Archivi Mensili: marzo 2013

Formia (Lt). Una speciale festa della donna nella Parrocchia di Sant’Erasmo. Preghiera per le donne di padre Rungi

Domani 8 marzo, giornata internazionale della donna, nella sala S.Probo della parrocchia di S.Erasmo Vescovo e Martire di Formia alle ore 19:00, si terrà un significativo incontro con Suor Rita Giaretta, autrice del libro-testimonianza “Non più schiave“. L’evento è stato organizzato dall’Azione Cattolica della parrocchia di S.Erasmo, guidata da don Alfredo Micalusi. Suor Rita è una religiosa da anni impegnata, assieme ad alcune consorelle, nella lotta contro la schiavitù della prostituzione forzata in un territorio attraversato da un grave degrado ambientale, sociale e culturale come quello casertano, ove ha fondato, nel ’95, una struttura di accoglienza per donne vittime di questo fenomeno. La comunità di Suor Rita, “Casa Rut”, ha accolto in questi anni più di 260 giovani ragazze vittime di varie violenze. Sono soprattutto le donne di colore a trovare nella Casa Rut un riferimento istituzionale ed umano per affrontare con minore difficoltà le tante problematiche esistenziali in territorio italiano. Sebbene, la schiavitù sia stata abolita, in un contesto di migrazioni di popoli si assiste a nuove forme di schiavitù che hanno attinenza con la sistematica violazione dei diritti fondamentali della persona umana e soprattutto della donna. Su questi temi si svilupperà l’atteso incontro con questa suora, impegnata sul fronte della difesa dei diritti delle donne. In occasione dell’evento, poi, la poetessa Chiara Scrobogna che leggerà una poesia da lei composta sui temi della difesa della donna. Ad intervistare suor Rita Giaretta sarà la giornalista Simona Gionta.

E per la festa della donna padre Rungi compone una bellissima preghiera:

 

Preghiera della donna

Signore, mi rivolgo a Te
con la confidenza di un bambino,
con l’umiltà del povero,
con il coraggio dei martiri.

Donami la forza di parlarti
con la sincerità del cuore,
con l’umiltà di chi conosce
la sua fragilità, con il coraggio
che spesso manca nella mia vita
quotidiana.

Fa’ della mia vita un inno alla vita,
un canto perenne alla gioia,
un immenso atto d’amore
verso chi attende amore.

Nella mia debolezza non abbandonarmi.
Nell’incertezza, illuminami la mente.

Nel dolore, fa’ che io sappia camminare
con Te sulla via della croce.

Ti chiedo, per intercessione di Maria,
Madre del bell’Amore, di essere una
DONNA capace d’amare ogni persona
del genere umano, soprattutto se
debole e fragile, a partire dai miei cari.
Amen!
(Padre Antonio Rungi)

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La croce del porto

Per la gente del porto era la croce dei giovani. Quella croce, altra circa 20 metri, sul modello dei tralicci che oggi si usano per i ripetitori Tv o dei telefonini, era stata collocata al centro della piazza del porto di una piccola isola del mare nostrum. Alla sera, specialmente d’estate, si radunavano intorno ad essa centinaia di giovani per discutere, per mangiare una pizza, per giocare e qualcuno anche purtroppo per drogarsi. Un giorno capitò una tragedia, che fece discutere il paese intero e pose la quastione se continuare o meno a tenere quella croce in mezzo al piazzale del porto turistico della città. Infatti, durante una delle bravate che i giovani usano fare per mettersi in mostra, una notte un giovane arrampicandosi su quella croce di tubi innocenti cadde a terra e morì. Aveva battuto violentemente la testa sul basamento in cemento armato, del scondo scalino, che era a tre gradini quadrangolari ed aveva un preciso significato teologico, indicando così la Santissima Trinità ; come la Divinità nella sua interezza era presente nel mistero della salvezza, nel momento in cui Gesù Cristo moriva per la salvezza del mondo in quell’unico storico venerdì di passione e morte.

Il primo gradino, quello più grande, che si ergeva da terra era dedicato al Padre, il secondo, più stretto, era dedicato al Gesù Cristo, il terzo più piccolo ancora era dedicato allo Spirito Santo. I nomi della Trinità erano stati scritti e incisi nel cemento armato con cui era stato realizzato il piedistallo della croce del porto. Quando nella notte arrivarono i carabinieri è costatare il decesso del giovane e soprattutto la folla che aveva saputo la notizia e si era raccolta numerosa intorno alla croce del porto, tutti notarono dove aveva battuto la testa e morto il giovane ragazzo, che faceva uso di droga: sul secondo scalino. Le riflessioni e le considerazione al riguardo si moltiplicarono all’istante e nei giorni successivi.

In quell’isola il giovane viveva con i nonni paterni, dal momento che il papà era un marittimo e praticamente non c’era mai su quell’isola; la madre aveva preso un forte esaurimento nervoso e veniva curata sul continente presso una struttura per malati mentali. I due nonni erano piuttosto anziani e controllavo poco l’unico nipote che avevano e non comprendevano affatto se il giovane facesse uso di sostanze stupefacenti. Certo notavano che in casa mancavano frequentemente dei soldi e che lo stesso Nico, questo il nome del giovane, chiedeva continuamente denari per motivi di studio, frequentando un istituto superiore in una scuola vicina al suo paese d’origine.

Quella morte violenta e tragica lasciò nella popolazione locale un terribile dubbio: forse quella croce era una tentazione per i giovani e quindi era meglio che venisse abbattuta e rimossa.

Una sottoscrizione partì in tal senso tra alcuni cittadini che da sempre avevano visto di malocchio la presenza di questo simbolo di culto della fede cattolica.

La sottoscrizione raggiunse un buon numero di adesioni e pertanto venne discussa in un consiglio comunale aperto al pubblico. Il sindaco e i consiglieri discutevano sulla questione e tra loro non c’era accordo, come in tutte le cose politiche. Ad un certo punto il sindaco chiese ai cittadini presenti se qualcuno volesse intervenire e parlare a nome dei cittadini, di quelli che non avevano firmato la sottoscrizione. Mentre calò il silenzio su tutta l’assemblea, tra i presenti una piccola mano si alzò per chiedere la parola. Era un bambino delle scuole elementari del paese che pure durante il giorno insieme ai compagni di classe ed ai suoi amici si trovavano insieme presso la Croce del porto per giocare e parlare, perché quello era l’unico ritrovo dei giovani della città. Il ragazzo con grande coraggio disse esattamente le cose come stavano: “Non è colpa della croce, ma è colpa nostra se ci comportamo male e succedono fatti gravi”. Ed aggiunse: “Abbiamo fatto un sondaggio tra noi ragazzi e tutti siamo contrari alla rimozione della croce, perché per noi è una compagnia e soprattutto una protezione”. Espresse la solidarietà ai nonni del ragazzo morto, perché neppure in quella circostanza di lutto, i due genitori si erano fatti vivi, e chiesero che venisse respinta la petizione popolare e che la croce continuasse a restare li.

Dopo tale intervento ce ne furono altri cento del genere, tanto che il consiglio comunale iniziato alle tre del pomeriggio continuò senza soluzione di sosta, fino alle tre di notte. Dopo aver ascoltato i vari interventi dei cittadini, il sindaco mise a votazione la questione: votare o meno l’abbatimento della croce del porto. Tutti i consiglieri furono contrari e la demolizione non passò. Al contrario si decise di fare della croce del porto un momumento alla memoria del giovane morto. E da quel giorno non si chiamò più la croce dei giovani, ma la croce di Nicola.

Un ultimo providenziale prrovedimento del consiglio comunale per evitare che ci fossero altri incidenti. La croce fu messa in sicurezza, ricordando essa uno storico evento per quella città, di 100 anni prima, alla cui memoria era stata eretta dall’amministrazione del tempo.  

Si reallizzò una inferriata protettiva di tutta il basamento della croce in modo che i ragazzi non potessero salirvi sopra. L’inferriata veniva aperta due volte l’anno: nell’anniversario della morte del ragazzo morto e in Venerdì Santo, quando la Via Cruci si fermava alla Croce del porto per la XII stazione, in cui si ricorda la morte in croce di nostro Signore. Ed ogni anno in quella circostanza tutti ricordavano nella preghiera il giovane morto ai piedi della croce sul secondo gradino dedicato al Figlio di Dio.

Con Cristo morto in croce, tutti dobbiamo fare i conti. Bisogna battere la testa con questa pietra angolare per capire il vero senso della vita umana.

 L’edicola della Vergine Maria

Aveva almeno 300 anni di vita e di storia ed era sistemata in un posto centrale dell’antico borgo mediovale del paese.

Da lì passava praticamente tutta la gente, ogni mattina, dai più piccoli ai più grandi e per tutti quella piccola edicola della Beata Vergine Maria con bambino era un buon auspicio per la giornata.

C’era chi si faceva la croce e sostava un attimo a pregare e poi con la mano a toccare quelle bellissime piastrelle di maiolica che costituivano il mosaico della Madonnina, dolce e tenerissima con Gesù bambino tra le sue braccia, nell’atto di donargli il latte materno.

Altri facevano un semplice gesto del capo in segno di riverenza e saluto e gli anziani invece si toglievano il cappello ed abbassavano la testa in senso di rispetto. Era una liturgia mattutina e diurna, un insieme di lodi e vespri, un vero rito soprattutto di mattutino che lasciavano nel cuore di chi osservava da vicino o da lontano il segno dell’amore verso la Madre del Signore.

Un amore sincero ed un rispetto totale espresso anche attraverso il culto delle immagini sacre.

