambino, che la fede è fiducia in altri.

e. “E se prendessi un mezzo veloce?”; ossia, la tentazione di scorciatoie immaginarie! Questo è il ragionamento di chi si illude di poter trovare una strada alternativa senza far fatica. In realtà, in questo modo, perde tutto quello che solo il cammino può offrire. Arrivare con la Freccia Rossa o in Ferrari non è la stessa cosa che arrivare a piedi, perché la meta guadagnata risulta diversa, e anche tu non sei lo stesso! La fede è lotta, è un lungo, lento e faticoso cammino.

f. “Che fatica camminare con gli altri, quello va piano, quello va forte”; ossia, l’incapacità di camminare insieme. Questo pensiero oggi è facilmente incoraggiato dal narcisismo che ci fa cercare gli altri come specchi di noi stessi, ma ci rende incapaci di costruire legami di amicizia sinceri, quelli che in realtà cerchiamo. La fede ci dona dei fratelli.

 

4. Il viaggio come conversione e come annuncio

«Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda» (Atti 9,1-9).  *****************

«C’erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirène, Manaèn, compagno d’infanzia di Erode tetrarca, e Saulo. Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati». Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono. Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo, discesero a Selèucia e di qui salparono verso Cipro. Giunti a Salamina cominciarono ad annunziare la parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei, avendo con loro anche Giovanni come aiutante. Attraversata tutta l’isola fino a Pafo, vi trovarono un tale, mago e falso profeta giudeo, di nome Bar-Iesus, al seguito del proconsole Sergio Paolo, persona di senno, che aveva fatto chiamare a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio. Ma Elimas, il mago, ciò infatti significa il suo nome faceva loro opposizione cercando di distogliere il proconsole dalla fede. Allora Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: «O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore? Ecco la mano del Signore è sopra di te: sarai cieco e per un certo tempo non vedrai il sole». Di colpo piombò su di lui oscurità e tenebra, e brancolando cercava chi lo guidasse per mano. Quando vide l’accaduto, il proconsole credette, colpito dalla dottrina del Signore. Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di

Panfilia. Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme. Essi invece proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiochia di Pisidia ed entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, si sedettero» (Atti 13,1-14).

 

5. DAI “DISCORSI” DI SANT’AGOSTINO

«Cantiamo qui l’alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare un giorno lassù, ormai sicuri. Perché qui siamo nell’ansia e nell’incertezza. E non vorresti che io sia nell’ansia, quando leggo: Non è forse una tentazione la vita dell’uomo sulla terra? (cfr. Gb 7,1). Pretendi che io non stia in ansia, quando mi viene detto ancora: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione”? (Mt 26,41). Non vuoi che io mi senta malsicuro, quando la tentazione è così frequente, che la stessa preghiera ci fa ripetere: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”? (Mt 6,12). Tutti i giorni la stessa preghiera e tutti i giorni siamo debitori! Vuoi che io resti tranquillo quando tutti i giorni devo domandare perdono dei peccati e aiuto nei pericoli? Infatti, dopo aver detto per i peccati passati: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, subito, per i pericoli futuri, devo aggiungere: “E non ci indurre in tentazione” (Mt 6,13). E anche il popolo, come può sentirsi sicuro, quanto grida con me: “Liberaci dal male”? (Mt 6,13). E tuttavia, o fratelli, pur trovandoci ancora in questa penosa situazione, cantiamo l’alleluia a Dio che è buono, che ci libera da ogni male. Anche quaggiù tra i pericoli e le tentazioni, si canti dagli altri e da noi l’alleluia. “Dio infatti è fedele; e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze” (1 Cor 10,13). Perciò anche quaggiù cantiamo l’alleluia. L’uomo è ancora colpevole, ma Dio è fedele. Non dice: “Non permetterà che siate tentati”, bensì: “Non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13). Sei entrato nella tentazione, ma Dio ti darà anche il modo di uscirne, perché tu non abbia a soccombere alla tentazione stessa: perché, come il vaso del vasaio, tu venga modellato con la predicazione e consolidato con il fuoco della tribolazione. Ma quando vi entri, pensa che ne uscirai, “perché Dio è fedele”. Il Signore ti proteggerà da ogni male… veglierà su di te quando entri e quando esci (cfr. Sal 120,78). Ma quando questo corpo sarà diventato immortale e incorruttibile, allora cesserà anche ogni tentazione, perché “il corpo è morto”. Perché è morto? “A causa del peccato”. Ma lo Spirito è vita”. Perché? “A causa della giustificazione” (Rm 8,10). Abbandoneremo dunque come morto il corpo? No, anzi ascolta: “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Cristo dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali” (Rm 8,1011). Ora infatti il nostro corpo è nella condizione terrestre, mentre allora sarà in quella celeste. O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l’Apostolo, alcuni che progrediscono sì, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede,devi avanzare nella retta fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina».

 

6.Il cammino di FEDE di Caterina Volpicelli

“Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto”: l’adesione vitale di chi aderisce a Cristo è essenziale per la fecondità dei frutti.

Il rimanere in Cristo è fondamentale al germoglio della fede che è in noi perché possa sopravvivere e svilupparsi. Chi si stacca da Cristo, è condannato alla perdizione. Dietro il simbolo del tralcio secco e arido, c’è il mistero del rifiuto che l’uomo può opporre alla vita e all’amore che Dio ci offre. Ma i tralci rigogliosi e verdeggianti, che incoronano il corpo di Cristo, cioè la Chiesa, conoscono anche il momento della potatura. È la  purificazione necessaria che Dio compie per avere una Chiesa santa, “senza macchia e senza ruga” (Ef 5,27): il dono della fede non è dato una volta per sempre, ma esige una continua crescita e una continua liberazione da scorie e limitazioni.

         In questa meravigliosa immagine della vite e dei tralci possiamo leggere la vita e il cammino di santità di Caterina Volpicelli.

 

6.1.Una fede che nasce si sviluppa in famiglia e nel territorio.

Nacque in una famiglia cristiana che, benché appartenesse all’alta borghesia napoletana, viveva “i principali misteri di nostra Santa Fede”. Il padre, imprenditore e commerciante, e la madre, Maria Teresa Micheroux, la fecero battezzare il giorno dopo la nascita (31 gennaio 1939) e la educarono nella fede cristiana anche con piccole pratiche cristiane che Caterina ricorderà con riconoscenza da adulta.

         Ma questo tralcio, innestato in Cristo e nella Chiesa, dovette essere continuamente potato prima di iniziare a portare frutti copiosi. La grazia dovette operare molto sulla personalità di una giovane che, dotata di viva intelligenza, sembrava volesse splendere di luce propria, coltivando le doti ricevute da Dio con alterigia, superbia e volontà di affermazione personale che, da un momento all’altro, avrebbero potuto staccarla dalla vite, Cristo.

 

6.2.Una fede calata nella storia e nell’oggi del suo tempo, contestualizzata     

La Napoli ottocentesca, nella quale visse, con i suoi problemi sociali, culturali, religiosi, non aiutava certamente la maturazione spirituale di una giovane che avrebbe potuto affermarsi in una società il cui stile di vita umanamente affascinante, ma senza essere segnata dalla verità del Vangelo. Ma l’incontro con alcuni santi sacerdoti e la stessa devastante epidemia del colera del 1854 scossero fortemente il suo animo sensibile e generoso, fino al punto da far maturare in lei il desiderio di entrare in convento (tra le figlie di S. Vincenzo dei Paoli), se non addirittura in un monastero di vita contemplativa. Ma furono il P. Ludovico da Casoria e il barnabita P. Matera le vere guide spirituali che l’aiutarono a dedicarsi tutta a Cristo e a rispondere alla chiamata del Signore per un servizio a favore dei più umili e necessitati. I genitori e il fratello Vincenzo tentarono di dissuaderla, ma Caterina, dopo diversi tentativi, vide “chiara la Divina Volontà” e vi aderì.

 

6.3.Una fede che ingloba le opere    

Da questo innesto alla volontà Divina nacquero i numerosi frutti spirituali e sociali di cui ancora oggi assaporiamo la dolcezza. La spiritualità dell’apostolato della preghiera e la devozione profonda al Sacro Cuore (nel febbraio del 1863 si offrì al “Cuore agonizzante di Gesù come povera vittima di amore”) furono le modalità che la Provvidenza mise nelle mani di Caterina Volpicelli per una testimonianza di fede e di carità in una Napoli violentata da mali spirituali e sociali. Con l’aiuto delle zelatrici e delle figlie dei Sacri Cuori, divenute Ancelle del Sacro Cuore, si immerse nella realtà del suo tempo cercando di alleviare le famiglie indigenti, le sofferenze dei bambini, di uomini dediti al vizio, all’alcol, alla delinquenza, di donne costrette a prostituirsi. Per questo, accanto alle “buone Marte” volle mettere le “Maddalene” e i “lazzari”.