Una mattina di primavera, quell’icona non c’era più nella sua cappellinna. Era stata portava via da mano sacrileghe, che con mestiere ed esperienza avevano rimosse tutte le piastrelle con componevano la bellissima immagine della Madonna con Bambino.

In quel posto erano impegnati da mesi per lavori pubblici operai che nel loro linguaggio corrente non facevano nulla se non facevano scappare una bestemmia contro Madonna e il Padre Eterno. Anche davanti alla bellissima immagine della Vergine Santa non avevano ritegno di bestemmiare.

Restavano impressionati i bambini che vedevano ogni giorno quello sperpetuo contro la Madonna, i giovani che per quanti si dice comunque sono rispettosi della fede propria ed altrui ed hanno una grande venerazione per la Madre di nostro Signore, gli anziani che per loro quella immagine era familiare e cara e quando la si toccava con la bestemmia scattava in loro un forte risentimento a chi offendeva la religione e il culto delle immagini.

Tra i tanti operai c’erano vari che non credevano affatto o erano di altre sette e confessioni che non ammettono il culto alle immagine sacre. Si pensò subito in paese che potesse essere qualcuno di loro a portare via una immagine della Vergine Santa così bella ed espressiva. Perché si pensava che un cattolico vero oltre a non rubare nulla agli altri, non ruba particolarmente le immagini sacre, perché commette un reato, ma anche un peccato grave.

Sta di fatto che in quella cappellina l’immagine della Madonna con Bambino non tornò più. Ma la cappellina non poteva restare assolutamente così, vuota.

E allora la popolazione di organizzò e fece fare un copia esatta della stessa immagine della Madonna con Bambino e con lo stesso materiale in maiolicato. Il mosaico fu ricomposto anche perché tutti avevano l’immagine della loro Madonnina impressa sulle figurine o sui telefonini. Molti l’avevano messa come immagine di apertura del loro telefono cellulare, in modo che il pensiero fosse costantemente rivolta alla Madre di Dio ogni volta che questo squillava.

Il legame con quella immagine era profondo e solo chi era stato allevato al culto della Vergine Santa e a venerarla con sincerità poteva comprendere il vuoto che aveva lasciato nel loro cuore di ciascuno di loro, chi aveva portato via la loro Madonnina.

Si pregò a lungo per le mani sacrileghe, affinché ritornasse l’immagine originale; ma passarono anni e tutto rimase tale e quale.

La copia che era stata sistemata allo stesso posto, e questo aveva fatto  dimenticare in parte il gravissimo fatto, ma non eliminarlo del tutto dalla coscienza di quel popolo particolarmente devoto della loro Madonna, tanto da dedicare a lei la festa più importante del paese.

Un giorno per puro caso, un operatore ecologico andò a rovistare in mezzo ai detriti di una casa abbandonata e che era ceduta durante una forte scossa di terremoto. Praticamente di quella casa e di quella famiglia non era rimasta pietra su pietra e  ossa su ossa.

Tra le macerie trovò l’immagine spezzettata, come carta, della sua Madonna, senza poterla ricuperarla in toto, in quanto era stata praticamente annientata.

Si cercò anche di rimetterla a posto, ma non fu possibile.

I pochi pezzetti di maiolica di quell’immagine non potevano assolutamente ricostruire tutta la Madonnina, perché mancava la parte più importante: Gesù Bambino.

Una mamma senza il suo figlio, pensò il netturbino, è una vita senza amore e un amore con grande dolore. Ed un figlio senza la madre è una vita dimezzata e senza significato. Maria è Gesù in un inscindibile rapporto di amore e di redenzione, erano il chiaro messaggio a quanti la veneravano in quell’immagine dell’unità e dell’armonia familiare.

Rimettere la Madonna al suo posto, senza Gesù bambino, non sembrò giusto e allora si pensò bene a continuare a venerare la copia della sacra immagine nella sua completezza iconografica.

Perché così era stata realizzata dall’inizio e così doveva giustamente ritornare dopo il sacrilego gesto del trafugamento  fatto da mani indegne di toccare un’immagine sacra, cara a tutta la comunità, anche a chi credente non era.

I piccoli frammenti di quella immagine sacra, con oltre 300 anni di storia da raccontare, furono conservati nel museo della città, a perenne memoria di una vicenda di offesa al culto cattolico delle immagini, che solo una persona arrabbiata con Dio e il mondo intero poteva aver compiuto in una delle notti più oscure della sua vita di buio.

Sarà stata una circostanza, una casualità, ma quella casa in cui fu portata la Madonnina rubata non ci fu mai pace a quanto si seppe dopo il ritrovamento e quella famiglia finì con i suoi componenti sotto le macerie di un terremoto, distruggendo ogni cosa e lasciando visibile solo un pezzetto di paradiso: il doce viso della Madonnina.

  

Il barbone della stazione

 In tre mesi era cambiata radicamente la sua vita. Il fallimento dell’azienda di famiglia di cui era il direttore generale e soprattutto il fallimento del suo matrimonio con Angela, di cui era profondamente innamorato. Due figli piccoli, Luca e Matteo, di 7 e 5 anni, rispettivamente. Dopo il fallimento di entrambi le cose, dovette lasciare casa e paese, per trasferirsi altrove. Il giudice aveva pure stabilito il mantenimento dei figli e della moglie, rimasti senza nulla, anche con la casa ipotecata, ma con il permesso di abitarci. Stefano che provò a trovare lavoro altrove, dopo aver dato lavoro a tutti, non trovò nulla da nessuna parte. Aveva nel suo cuore il desiderio di non far mancare nulla alla sua famiglia. Cosa fare, di fronte alla chiusura totale di prospettive? Trovò una soluzione poco onorevole e non auspicabile per nessuno, anche se rispettabilissima, di fronte ad altre più difficili e problematiche decisioni. Decise di fare il barbone presso la stazione di una grande metropoli del nord. Ogni mattina, di buon ora si alzava e praticamente si travestiva per non farsi riconoscere, dal momento che era una persona in vista, noto ed un volto familiare. Parrucca, vestiti stracciati, barba incolta, una maschera di uomo per nulla riconoscibile, neppure ai più scaltri detective. Appenna arrivato alla stazione si posizionava all’inizio del binario ove arrivavano i pendolari. Evitava i binari della Freccia Rossa e degli Intercity sui quali viaggiavano i ricchi. Il motivo era semplice da capirsi: sono i poveri che aiutano altri poveri, mentre i ricchi difficilmente lo fanno. D’altra parte anche forte della conoscenza del vangelo, lui cattolico convinto, Stefano sapeva benissimo, una volta caduto in disgrazia, su quale versante operare per vivere la sua nuova sfida. La giornata praticamente trascorreva alla stazione a chiedere l’elemosina. Rientrava alla sera con l’ultimo treno delle 18,00, quando le fabbriche e i negozi chiudevano e, terminati i turni, gli operai ed i pendolari facevano ritorno a casa. Aveva per spostarsi un vecchio motorino che aveva fatto aggiustare e con il quale viaggiava senza neppure essere assicurato. Appena arrivava a casa si metteva in ordine, in quel bugigattolo che aveva avuto in prestito da un vecchio amico che abitava lontano e fuori l’Italia. Si era adattato alla meno peggio in quel monolocale a qualche km dalla sua vecchia e bellissima casa di proprietà, ove continuavano a vivere la moglie e i due figli. Ogni giornata riusciva a fare con la raccolta dai 30 ai 40 euro. Tolto qualche panino per lui e lo stretto necessario, il resto lo metteva da parte per dare l’assegno familiare alla moglie ed ai figli per non far mancare loro ciò di cui avevano bisogno. Anche i bambini avevano dovuto ridimensionare le aspettative, dopo che la madre e i parenti avevano detto esattamente come stavano le cose. Stefano soffriva per la mancanza della moglie, ma soprattutto dei suoi due piccoli angeli, una vera tempesta di gioia e felicità quando le cose andavano bene. Ora erano tristi, non tanto per le cose che mancavano, ma perché non potevano vedere il padre. Il tribunale dei minori aveva revocato al genitore la patria potestà, per incapcità di guidare la famiglia. Una sofferenza immensa, un colpo al cuore di questo ex-dirigente e imprenditore dell’Italia bene. Prima di scendere alla stazione, divenuta il luogo del suo lavoro, passava davanti casa per cercare di vedere i suoi bambini. Non gli riusciva mai, perché gli orari non confacevano. Egli doveva arrivare di buon mattino al capofila dei treni dei pendolari perché doveva racimolare qualcosa  per loro. E così succedeva. Nella postazione fissa che aveva preso, ormai la gente che passava di buon mattino o durante la giornata lasciava sempre qualcosa nel cestino che portava con sé e dove i viaggatori lasciano cadere qualche piccolo o più una più consistente mometina. Qualcuno di loro si era riproposto di fare la prima azione buona della giornata lasciando 1 euro al giorno a Stefano, l’ex-industriale, che ora viveva sotto mentite spoglie. Un giorno, ricorda bene il barbone della stazione, fu di quelli che ti restano per sempre nella memoria. Come sempre stava all’inizio del binario per chiedere l’elemosina. Ad un certo momento tra la folla dei pendolari, che correvano fuori della stazione, vede arrivare una giovane signora con un bambino tenuto per mano. A man mano che si avvicinava riconobbe che era la sua moglie e il primo dei suoi figli, che erano vestiti abbastanza bene. Erano scesi in città dal paese per un controllo medico per il bambino. Quando furono a pochi metri e la signora fece finta di non vedere, Luca, il primo figlio di Stefano, disse con candore alla mamma. “Mamma diamo qualcosa a questo signor, vedi in quale condizione si trova?”. La mamma trasse dal suo borsello 1 euro e lo passò a Luca per posarlo nel cestino del barbone. A quel punto guardando negli occhi quel signore, disse spontaneamente. “Papà. Ma tu sei il mio papa?”. “Ti sbagli” replicò Sfefano. Anche Angela aveva capito che sotto quelle mentite spoglie c’era suo marito. Strattonò Luca dicendogli che si era confuso e che doveva camminare altrimenti si faceva tardi per arrivare all’ospedale. Ma il bambino insisteva, che era suo padre. Appena si furono allontanati, Stefano si alzò dalla postazione dell’elemosina e corse nel bagno della stazione e incominciò a piangere senza fermarsi più. Quel giorno smise di chiedere l’elemosina e preso il motorino, ritornò a casa per non farsi vedere in quello stato dalla moglie e dal figlio. Nella sua mente risuonava la voce del bambino che più si allontanava e più chiamava: papà. Uno choc emotivo di quelli che ti segnano la vita. Da quel giorno, Stefano non scese più alla stazione per chiedere soldi e l’elemosina, per una questione di dignità per la sua famiglia. Ormai la moglie lo sapeva come racimolava il poco necessario per mantenerli a tutte e tre. Il giorno seguente Angela, dopo aver accompagnati i bambini a scuola, si recò da Stefano per chiarire la cosa. Entrambi convennero che non poteva andare avanti così e propose a Stefano suo marito di andare a lavorare con il padre di lei in campagna, a fare il contadino, pur di salvare la dignità sua, quella dei bambini e della sua famiglia. Stefano accettò e la giornata lavorativa che pecepiva di 50 euro al giorno con i contributi permise alla famiglia di vivere meglio e a Stefano di non fare una vita da mendicante della stazione per il bene della sua famiglia, ormai perduta ed in parte ritorovata. Angela, infatti, non volle che Stefano ritornasse a casa, ma permise di vedere i bambini e fece in modo che il tribunale revocasse, attraverso il suo legale, il dispositivo sulla patria potestà e sul frequentare i bambini. Un piccolo passo in avanti Stefano lo aveva fatto ed era più sereno, pur ammettendo i tanti errori gestionali che aveva fatto quando era dirigente dell’azienda familiare e faceva sprechi di ogni genere. Investimenti sbagliati, acquisti di auto, amava il lusso, la bella vita, le ferie all’estero, giocare, divertirsi perché i soldì erano tanti. Ma la crisi era arrivata anche per la sua azienda e l’aveva travolto buttandolo sul lastrico e coinvolgendo in questa cattiva gestione tutta la sua parentela e i vari dipendenti. Aveva imparato la lezione, ma dovette lavorare per anni per uscire dall’emergenza. I figli una volta diventati maggiorenni frequentarono regolarmente il papà, mentre Angela decise di rimanere sola e farsi una vita nel campo della professione, essendo ormai un architetto ben avviato.