 

6.4.Una fede autenticamente ecclesiale   

Ma una nota caratteristica della spiritualità della Volpicelli fu il suo amore alla Chiesa, manifestato attraverso la piena comunione con il Vescovo del tempo: prima con il Cardinale Sisto Riario Sforza, che ne approvò le Regole, poi col benedettino  Cardinale Guglielmo Sanfelice, che benedisse la prima pietra del Tempio dedicato al Sacro Cuore, e, infine, con il Sommo Pontefice Leone XIII, che più volte incoraggiò la Volpicelli a portare a termine la sua opera innovativa. Pur tra tante amarezze e delusioni, il Signore non le fece mancare la gioia spirituale dell’amicizia con i beati Ludovico da Casoria e Bartolo Longo che rese l’ultimo omaggio alla salma della Madre che il Signore accolse tra le sue braccia il 28 dicembre 1894.

 

7. Conclusione

“Per essere autentiche educatrici della fede, desiderose di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cultura cristiana, è indispensabile, come amava ripetere Santa Caterina Volpicelli, liberare Dio dalle prigioni in cui lo hanno confinato gli uomini. Solo infatti nel Cuore di Cristo l’umanità può trovare la sua ‘stabile dimora”. Santa Caterina mostra alle sue figlie spirituali e a tutti noi, il cammino esigente di una conversione che cambi in radice il cuore, e si traduca in azioni coerenti con il Vangelo” (Papa Benedetto XVI)

Monte San Biagio. Festa Patronale in onore del Santo Vescovo e Martire

IDSC04627.JPGDSC04646.JPGnizia oggi pomeriggio, 24 gennaio 2013, con la discesa del busto argenteo del Santo dalla Cappella laterale a lui dedicata per l’intronizzazione della stessa immagine sull’altare principale, la preparazione alla festa di San Biagio, vescovo e martire, protettore dell’omonimo Comune in provincia di Latina, tra Fondi e Terracina, che quest’anno ricorda i suoi 150 anni di storia. Anche quest’anno sarà padre Antonio Rungi, missionario passionista, molto apprezzato per la sua predicazione, a tenere il novenario in onore di San Biagio a Monte San Biagio. Il noto religioso incentrerà tutta la sua predicazione sulla fede, valorizzando appieno quanto i martiri ed in particolare san Biagio offrono come riflessione su questo tema nell’anno della fede.

Ogni sera il sacerdote sarà a disposizione dei fedeli per le confessioni dalle 17,30 alle 18,30. A quest’ora inizia la solenne celebrazione eucaristica serale, con l’omelia e la riflessione del predicatore.

Il novenario vero e proprio inizia quindi domani, 25 gennaio 2013, in coincidenza con la conversione di San Paolo Apostolo e la chiusura dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Sempre domani sera, padre Rungi, dopo la celebrazione eucaristica incontrerà il gruppo di Azione Cattolica Adulti per un confronto sulle tematiche della fede e della stessa associazione cattolica, molto operativa ed incisiva sul territorio.

Il novenario si concluderà sabato 2 febbraio 2013, mentre la festa in onore del santo è in programma per domenica 3 febbraio 2013.

Come tutti gli anni ci sono varie manifestazioni colletarali o integrate nel programma religioso, come la benedizione dell’olio e del pane di San Biagio che qui è molto curata sia come preparazione e sia come significato del rito stesso della benedizione.

Alla vigilia come nella festa del santo tutti si accostano per ricevere l’unzione della gola per la specifica protezione che questo santo ha circa i mali dellla gola. Di tale protezione tutti ne abbiamo bisogno. Così pure la distribuzione del pane di San Biagio preparato con particolari tecniche e con specifiche finalità caritative.

Nel corso del novenario, padre Rungi, farà visita agli infermi ed ammalati della città, portando il conforto dei sacramenti della confessione, della comunione e dell’unzione degli infermi.

C’è molta attesa per la festa di quest’anno in quanto l’anno della fede chiede a tutti i cristiani di vivacizzare e rivitalizzare la fede sul modello dei martiri e confessori della chiesa.

Don Emanuele Avallone, parroco della comunità da pochi anni, ha dato un impulso nuovo alla festa in onore del patrono. Con la presenza dei giovani, la festa si connota ogni anno come festa delle vecchie e nuove generazioni dei devoti di San Biagio, che rimane il santo di riferimento morale e spirituale del cammino cristiano dei monticellani.

Tutta la devozione in onore del Santo Patrono è sintetizzata in tanti interventi sulla Chiesa parrocchiale per redendere più agevole il luogo di culto e le opere parrocchiali, che si sorgono all’estremità del Comune, nel centro storico della stessa cittadina. La chiesa ha  una sua precisa fisionomia e importanza dal punto di vista storico, artistico e religioso. Cuore della devozione in onore di San Biagio, la Chiesa e la parrochia sono centri propulsori per la vita sociale, umana e religiosa di tutti gli abitanti, che si chiamano “monticellani”.