 

 

La modella

 Da piccola sognava di diventare una delle modelle più belle e richieste, oltre che pagate del mondo. Non c’era dubbio. Era una bellissima ragazza. Tutto a posto per fare questo lavoro e magari anche per partecipare ad uno dei concorsi, quelli che si fanno per essere apprezzate e anche ben pagate. Il suo curriculum professionale si era svolto tutto regolare, aveva superato prove, aveva fatto provini, e si era sempre classificata tra le prime se non la prima in senso assoluto. In lei aumentava la stima e la personale autovalutazione arrivò alle stelle, tanto che nessuno si poteva più avvicinare per parlarle. Era una star almeno nella sua zona, anche se non ancora era decollata a livello nazionale e internazionale. In questo suo desiderio di realizzazione nel mondo della moda o dello spettacolo o della televisione era sostenuta dalla mamma che pure aveva sognato di fare lo stesso discorso, ma non le era stato permesso dai genitori, che la pensavano diversamente da lei. Non mancò anche il sostegno del padre, che pur di accontentare la figlia, con tanta sofferenza, vedeva sfilare la sua bambina, ormai donna, tra ali di uomini, molti dei quali cittadini del luogo. Gli apprezzamenti anche in dialetto locale non mancavano verso la figlia. Ed il padre nel silenzio doveva sopportare tutto, considerato che la figlia ormai si era esposta. Venne il giorno in cui ci furono le selezioni per un concorso importante e tra le aspiranti modelle c’era propria la sua figlia diletta. Doveva trasferirsi dal paese alla capitale per partecipare alle selezioni. La partenza dal paese fu in ritardo e qundi per arrivare in tempo con l’auto, guidata dal fidanzato della ragazza sulla quale c’erano leì e i due genitori, si correva a mille all’ora. Una corsa folle, senza rispettare limiti di velocità, facendo sorpassi azzardati, non considerando i rilevatori di velocità disseminati abbondanti lungo tutto il percorso. Nulla in quel momento era più importante: arrivare in tempo alla selezione, perché sarebbe stata un’ottima occasione per decollare nel campo della moda e dello spettacolo a livello internazionale ed avere un contratto lavorativo considerevole. Tutto bene fino alla periferia della città. I 300 Km di distanza il ragazzo l’aveva percorso in poco più di un’ora, alla media di 200 Km all’ora. Ma il dramma si sarebbe consumato a lì a poco, quando l’auto ad alta velocità in una curva sbandò e andò a sbattere davanti al muro. I sistemi di sicurezza dell’auto non causarono grossi traumi ai viaggianti,. Tutti gli airbag erano scattati e aveva protetti i quattro passeggeri da morte certa. La macchina distrutta e i viaggianti con vari escorazioni e ferite. Chi ebbe la peggio in questo terribile incidente fu proprio l’aspirante modella, che ebbe varie lesioni al viso e ferite più o meno profonde alle altre parti del corpo. Tutti i quattro furono portati in ospedalle per gli accertamenti e per le cure del caso. Tre poterono lasciare l’ospedale alla sera stessa, per la ragazza ci vollero diversi giorni per mettere a posto tutto il suo corpo e soprattutto la sua anima e la sua psiche. Il sogno di una vita si era infranto davanti ad un muro sull’autostrada. Ma da quella triste esperienza usci profondamente segnata, ma altrettanto matura per capire che la vita, vale più di una gara per modelle o di un posto di lavoro nel mondo dello spettacolo e della moda. La bellezza fisica non sempre gioca a favore di chi è in possesso di questo singolare dono di Dio, perché più importante è la bellezza del cuore e dell’anima che se ben curata e custodita ci accompagna per tutta la vita, mentre la bellezza esteriore si deturpa con il passare delle ore, dei giorni, dei mesi e degli anni. Da quel giorno Melissa non gareggiò più, si accontentò di trovare un onesto lavoro e sposarsi con il suo Giorgio, anch’ egli traumatizzato per il grave incidente. La più “suonata” di tutta la vicenda fu la madre di Melissa, che da quel giorno avvertiva un senso di colpa che portò con se fino alla tomba. Melissa ebbe tre bellissime bambine, anch’esse aspiranti miss. Ma come madre ormai forte della triste espienza non forzò la volontà delle sue figlie, né chiedeva di premere sull’acceleratore quando le ragazze viaggiano con i rispettivi fidanzati per partecipare ad un concorso di bellezza. Aveva il terrore che potesse succedere anche a loro, ciò che era successo a lei. Prevenire è meglio che curare si era detto nella sua mente di non più figlia, condizionata dalla madre, ma di madre che amava teneramente le sue figlie e non le esponeva a nessun pericolo né alllo sguardo indiscreto di tante persone che lavorano nel campo della moda e dello spettacolo.

 

Naim l’africano

 Era in quella scuola del Sud il primo bambino di colore che faceva ingresso nella scuola dell’obbligo ed aveva appena sei anni, come i tanti bambini italiani che in quell’anno facevano ingresso nella scuola elementare. Era originario del Benin ed è era un bambino bellissimo e simpaticissimo, sprigionava da tutti i suoi pori la voglia e la gioia di vivere. In quella prima classe della scuola elementare tutti gli altri erano bambini del posto, di colore bianco, e tra loro c’era un bambino dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Di quei bambini figli dei grandi signori delle aree del sud con l’aria della persona superiore. Vestiva benissimo, alla moda, aveva tutti i libri a posto, zaino firmato e tutto il resto di marca. Il bambino nero, pulitissimo, aveva pochissime cose con sé, l’essenziale per la scuola, ma era volenteroso nello studio. Comprendeva perfettamente e subito la lezione delle maestre, che insegnavano su quel modulo di classi elementari. In poche parole divenne subito il primo della classe, attirandosi, da un lato la benevolenza delle maestre, e dall’altra la gelosia del bambino biondo che poco riusciva negli studi. I dispetti quotidiani si rinnovavano ogni giorno e non solo in classe, ma anche durante l’orario del gioco all’aperto e durante la mensa. Qui scattava l’odio raziale del bambino bianco, che era stato mal educato dai genitori, perché essi non amavano per nulla i neri ed erano evidentemente persone per nulla tolleranti verso gli extracomuniari. Quel bambino biondo era cresciuto nell’odio razziale e quindi non vedeva di buon occhio la presenza dell’africano nella sua classe e per di più anche il primo in assoluto negli studi. Un giorno mentre giocavano negli spazi aperti della scuola, il bambino biondo cadde e si ruppe la gamba. Il primo a soccorrerlo fu l’africano che con parole di adulto cercava di incoraggiare e sostenere il bambino biondo nella sua sofferenza, in attesa che arrivassero i genitori e soprattutto l’autoambulanza per portarlo in ospedale. Senza farlo muovere, si accostò a lui e nel suo perfetto italiano che aveva appreso benissimo in pochi mesi, gli raccontava delle storie del suo paese d’origine, proprio quando i bambini cadevano e si facevano male e non potevano arrivare né dottore, né autoambulanza, ma solo la mamma o il padre quando c’erano ed erano capaci. A intervenire in quelle circostanze erano solo le suore missionarie o i sacerdoti missionari che in qualche modo cercavano di lenire il dolore dei piccoli e dei grandi con i pochi rimedi medici che avevano a disposizione. Di racconto in racconto, dopo quasi 10 minuti dall’incidente, arrivarono i due genitori del bambino biondo e trovano l’africano vicino al loro figlio. In un primo momento con la rabbia sul volto pensarono che fosse stato l’africano a far male al loro bambino. Il loro figlio capì dagli sguardi e nonostante il dolore che aveva in quel momento si fece avanti dicendo: “Mamma, papà, grazie a Naim sono qui a soffrire di meno. Lo ringrazio di cuore perché è stato un tesoro con me, mentre i miei compagni sono andati via per paura o per non darmi una mano”. I genitori del piccolo Alex, il bambino biondo, presero tra le braccia Naim, lo baciarono e lo ringraziarono per aver fatto compagnia al loro bambino. Nel frattempo arrivò l’autoambulanza e con tutti gli accorgimenti e la prudenza del caso il bambino fu portato in ospedale, curato ed ingessato. Dovette stare 40 giorni al letto e in casa. Ad andarlo a trovare tutti i giorni a fargli fare i compiti e a spiegare le lezioni ad Alex era Naim, l’africano, che nel colore della pelle del suo amico Alex non vedeva né il bianco, né il biondo dei capelli, né gli azzurri occhi del suo compagno, ma solo un suo caro amico al quale voleva bene. La lezione del piccolo Naim per lo stesso Alex e soprattutto per i suoi genitori fu efficace e da allora in poi, in quella famiglia il razzismo scomparve per sempre dai pensieri e dai comportamenti di quei nobili signori di un paese del Sud.

 

Il pianto del ragazzo

 Era tutto solo nella chiesa della Madonna del Carmine e piangerva a dirotto, davanti al santissimo sacramento dell’altare. Da poco si era conclusa la celebrazione eucaristica, durante la quale il sacerdote, nell’omelia, aveva trattato temi importanti come l’unità della famiglia. Evidentemente il ragazzo era rimasto scosso dalle parole del predicatore e riviveva nel suo cuore il dramma dei genitori separati e rivedeva tutte le volte che tra loro due c’erano stati diverbi e come essi avevano segnato la sua psicologia. Nella chiesa vuota era rimasto il ragazzo e una suora. La quale si avvicina al giovane per chiedere: come mai piangesse. “Niente, sorella”, disse. “Voglio stare un altro poco qui davanti a Gesù, per chiedere lumi sul mio futuro”. La suora lascia il ragazzo a meditare davanti all’altare e continua a fare le sue cose, visto che alla chiesa del Carmine era annesso il monastero delle Carmelitane di vita attiva. A distanza di un’ora ritorna nella stessa chiesa per vedere se il ragazzo era ancora lì a pregare e a piangere. Con grande gioia, nota che non c’era più, era andato via. La suora si accingeva a chiudere la porta della chiesa, quando all’improvviso sopraggiunge novamente il ragazzo con le lacrime agli occhi e con un magone nel cuore.La suora sconcertata e preoccupata dello stato d’animo del ragazzo, pensando che potesse farsi del male, chiede aiuto al sacerdote che era ancora in sacrestia a svolgere il suo ministero di padre spirituale. “Padre correte –grida la suora – un giovane si sente male ed ha bisogno di voi”. Il sacerdote lascia quello che stava facendo, dice alla penitente che stava confessandosi di aspettare un attivo che sarebbe ritornato subito. Va in chiesa e si accosta al giovane che continua a piangere a dirotto. Lacrimoni cadono abbondanti dal viso del giovane.  

“Cosa ti è successo, ragazzo mio” chiede il sacerdote.  

“Nulla padre, ho bisogno di pregare, di stare davanti a Gesù Sacramentato”.  

Al che il sacerdote disse di rimanere li finquando voleva.  

Il giovane rimase ancora un’altra ora davanti al santissimo sacramento e poi usci di nuovo.  

Il sacerdote visto che non c’era più nessuno in chiesa, incominciò a chiudere la porta dell’ingresso, quando all’improvviso nuovamente arriva il ragazzo, che piange fortissimamente e chiede conforto al sacerdote.  

“Cosa è successo?”, domandò il prete.  

“Una cosa terribile”, padre, ho visto mia madre nella macchina di un altro uomo, che non è mio padre, che stava in atteggiamento affettuoso, per non dire altro, con questo uomo. E’ stato un colpo mortale per me. Sono corso in chiesa a pregare, perché non sapevo cosa fare in quel momento. Ho chiesto l’aiuto al Signore. Ho aspettato un’ora e sono uscito con la speranza che mia madre avesse salutato quell’uomo e fosse tornata a casa. Invece non era così. Ogni ora sono uscito, ma lei stava sempre lì. Anche in questo momento sta con quella persona. Se vuole, padre, può rendersi conto personalmente della cosa”.  

Al che il prete: “Ti credo figlio mio, non ho bisogno di verificare nulla. Questi fatti purtroppo capitano sempre più frequentemente ai nostri giorni. Non  ci dobbiamo rassegnare alla situazione che si è creata. Ma ti chiedo cosa possiamo fare?”. 

Il ragazzo, replicò subito al sacerdote. “Tanto per iniziare, non le faccia più insegnare il catechismo, visto che è una sua collaboratrice, padre. Quale messaggio di vita cristiana può dare ai ragazzi che si preparano alla cresima?”.  

Al che il sacerdote. “Non posso che darti ragione figlio mio. L’insegnamento della vita vale più di un anno di catechismo. Tua madre da domani in poi, se è vero quello che dici, non potrà più insegnare ai bambini e tantomeno essere credibile per quello che ti raccomanda di fare a te che sei suo figlio. Ma ti posso chiedere una cosa?, aggiunse il sacerdote. 

 “Certo”, rispose il ragazzo.  

“Quando rientrerai –disse il prete- a casa e vedrai tua madre, fa finta di nulla di quello che hai visto. Aspetta che sia lei a dirti la verità, dal momento che sei l’unico figlio e l’unica persona con cui vive ufficialmente, nascondendo agli occhi degli altri la sua vera condotta di vita”.  

Al che il ragazzo. “E se non dovesse dirmi nulla?”.  

Replicò il sacerdote: “Fai una cosa semplice, evangelica, vai da lei e con un grande gesto di amore e di tenerezza, dille: mamma solo un figlio può amare sinceramente la sua mamma e sola una mamma vera può amare davvero il suo figlio”.  

E chiedele: “Mi vuoi ancora bene?. Se ti dice di sì sappi che sta attraversando un momento difficile della sua vita e tu come figlio devi starle vicino per recuperarla all’amore e alla famiglia”.  

Al che il ragazzo: “Io devo stare vicino a mia madre? Ma deve essere lei ad essere vicino a me”.  

Al che il sacerdote disse al ragazzo: “Chi più capisce, più comprende e patisce. Tu hai capito ora che tua madre non è quella che tu pensavi. Lei ora ha bisogno di te, più che tu di lei. Perché tu hai Gesù e sei corso da Lui in questo momento di sconforto. Lei purtroppo è corsa in braccia di un altro uomo, pensando di aver risolto i suoi problemi interiori. Non è così. Lei sta più male di te ed ha bisogno del tuo amore per uscire fuori da questa situazione di immoralità. Fammi il piacere –disse il sacerdote – ora che esci dalla chiesa e vai a casa, fa come ti ho detto e domani passa a dirmi come è andata”.  

Il ragazzo tornò il giorno dopo dal sacerdote, tutto felice e contento, ringraziando il padre per i buoni consigli che gli aveva dato.  

La mamma in quella sera stessa aveva chiamato il suo amante ed aveva detto che era finito, in quanto era più importante l’educazione dei figli che soddisfare i propri istinti e che era disonesto a svolgere il ministero di catechista, vivendo in quella situazione di immoralità, avendo ancora un marito ed un figlio, non solo sulla carta, ma ancora nel cuore.  

La conversione era avvenuta, frutto anche di quella preghiera e del pianto di quel ragazzo, preoccupato di perdere l’amore della mamma e la sua famiglia per sempre.  

La signora non tornò a fare catechismo, anzi fu lei stessa a dire al prete che non se la sentiva e svuotò il sacco di tutta la situazione personale che si era portata avanti da anni, subito dopo la nascita di quel bambino, ormai ragazzo, che tanta preoccupazione ed ansia le procurava in quanto era l’unico vero bene della sua vita.  

L’errore commesso richiedeva una seria purificazione e il modo per attuarlo fu quello di lasciare la parrocchia, dove la notizia in parte era risaputa, e ritarsi a pregare e a frequentare altri ambienti religiosi, ove non era conosciuta e pertanto poteva continuare a vivere la sua esperienza di fede, dopo una sincera confessione fatta al santuario della Madonna del Carmine, ai cui piedi versò tante lacrime di pentimento e di purificazione.  