Libri, documenti, tradizioni, usanze entrano in tutta la storia della devozione in onore di San Biagio qui in questo Comune che ha scelto di dedicare il suo territorio proprio ad uno dei santi più amati e venerati in Occidente come in Oriente.

In questo novenario e nella festa 2013 in onore del Santo Patrono, tutta la comunità cristiana si stringerà intorno al suo Protettore per chiedere le necessarie grazie, soprattutto quel dono della fede che Biagio ha testimoniato fino al martirio.

Tutti i cittadini della zona e dei devoti sono invitati a partecipare alla grande festa in onore del Patrono di Monte San Biagio, alla quale non farà mancare la sua presenza l’arcisvescovo di Gaeta, monsignor Fabio Bernardo D’Onorio, pastore attento e zelante dell’intero territorio diocesano. Lui che è membro della Congregazione delle cause dei santi è un esperto in materia di santità riconosciuta dalla chiesa e da essa proclamata come punto di riferimento a cui rifarsi nel vivere la fede oggi e sempre. Nella sua lettera pastorale di inizio del nuovo anno pastorale, monsignor D’Onorio, ha voluto rimarcare appunto l’essere saldi nella fede in un tempo in cui la fede è molto labile e poco vissuta e testimoniata.

Mondragone (Ce). Festa giubilare alla Stella Maris

SUORE-MONDRAGONE-15GENNAIO13.jpgFESTA15GENNAIO2013-STELLAMARIS.jpgSarà padre Antonio Rungi, passionista, per 30 anni cappellano delle Suore della Stella Maris, a presiedere, martedì 15 gennaio 2013, alle ore 19.00 la solenne liturgia eucaristica di ringraziamento per i 150 anni di storia e di vita della Congregazione delle Suore di Gesù Redentore, fondata dalla Serva di Dio, Madre Victorine Le Dieu. La solenne celebrazione si svolge nella chiesa delle suore della Stella Maris di Mondragone, durante la quale padre Rungi, nella qualità di assistente spirituale della Stella Maris, tratteggerà la vita e le opere della Serva di Dio Madre Victorine Le Dieu e della sua famiglia religiosa in questi 150 anni di storia, di cui 70 anni anni, vissuti anche nella città di Mondragone, con la presenza della comunità della Stella Maris e fino al 1990 del convitto femminile di Via Amedeo, al Rione San Nicola di Mondragone, ora centro di accoglienza gestito dalla Diocesi di Sessa Aurunca. Sono sei le suore della comunità religiosa della Stella Maris, guidate dalla responsabile Suor Maria Paola Leone, impegnate in questi giorni a celebrare in modo adeguato la fausta ricoorenza giubilare dei 150 anni di storia del loro istituto. Istituto approvato con bolla pontificia da Pio IX il giorno 15 gennaio 1863, quando Victorine Le Dieu si presentò dal Papa per chiedere espressamente l’autorizzazione di avviare la sua famiglia religiosa con finalità di adorazione, riparazione e riconciliazione e con impegno nella carità operosa e fattiva a favore dei poveri e dei diseredati della Francia post-rivoluzionaria. Il Papa concesse l’autorizzazione e Madre Victorine potè dare avvio alla sua opera. A distanza di 150 anni dal quello storico incontro, tutte le comunità religiose delle Suore di Gesù Redentore festeggiano la nascita del loro istituto. Il 150 compleanno è una tappa importantissima nella storia antica e recente di questa Congregazione, oggi presenti in varie parti d’Italia, d’Europa  e degli altri continenti. La congregazione non è grande da un punto di vista numerica, ma è molto operativa in vari campi e settori della vita sociale, ecclesiale e parrocchiale. Le Suore di Gesù Redentore, una volta del Patrocinio San Giuseppe, sono impegnate nelle carceri, nella scuola, nell’assistenza ai malati, nell’accoglienza dei  piccoli, nelle parrocchie, nella scuola e in altri ambiti della nuova evangelizzazione. A Mondragone la Stella Maris da convitto per minori in disagio sociale, la struttura negli ultimi anni ha cambiato destinazione d’uso, divenendo una casa di ospitallità, un centro di accoglienza e di spiritualità, un luogo di incontro culturale, spirituale e pastorale aperto a tutti. Martedì sarà qu la festa del 150 compleanno delle Suore di Gesù Redentore, con il pomeriggio completamente dedicato a celebrare degnamente questo storico avvenimento con vari momenti di riflessione, preghiera e soprattutto con la celebrazione della santa messa di ringraziamento, presieduta da padre Antonio Rungi, passionista e concelebrata dai sacerdoti del territorio, alcuni di loro anche alunni della Stella Maris. La festa è aperta a tutti e tutti coloro che conoscono la struttura e le suore e vogliono elevare al Signore il ringraziamento per questa ricorrenza giubilare, questi lo possono fare partecipando ai vari momenti in programma, come da varie comunicazioni e pubblicazioni. Alla festa la comunità religiosa e cristiana si è preparata con un triduo di preghiera e di rifessione, animato da don Paolo Marotta, da don Roberto Gutturiello e da padre Bernard Majele, passionista. 