Maria ormai si era pentita e incominciava una nuova vita, portando la gioia e il sorriso nella sua famiglia. Fece in modo che anche il marito ritornasse a casa e si ricominciasse tutti e tre insieme l’avventura della vita coniugale e familiare, nella sincerità dei rapporti interpersonali.

 

Il falso cieco 

Un giorno, un uomo non vedente, non conosciuto da quella gente, stava seduto, (come tanti specie di domenica) sui gradini di una chiesa con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: “Sono cieco, aiutatemi per favore”.  

Un signore che stava entarndo in chiesa si fermò a leggere il cartello e soprattutto a controllare quanto aveva finora racimolato. Notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello. Si chinò e versò altre monete. Poi, senza chiedere il permesso a quell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase: “Aiutatemi, perché ho una famiglia e non ce la faccio a vivere, sono senza lavoro”.  

Quello stesso pomeriggio il signore tornò dal finto non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote. 

Il miracolo della solidarietà e della carità si era rinnovato anche davanti a quella chiesa, dove di veri e finti chiechi si alternavano per chiedere l’elemosina ai fedeli che entravano ed uscivano dal luogo di culto. 

Il finto non vedente lo riconobbe e lo ringraziò per la scritta vera che aveva fissato sul cartello. Quel signore rispose: “No devi ringraziarmi di niente.  Ho solo scritto la verità, ben conoscendoti e sapendo le tue condizioni. Questa gente non ti conosce e non sanno chi sei. Ma non devi strumentalizzare coloro che davvero soffrono per la cecità”. Sorrise e andò via. 

Dire la verità, non vergognarsi della propria povertà, chiedere aiuto a chi può darlo è un atto di amore e rispetto verso di se e verso quanti dipendono dalle nostre sorti.  

Certo che non bisogna falsificare le carte o le condizioni di salute per ottenere un beneficio, sapendo di poter agire sulla sensibilità degli altri. 

I non vedenti veri sono in primo luogo ad essere nelle attenzioni delle persone sensibili, ma non bisogna sfruttare questa categoria di persone  per ottenere favori, quali pensioni ed altro, perché alla fine prima o poi i finti invalidi vengono scoperti.  

Ma al di là di questo è soprattutto la coscienza che dovrebbe mordere a chi non ha diritto ad una pensione di invalidità. Lo stesso chiedere l’elemosima fingendosi per cieco, offende la dignità, la sensibilità e la sofferenza di chi cieco è davvero.

 

Il testo della meditazione di questa mattina al Gruppo di Pagani

CENACOLO DI PREGHIERA “TOMMASO M. FUSCO” – PAGANI

RITIRO SPIRITUALE 3 MARZO 2013 – STELLA MARIS – MONDRAGONE

Fede e santità della vita

Tutti siamo chiamati ad essere santi, ognuno secondo il proprio stato di vita. E per aspirare alla santità è necessario avere una carica spirituale fortissima ed una fede convinta e matura, coraggiosa e speranzosa. Partiamo da un dato concreto: non è possibile testimoniare Gesù Cristo, non è possibile educare alla vita bella del Vangelo, come ci ricordano i vescovi italiani nel progetto nazionale che ci sta accompagnando negli ultimi anni, se noi non facciamo un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella nostra vita. E questo perché la santità è anche un racconto… il racconto della mia esperienza viva di Gesù Cristo.

Qualche premessa. 

Che cos’è la santità? E’ la vita nello Spirito di Dio: niente di più, niente di meno.

E che cos’è la spiritualità? E’ la mia esperienza concreta davanti a Dio.

La santità è solo questo, e niente di eccezionale… la vita nello Spirito di Dio. È la vita nuova nello Spirito del Cristo risorto. E la spiritualità è la mia esistenza concreta davanti a Dio: sono quello che sono davanti a Dio, non quello che vorrei essere. In questa ottica la santità è accessibile a tutti. La santità, infatti, è la vita, la crescita nella grazia come ci indica lo Spirito del Cristo risorto; è la grazia battesimale che ci trasforma sin dal nostro primo istante della esistenza. 

Domande di fondo

E’ possibile educare alla santità, parlare di santità in questo tempo di crisi? Ma quando della forza del Vangelo viene meno attraverso il nostro stile di vita? Le nostre chiese, i nostri conventi, le nostre parrocchie hanno ancora qualcosa da dire al mondo e alla società? Si può ancora parlare di santità, di pretesa cristiana, di identità cristiana? Si può essere santi in questo tempo di crisi?

Parto da un’affermazione di Papa Benedetto XVI, che giovedì 28 marzo, alle 20,00 conclude il suo ministero petrino, in seguito alle libere dimissioni date il 11 febbraio 2013, al quale va tutta la nostra gratitudine, che nella sua Lettera Apostolica “La porta della fede”, pubblicata in forma di Motu Proprio l’11 Ottobre 2011, al n. 2 afferma: “capita ormai, non di rado, che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali, politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come a un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene persino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto, nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori del Vangelo, oggi non sembra essere più così nei grandi settori della società, a motivo della grande crisi di fede che ha toccato molte persone”. Questo grande dono della fede non rappresenta più un valore di unità nelle nostre comunità e nella stessa società: quindi questa crisi è sicuramente una crisi di fede. Quindi parlare della santità significa certamente andare a rivedere il nostro percorso di fede, il nostro percorso di incontro con Gesù Cristo. Ogni racconto, anche spirituale, nasce da un’esperienza! Se io faccio un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella mia vita, allora lo posso anche io raccontare. Se Gesù Cristo diventa una dottrina, un rito, una tradizione, anche, se volete, un’identità culturale … e spesso nelle nostre parrocchie si è cristiani per identità culturale, la santità, invece, intesa come via della crescita nello Spirito, richiede un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella propria vita. Quindi annunciare Cristo Redentore non significa parlare di una dottrina, né di un contenuto di una sapienza da meditare. Annunciare significa testimoniare Cristo nella propria vita. Potremo dire che la santità è la testimonianza di Cristo nella propria vita.

Santità e conversione

Tempo di Quaresima, tempo di conversione e di maggiore impegno nella santità. La metanoia, la conversione non è uno sforzo etico, non è una questione di buona volontà, ma come ci ha detto il grande profeta Gioele, nella Prima Lettura della Messa del Mercoledì delle Ceneri, convertirsi è ritornare a Dio con tutto il cuore. Ora si tratta di capire che cosa è il cuore.

Nella Scrittura il cuore è la sede della volontà , della conoscenza, dell’intelligenza, della nostra razionalità. Si pensa con il cuore, si ragiona con il cuore. Nella Scrittura non c’è questa separazione tra fede e ragione, intelligenza e volontà, come nella nostra società moderna.

Nella Scrittura il cuore è la sede dei sentimenti, ma soprattutto della volontà. “Ritornare a Dio con tutto il cuore” significa recuperare unità nel nostro essere ‘persona’.

La santità è esperienza di unità, di comunione con Dio e i fratelli. Il peccato, invece, è un’esperienza di divisione e di separazione da Dio e, ovviamente, anche dai fratelli, dal corpo della Chiesa. “Ritornare a Dio con tutto il cuore” è un cambiamento del modo di agire e di essere, e cambiamento anche del nostro modo di pensare, perché noi non siamo convertiti e, per l’appunto, innanzitutto nel modo di pensare la fede, la parrocchia, il nostro rapporto con Gesù Cristo.

Nel termine “metanoia”, “santità” metteteci quanto più c’è di carnale, di umano, ed eliminate tutto ciò che sa di spiritualità disincarnata.

Nel termine spiritualità, nel termine conversione, mettete tutto ciò che è carnale, perché il cristianesimo è una religione carnale. 

Qual è il proprium della fede cristiana? E’ la Risurrezione … ma la risurrezione di che cosa? La risurrezione della carne, perché oggi molti credono nella risurrezione non si sa di che cosa… dell’anima, dello spirito.

La fede, la mia esperienza con Gesù Cristo passa sempre attraverso delle relazioni. San Francesco, ad esempio, riprendeva sempre qualche frate orante che si infastidiva se qualche altro frate si avvicinava per chiedergli qualcosa, perché non voleva essere disturbato nella preghiera. Noi cristiani non professiamo la salvezza delle anime, ma della persona: non si salvano le anime, ma le persone. Con il tema della conversione occorre recuperare tutta la dimensione antropologica e quindi far cadere tanti idoli nel nostro cammino di fede, nel nostro cammino di santità: l’individualismo esasperante nelle nostre comunità, il carrierismo anche dei fedeli laici nella parrocchia, le gelosie presenti anche nelle comunità cristiane. Se non curiamo queste ferite, cioè se non recuperiamo l’uomo, non ci possiamo presentare da nessuna parte a parlare di Gesù Cristo, proprio perché, in questo caso, non siamo delle persone credibili.

La santità del Beato Tommaso Maria Fusco passa attraverso scelte coraggiose di vita, attraverso la croce, la sofferenza, l’incomprensione.

Santità e missione

La missione è l’annuncio del Vangelo oggi, in ogni contesto, in un mondo che è già cambiato! Il mondo è cambiato, e noi, come Chiesa ce ne siamo accorti in ritardo. La proposta cristiana è sempre più ai margini della nostra società. Quindi non esiste più alcuna pretesa. Noi annunciamo, parliamo di Gesù Cristo, ma sempre con la pretesa di essere riconosciuti, che gli altri ci dicano bravo!. Noi pretendiamo che gli altri ci ascoltino, che gli altri riconoscano che Gesù Cristo è la Verità.

Noi pretendiamo, come religiosi o fedeli laici di essere una fiaccola o una luce, ma sul cammino di chi? C’è chi la luce non la vuole vedere, come c’è chi non vuole nessuno annuncio, chi non vuole essere salvato. Nel concetto di missione, evidentemente, dobbiamo mettere in cantiere una possibile esperienza di fallimento, che non ci deve abbattere, ma che rientra anche nel nostro cammino di santità, di vissuto, di annuncio del Vangelo. Quindi un tema serio da trattare nelle nostre comunità, come anche nelle nostre famiglie, è il tema della marginalità. I cristiani sono ai margini della società. Il servizio socio-caritativo di molte nostre Chiese, di parrocchie, di diocesi, per i poveri, il lavoro delle Caritas, per il mondo laico, non credente, è visto come un’affermazione di potere della Chiesa. La società ci vede come Chiesa ai margini e non riconosce nel nostro impegno per il Vangelo il servizio, ma una forma di potere. Educare, formarsi alla vita bella del Vangelo significa anche mettere in cantiere questa esperienza di fallimento.

Nel concetto di missione mettiamoci anche la parrocchia, che non è la panacea per tutti i mali: parocia significa casa in esilio tra le case in esilio. Non è la casa tra le case: nelle nostre parrocchie la percentuale dei fedeli che partecipano alla vita parrocchiale è il 2-3% in generale nei grossi centri urbani, anche se in varie città si raggiunge, per fortuna, ancora un numero più elevato.

Nell’intuizione del compianto vescovo pugliese, don Tonino Bello, la parrocchia è la fontana della piazza, dove ci deve stare sempre l’acqua: quando incontriamo una fontana senza l’acqua restiamo delusi. La parrocchia è la fontana ove c’è sempre l’acqua fresca che sgorga: c’è chi la usa per rinfrescarsi, per dissetarsi, chi ci gioca un po’… chi la sciupa … chi la guarda e se ne va …

In una parrocchia ci deve stare sempre l’acqua viva. Dobbiamo anche accettare che non tutti verranno alla fontana ad attingere.

In questa esperienza di conversione, dunque, cambiamo anche il nostro modo di pensare, di essere Chiesa, di essere sempre giusti al servizio degli altri.

La santità, dunque, come l’annuncio, la conversione, come la testimonianza, è un problema di fede e di libertà: di fede perché se la fede è dare il cuore, se la fede è camminare dietro il Cristo crocifisso e risorto, allora essa è la santità, la crescita nello Spirito; di libertà perché è una questione di scelta. Mi piace ricordare, al proposito, un teologo del secolo scorso, Karl Rahner, il quale già negli anni ’70 parlava di una sorta di ateismo preoccupato.

Rahner diceva che i cristiani, perché si sentono in minoranza, si sentono emarginati, praticano un ateismo “preoccupato”, cioè la vergogna di testimoniare, di parlare di Gesù Cristo. Ma… noi … a dire il vero, nelle nostre parrocchie parliamo di Gesù, raccontiamo la nostra esperienza di Gesù quando preghiamo, partecipiamo all’eucaristia, insegniamo? Nelle nostre comunità religiose parliamo di Gesù tra di noi, raccontiamo l’esperienza spirituale?

Il nostro approccio alla fede è sempre ancora dottrinale, ci vergogniamo ancora di raccontare la nostra esperienza concreta di Gesù Cristo. Questa vergogna esiste tra i preti, tra i frati, tra i fedeli laici … Noi dobbiamo raccontare la nostra esperienza di Gesù Cristo nella nostra vita: quindi è una questione di fede e di libertà. Il Papa ci dice che viviamo in una società in cui i valori cristiani sono stati messi da parte e, quindi, ognuno pratica una verità, ognuno pratica un percorso di fede di liberazione. Quindi nessuno più si ente obbligato a confrontarsi con la proposta cristiana. Se tu oggi vuoi essere santo vuoi essere un profeta, vuoi essere luce, la prima cosa che devi fare ci devi credere, devi praticare quel percorso e devi andare contro corrente: ecco perché è una questione di libertà. Mi convinco nel tempo che il cammino di conversione che dobbiamo fare come Chiesa è proprio un cammino di libertà, andando contro i luoghi comuni, contro i pregiudizi, i giudizi superficiali, contro il plauso che cerchiamo dalla folla. L’insegnamento di Papa Benedetto XVI con le sue dimissioni dal soglio pontificio ci dicono molto su questo versante.

Spesso valutiamo le nostre parrocchie, il nostro successo pastorale dal fatto che le chiese sono piene o sono vuote: questo è un falso valore. La santità è questione di fede: nella vita bisogna fidarsi di qualcuno: se ci fidiamo di Dio e vogliamo essere dei discepoli, allora saremo anche dei credenti.

Dice Dio in Geremia, capitolo 1, 8: “Io sono con te”, cioè sono sempre dalla tua parte, sono sempre vicino a te, sono presente alla tua vita. Quindi se  ci fidiamo di Dio, allora la nostra vita cambierà di significato.

Due sono le malattie che colpiscono la vita spirituale nostra: la sclerocardia (indurimento del cuore) e l’indifferenza.

Innanzi ai segni dei tempi, ai segni della storia, un cristiano che non si lascia interpellare da certi cambiamenti epocali, da certi segni della società è un ammalato di porosis, di indifferenza, al punto da non essere neanche più un profeta.

Ecco due immagini che possono aiutarci  come cristiani, nel cammino della santità.

La prima immagine è la metafora del vetro: dobbiamo essere persone trasparenti.

Se sono trasparente come il vetro, rifletto la luce, splendo di questa luce, allora sarò significativo nel mondo di oggi, allora potrò educare alla vita bella del Vangelo. Ma se sono opaco non avrò niente da dire.

Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, parla del volto di Cristo nella Chiesa e la Chiesa come volto di Cristo. La Chiesa attraverso il peccato opacizza il volto di Cristo. Il falso moralismo non ci rende credibili, e questo è vero anche per chi esercita autorità.

L’altra immagine è quella del giardino. I Padri della Chiesa hanno riletto il fatto che Adamo è collocato nel Giardino dell’Eden con l’idea che quel Giardino è Cristo. Adamo, anche dopo il peccato non viene scacciato dal Giardino, ma viene ricollocato nel Giardino che è Cristo. Questo significa che dobbiamo veicolare attorno all’uomo una santità, un cammino spirituale, un cammino di annuncio. Un cammino di annuncio che non gira attorno all’uomo non è vero ed autentico. Quindi l’immagine del Giardino significa che noi dobbiamo prenderci cura dell’uomo. Al riguardo, nella Lettera agli Ebrei si parla del Figlio di Dio sacerdote eterno, Gesù Cristo, che si è preso cura della stirpe di Abramo.

Girare attorno all’uomo: la santità passa sempre per un discorso che è antropologico. Adamo non è cacciato dal giardino, ma è messo nella storia della salvezza. La Chiesa deve prendersi cura di Adamo, cioè orbitare attorno all’uomo, alle nuove esigenze antropologiche. Evangelizzare, formarsi, convertirsi, essere santi è imparare a girare intorno all’uomo, conoscere le nuove frontiere antropologiche dell’umanità.

La metafora del giardino e del vetro denunciano, forse, un problema di crisi di fede, alcuni mali del nostro agire da cristiani, l’individualismo, il trionfalismo, il fideismo. Non è possibile che in una comunità cristiana ci sia un vuoto di formazione spirituale e dottrinale.  Questo è un problema di fede, perché se non so cosa mi dà la mia religione, posso aderire facilmente ad un’altra religione. Se non conosco il proprium della mia fede… Quale prodotto mi offre il cristianesimo?, ci chiediamo quasi in termini commerciali. Quali risposte mi offre. Se non so cosa è la risurrezione della carne allora posso cadere in una sorta di relativismo, in qualsiasi momento della nostra vita.

Allora cosa dobbiamo fare?

Dobbiamo tentare di essere anti-segno: questo è il nostro impegno. I Greci cercavano la sapienza, gli Ebrei i segni della sapienza. Noi invece predichiamo Cristo crocifisso e risorto. Quindi non dobbiamo convincere nessuno. Dobbiamo essere anti-segno, ripartire da questa esperienza di marginalità. Ma voi credete veramente che Paolo ad Efeso aveva fondato delle Chiese? Le Chiese di Paolo era quattro case, tre famiglie … Ad Efeso, nell’esempio, chi ascoltava Paolo? Poche persone. Però Paolo annunciava Gesù Cristo, questa proposta di vita nuova, alla persone di buona volontà. Quindi non ci dobbiamo vergognare di Gesù Cristo, né sentirci inferiori a chicchessia, o cercare carrierismo o trionfalismo. Noi siamo essere umani, abbiamo bisogno a volte di certezze: se la chiesa è piena, se ad un incontro vi sono tante persone il parroco è contento … ma non è quello che ci deve dare sicurezza. Anche se ci sono solo tre persone di buona volontà nella nostra parrocchia, noi vogliamo essere anti-segno, andare contro-corrente. Questa è l’unica risposta che noi abbiamo. Ci vergogniamo di annunciare il Vangelo, di predicare la parola della fede, in ogni occasione, dice Paolo a Timoteo, opportuna e inopportuna (2 Tim 1,2). Quindi dobbiamo raccontarci la nostra esperienza vera di Gesù Cristo; dobbiamo fare scelte impopolari e poco seducenti per la società, allontanandoci dalla mentalità di questo secolo. Ad esempio, se una coppia non è preparata, consigliatele di non sposarsi in chiesa; se una coppia viene a ricevere il sacramento della Cresima solo perché si deve sposare, ma ditegli che si possono sposare anche senza il Sacramento della Cresima: essere anti-segno!