Suore di Gesù Redentore. 150 anni di storia della Congregazione.

DSC04586.JPGDSC04595.JPGDSC04605.JPGQuesta sera è iniziato regolarmente il triduo di preparazione alla festa dei 150 anni di vita della Congregazione delle Suore di Gesù Redentore, nella cappella delle Suore della Stella Maris in Mondragone. A presiedere la liturgia prevista per questo primo giorno è stato don Paolo Marotta, vicario episcopale per la vita consacrata della Diocesi di Sessa Aurunca. Diversi i fedeli presenti in chiesa che hanno partecipato all’ora di adorazione, hanno celebrato i vespri ed hanno partecipato alla santa messa, con omelia, tenuta dallo stesso Don Paolo, sul tema “Celebriamo la fede, invocando lo Spirito”. Le Suore della Stella Maris si stanno preparando allo storico avvenimento con questo triduo, ma anche con altre significative iniziative che vanno oltre questi giorni e lo specifico giorno commemorativo del 15 gennaio. Con loro un gruppo di laici che collaborano e soprattutto il loro assistente spirituale, padre Antonio Rungi. Questo il programma per domani.

 

GIORNO 13 GENNAIO 2013, <<CELEBRIAMO LA FEDE ACCOGLIENDO IL SUO DONO>> ORE 19,00 – CAPPELLA DELLE SUORE ADORAZIONE EUCARISTICA-VESPRI E MESSA, PRESIEDE: P.BERNARD MAJELE, PASSIONISTA,PARROCO DI SAN GIUSEPPE ARTIGIANO.

 

GIORNO 14 GENNAIO 2013, <<CELEBRIAMO LA FEDE IN AZIONE DI GRAZIE>>,ORE 19,00 – CAPPELLA DELLE SUORE, ADORAZIONE EUCARISTICA-VESPRI E MESSA, PRESIEDE DON ROBERTO GUTTORIELLO, VICARIO FORANEO DI MONDRAGONE.

 

GIORNO DELLA FESTA 15 GENNAIO 2013  <<CELEBRIAMO LA FEDE NELLA MEMORIA DI UN SI’>> ORE 17.00 ACCOGLIENZA, ORE 17,30: VIDEO SULLA VITA DELLA FONDATRICE, PRODOTTO DALLE STESSE SUORE DI MONDRAGONE. ORE 18.00: ADORAZIONE EUCARISTICA (CAPPELLA DELLE SUORE). ORE 19,00: VESPRI E CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA. PRESIEDE P.ANTONIO RUNGI, PASSIONISTA, ASSISTENTE SPIRITUALE DELLA COMUNITA’ DELLA STELLA MARIS.

 

Per ottimizzare le celebrazioni giubilari, dalla Casa generalizia delle Suore, che si trova a Fonte Nuova in Roma, è stato distribuito un opuscolo dal titolo “Da quell’incontro…una vita nuova. 150 anni fa”, nel quale la Madre Generale, Suor Marilena Russo, da pochi mesi alla guida della Congregazione, raccomanda a tutte le religiose e ai laici vicino alle figlie spirituali della Serva di Dio Madre Victorine Le Dieu una degna celebrazione di questo storico anniversario: “Viviamo con gratitudine quest’anniversario. Siamo tutte convinte che quel sacco che la Fondatrice portava sempre con sé conteneva certamente il rescritto firmato da Pio IX, la sua più grande ricchezza. Non se n’è mai distaccata. Solo in punto di morte l’ha affidato alla Marchesa Serlupi come una preziosa eredità da custodire…Celebriamo questo anniversario soprattutto nella preghiera, intensificando la nostra vita spirituale nella fedeltà all’eredità ricevuta e rendendo grazie al Signore per questa donna così ardita che ha vinto ogni ostacolo pur di far fiorire il carisma di riparazione e di riconciliazione che il Signore ha voluto affidarle”.