Interroghiamoci frequentemente su questa possibilità di essere anti-segno, impopolari, senza avere la pretesa di sedurre le persone.

L’esempio di Tommaso Maria Fusco

Tommaso Maria Fusco, settimo di otto figli, nacque a Pagani (SA), in diocesi di Nocera-Sarno, il 1° dicembre 1831, dal farmacista dott. Antonio, e dalla nobildonna Stella Giordano, genitori di integra condotta morale e religiosa che seppero formarlo alla pietà cristiana e alla carità verso i poveri.

Fu battezzato lo stesso giorno della nascita nella Parrocchia di San Felice e Corpo di Cristo.

Ben presto rimase orfano della madre, vittima dell’epidemia colerica nel 1837 e, pochi anni dopo, nel 1841, perdette anche il padre. D’allora si occupò della sua formazione don Giuseppe, lo zio paterno, il quale gli fu maestro negli studi primari.

Fin dal 1839, anno della canonizzazione di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, il piccolo Tommaso aveva sognato la chiesa e l’altare e finalmente nel 1847 entrò nel Seminario diocesano di Nocera, dal quale nel 1849 uscirà consacrato sacerdote il fratello Raffaele.

Il 1° aprile 1851 Tommaso Maria ricevette il Sacramento della Cresima e il 22 dicembre 1855, dopo la formazione seminaristica, fu ordinato sacerdote dal Vescovo Agnello Giuseppe D’Auria.

In questi anni di esperienze dolorose, per la perdita di persone care alle quali si aggiungeva quella dello zio (1847) e del giovane fratello Raffaele (1852), si sviluppa in Tommaso Maria una devozione già cara a tutta la famiglia Fusco: quella al Cristo paziente e alla sua SS. Madre Addolorata, come viene ricordato dai biografi: «Era devotissimo del Crocifisso e tale rimase sempre».

Fin dall’inizio del ministero curò la formazione dei fanciulli, per i quali in casa sua, aprì una Scuola mattinale, e ripristinò la Cappella serotina, per i giovani e gli adulti presso la chiesa parrocchiale di San Felice e Corpo di Cristo con lo scopo di promuovere la loro formazione umana e cristiana. Essa fu un autentico luogo di conversioni e di preghiera, come lo era stata nell’esperienza di Sant’Alfonso, venerato e onorato a Pagani per il suo apostolato.

Nel 1857 fu ammesso alla Congregazione dei Missionari Nocerini, sotto il titolo di San Vincenzo de’ Paoli, con la immissione in una itineranza missionaria estesa specialmente alle regioni dell’Italia meridionale.

Nel 1860 fu nominato cappellano del Santuario della Madonna del Carmine, detta delle Galline, in Pagani, dove incrementò le associazioni cattoliche maschili e femminili, e vi eresse l’altare del Crocifisso e la Pia Unione per il culto al Preziosissimo Sangue di Gesù.

Per l’abilitazione al ministero del confessionale, nel 1862 aprì nella sua casa una Scuola di Teologia morale per i Sacerdoti, infiammandoli all’amore del Sangue di Cristo: nello stesso anno istituì la «Compagnia (sacerdotale) dell’Apostolato Cattolico» per le missioni popolari; nel 1874 ebbe l’approvazione dal Papa Pio IX, oggi beato. Profondamente colpito dalla disgrazia di un’orfana, vittima della strada, il 6 gennaio giorno dell’Epifania del 1873, dopo attenta preparazione nella preghiera di discernimento, don Tommaso Maria fondò la Congregazione delle «Figlie della Carità del Preziosissimo Sangue». L’Opera ebbe inizio nella Chiesa della Madonna del Carmine, alla presenza del Vescovo Raffaele Ammirante il quale, con la consegna dell’abito alle prime tre Suore, benedisse il primo Orfanotrofio per sette orfanelle povere del paese. Sulla nascente famiglia religiosa e sull’Orfanotrofio, dietro sua richiesta, non tardò a scendere anche la benedizione del Papa.

Don Tommaso Maria continuò a dedicarsi al ministero sacerdotale con predicazione di esercizi spirituali e di missioni popolari; e su questa itineranza apostolica nacquero le numerose fondazioni di case e orfanotrofi che segnarono la sua eroica carità, ancora più intensa specialmente nell’ultimo ventennio della sua vita (1870-1891).

Agli impegni di Fondatore e Missionario Apostolico associò anche quelli di Parroco (1874-1887) presso la Chiesa Matrice di San Felice e Corpo di Cristo, in Pagani, di confessore straordinario delle monache di clausura in Pagani e Nocera, e, negli ultimi anni di vita, di padre spirituale della Congrega laicale nel Santuario della Madonna del Carmine. Ben presto don Tommaso Maria, divenuto oggetto d’invidia per il bene operato col suo ministero e per la vita di sacerdote esemplare, affronterà umiliazioni, persecuzioni fino all’infamante calunnia nel 1880, da un confratello nel sacerdozio. Ma egli sostenuto dal Signore, portò con amore quella croce che il suo Vescovo Ammirante, al momento della fondazione, gli aveva preconizzato: «Hai scelto il titolo del Preziosissimo Sangue? Ebbene, preparati a bere il calice amaro». Nei momenti della durissima prova sostenuta in silenzio, ripeteva: «L’operare e il patire per Dio sia sempre la vostra gloria e delle opere e patimenti che sostenete sia Dio la vostra consolazione in terra e la vostra mercede in cielo. La pazienza è come la salvaguardia e il sostegno di tutte le virtù».

Consumato da una patologia epatica, don Tommaso Maria chiuse piamente la sua esistenza terrena il 24 febbraio 1891.

I racconti di padre Antonio Rungi. Testi inediti, rielaborazioni, rivisitazioni.

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Naim l’africano

 

 

 

Era in quella scuola del Sud il primo bambino di colore che faceva ingresso nella scuola dell’obbligo ed aveva appena sei anni, come i tanti bambini italiani che in quell’anno facevano ingresso nella scuola elementare. Era originario del Benin ed è era un bambino bellissimo e simpaticissimo, sprigionava da tutti i suoi pori la voglia e la gioia di vivere. In quella prima classe della scuola elementare tutti gli altri erano bambini del posto, di colore bianco, e tra loro c’era un bambino dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Di quei bambini figli dei grandi signori delle aree del sud con l’aria della persona superiore. Vestiva benissimo, alla moda, aveva tutti i libri a posto, zaino firmato e tutto il resto di marca. Il bambino nero, pulitissimo, aveva pochissime cose con sé, l’essenziale per la scuola, ma era volenteroso nello studio. Comprendeva perfettamente e subito la lezione delle maestre, che insegnavano su quel modulo di classi elementari. In poche parole divenne subito il primo della classe, attirandosi, da un lato la benevolenza delle maestre, e dall’altra la gelosia del bambino biondo che poco riusciva negli studi. I dispetti quotidiani si rinnovavano ogni giorno e non solo in classe, ma anche durante l’orario del gioco all’aperto e durante la mensa. Qui scattava l’odio raziale del bambino bianco, che era stato mal educato dai genitori, perché essi non amavano per nulla i neri ed erano evidentemente persone per nulla tolleranti verso gli extracomuniari. Quel bambino biondo era cresciuto nell’odio razziale e quindi non vedeva di buon occhio la presenza dell’africano nella sua classe e per di più anche il primo in assoluto negli studi. Un giorno mentre giocavano negli spazi aperti della scuola, il bambino biondo cadde e si ruppe la gamba. Il primo a soccorrerlo fu l’africano che con parole di adulto cercava di incoraggiare e sostenere il bambino biondo nella sua sofferenza, in attesa che arrivassero i genitori e soprattutto l’autoambulanza per portarlo in ospedale. Senza farlo muovere, si accostò a lui e nel suo perfetto italiano che aveva appreso benissimo in pochi mesi, gli raccontava delle storie del suo paese d’origine, proprio quando i bambini cadevano e si facevano male e non potevano arrivare né dottore, né autoambulanza, ma solo la mamma o il padre quando c’erano ed erano capaci. A intervenire in quelle circostanze erano solo le suore missionarie o i sacerdoti missionari che in qualche modo cercavano di lenire il dolore dei piccoli e dei grandi con i pochi rimedi medici che avevano a disposizione. Di racconto in racconto, dopo quasi 10 minuti dall’incidente, arrivarono i due genitori del bambino biondo e trovano l’africano vicino al loro figlio. In un primo momento con la rabbia sul volto pensarono che fosse stato l’africano a far male al loro bambino. Il loro figlio capì dagli sguardi e nonostante il dolore che aveva in quel momento si fece avanti dicendo: “Mamma, papà, grazie a Naim sono qui a soffrire di meno. Lo ringrazio di cuore perché è stato un tesoro con me, mentre i miei compagni sono andati via per paura o per non darmi una mano”. I genitori del piccolo Alex, il bambino biondo, presero tra le braccia Naim, lo baciarono e lo ringraziarono per aver fatto compagnia al loro bambino. Nel frattempo arrivò l’autoambulanza e con tutti gli accorgimenti e la prudenza del caso il bambino fu portato in ospedale, curato ed ingessato. Dovette stare 40 giorni al letto e in casa. Ad andarlo a trovare tutti i giorni a fargli fare i compiti e a spiegare le lezioni ad Alex era Naim, l’africano, che nel colore della pelle del suo amico Alex non vedeva né il bianco, né il biondo dei capelli, né gli azzurri occhi del suo compagno, ma solo un suo caro amico al quale voleva bene. La lezione del piccolo Naim per lo stesso Alex e soprattutto per i suoi genitori fu efficace e da allora in poi, in quella famiglia il razzismo scomparve per sempre dai pensieri e dai comportamenti di quei nobili signori di un paese del Sud.

 

 

 

Il pianto del ragazzo

Era tutto solo nella chiesa della Madonna del Carmine e piangerva a dirotto, davanti al santissimo sacramento dell’altare. Da poco si era conclusa la celebrazione eucaristica, durante la quale il sacerdote, nell’omelia, aveva trattato temi importanti come l’unità della famiglia. Evidentemente il ragazzo era rimasto scosso dalle parole del predicatore e riviveva nel suo cuore il dramma dei genitori separati e rivedeva tutte le volte che tra loro due c’erano stati diverbi e come essi avevano segnato la sua psicologia. Nella chiesa vuota era rimasto il ragazzo e una suora. La quale si avvicina al giovane per chiedere: come mai piangesse. “Niente, sorella”, disse. “Voglio stare un altro poco qui davanti a Gesù, per chiedere lumi sul mio futuro”. La suora lascia il ragazzo a meditare davanti all’altare e continua a fare le sue cose, visto che alla chiesa del Carmine era annesso il monastero delle Carmelitane di vita attiva. A distanza di un’ora ritorna nella stessa chiesa per vedere se il ragazzo era ancora lì a pregare e a piangere. Con grande gioia, nota che non c’era più, era andato via. La suora si accingeva a chiudere la porta della chiesa, quando all’improvviso sopraggiunge novamente il ragazzo con le lacrime agli occhi e con un magone nel cuore.La suora sconcertata e preoccupata dello stato d’animo del ragazzo, pensando che potesse farsi del male, chiede aiuto al sacerdote che era ancora in sacrestia a svolgere il suo ministero di padre spirituale. “Padre correte –grida la suora – un giovane si sente male ed ha bisogno di voi”. Il sacerdote lascia quello che stava facendo, dice alla penitente che stava confessandosi di aspettare un attivo che sarebbe ritornato subito. Va in chiesa e si accosta al giovane che continua a piangere a dirotto. Lacrimoni cadono abbondanti dal viso del giovane. “Cosa ti è successo, ragazzo mio” chiede il sacerdote. “Nulla padre, ho bisogno di pregare, di stare davanti a Gesù Sacramentato”. Al che il sacerdote disse di rimanere li finquando voleva. Il giovane rimase ancora un’altra ora davanti al santissimo sacramento e poi usci di nuovo. Il sacerdote visto che non c’era più nessuno in chiesa, incominciò a chiudere la porta dell’ingresso, quando all’improvviso nuovamente arriva il ragazzo, che piange fortissimamente e chiede conforto al sacerdote. “Cosa è successo?”, domandò il prete. “Una cosa terribile”, padre, ho visto mia madre nella macchina di un altro uomo, che non è mio padre, che stava in atteggiamento affettuoso, per non dire altro, con questo uomo. E’ stato un colpo mortale per me. Sono corso in chiesa a pregare, perché non sapevo cosa fare in quel momento. Ho chiesto l’aiuto al Signore. Ho aspettato un’ora e sono uscito con la speranza che mia madre avesse salutato quell’uomo e fosse tornata a casa. Invece non era così. Ogni ora sono uscito, ma lei stava sempre lì. Anche in questo momento sta con quella persona. Se vuole, padre, può rendersi conto personalmente della cosa”. Al che il prete: “Ti credo figlio mio, non ho bisogno di verificare nulla. Questi fatti purtroppo capitano sempre più frequentemente ai nostri giorni. Non  ci dobbiamo rassegnare alla situazione che si è creata. Ma ti chiedo cosa possiamo fare?”. Il ragazzo, replicò subito al sacerdote. “Tanto per iniziare, non le faccia più insegnare il catechismo, visto che è una sua collaboratrice, padre. Quale messaggio di vita cristiana può dare ai ragazzi che si preparano alla cresima?”. Al che il sacerdote. “Non posso che darti ragione figlio mio. L’insegnamento della vita vale più di un anno di catechismo. Tua madre da domani in poi, se è vero quello che dici, non potrà più insegnare ai bambini e tantomeno essere credibile per quello che ti raccomanda di fare a te che sei suo figlio. Ma ti posso chiedere una cosa?, aggiunse il sacerdote. “Certo”, rispose il ragazzo. “Quando rientrerai –disse il prete- a casa e vedrai tua madre, fa finta di nulla di quello che hai visto. Aspetta che sia lei a dirti la verità, dal momento che sei l’unico figlio e l’unica persona con cui vive ufficialmente, nascondendo agli occhi degli altri la sua vera condotta di vita”. Al che il ragazzo. “E se non dovesse dirmi nulla?”. Replicò il sacerdote: “Fai una cosa semplice, evangelica, vai da lei e con un grande gesto di amore e di tenerezza, dille: mamma solo un figlio può amare sinceramente la sua mamma e sola una mamma vera può amare davvero il suo figlio”. E chiedile: “Mi vuoi ancora bene?. Se ti dice di sì sappi che sta attraversando un momento difficile della sua vita e tu come figlio devi starle vicino per recuperarla all’amore e alla famiglia”. Al che il ragazzo: “Io devo stare vicino a mia madre? Ma deve essere lei ad essere vicino a me”. Al che il sacerdote disse al ragazzo: “Chi più capisce, più comprende e patisce. Tu hai capito ora che tua madre non è quella che tu pensavi. Lei ora ha bisogno di te, più che tu di lei. Perché tu hai Gesù e sei corso da Lui in questo momento di sconforto. Lei purtroppo è corsa in braccia di un altro uomo, pensando di aver risolto i suoi problemi interiori. Non è così. Lei sta più male di te ed ha bisogno del tuo amore per uscire fuori da questa situazione di immoralità. Fammi il piacere –disse il sacerdote – ora che esci dalla chiesa e vai a casa, fa come ti ho detto e domani passa a dirmi come è andata”. Il ragazzo tornò il giorno dopo dal sacerdote, tutto felice e contento, ringraziando il padre per i buoni consigli che gli aveva dato. La mamma in quella sera stessa aveva chiamato il suo amante ed aveva detto che era finito, in quanto era più importante l’educazione dei figli che soddisfare i propri istinti e che era disonesto a svolgere il ministero di catechista, vivendo in quella situazione di immoralità, avendo ancora un marito ed un figlio, non solo sulla carta, ma ancora nel cuore. La conversione era avvenuta, frutto anche di quella preghiera e del pianto di quel ragazzo, preoccupato di perdere l’amore della mamma e la sua famiglia per sempre. La signora non tornò a fare catechismo, anzi fu lei stessa a dire al prete che non se la sentiva e svuotò il sacco di tutta la situazione personale che si era portata avanti da anni, subito dopo la nascita di quel bambino, ormai ragazzo, che tanta preoccupazione ed ansia le procurava in quanto era l’unico vero bene della sua vita. L’errore commesso richiedeva una seria purificazione e il modo per attuarlo fu quello di lasciare la parrocchia, dove la notizia in parte era risaputa, e ritarsi a pregare e a frequentare altri ambienti religiosi, ove non era conosciuta e pertanto poteva continuare a vivere la sua esperienza di fede, dopo una sincera confessione fatta al santuario della Madonna del Carmine, ai cui piedi versò tante lacrime di pentimento e di purificazione. Maria ormai si era pentita e incominciava una nuova vita, portando la gioia e il sorriso nella sua famiglia. Fece in modo che anche il marito ritornasse a casa e si ricominciasse tutti e tre insieme l’avventura della vita coniugale e familiare, nella sincerità dei rapporti interpersonali.

Mondragone. Ritiro spirituale alla Stella Maris con fedeli di Pagani (Sa)

pagani-marzo2013.jpg Domani, domenica 3 marzo 2013, circa 50 pellegrini dalle ore 9,30 alle 17,30 saranno ospiti presso la casa di spiritualità delle Suore di Gesù Redentore in Mondragone (Ce), per riflettere sul tema della fede nella vita del Beato Tommaso Maria Fusco. I gruppo di preghiera composta da bambini, giovani, adulti ed anziani proviene da Pagani (Sa), ove ogni giorno si riuniscono in orazione nel Cenacolo di preghiera, sorto presso la casa del Beato Tommaso Maria Fusco e gestito dalle Suore della Carità del Preziosissimo Sangue. A guidare la giornata di preghiera e riflessione sarà padre Antonio Rungi,  religioso passionista, che segue il gruppo da alcuni anni e ne ha curato la formazione spirituale con ritiri in loco, nella stessa struttura del cenacolo di preghiera. Ogni anno il gruppo si riunisce, in occasione della preparazione alla Pasqua in altri luoghi per un ritiro spirituale più intensivo. Ed è il caso di quello che si svolgerà domani, presso la Stella Maris di Mondragone. Alle 9,30 l’accoglienza; alle 10.00 la celebrazione delle Lodi del Mattino della III Domenica di Quaresima; alle 10,30 la meditazione sul tema della fede e conversione dettata da Padre Rungi. Alle 11,30 l’adorazione eucaristica con le confessioni. Alle 12,30 la celebrazione della santa messa domenicale con omelia. Alle 13,15 il pranzo a sacco; alle 15,00 la Via Crucis per gli spazi interni dell’Istituto. Alle 16.00 la tavola rotonda sulla vita di fede del Beato Tommaso Maria Fusco e alle 17.00 il rientro del gruppo a Pagani.

La figura del Beato Tommaso Maria Fusco è ben conosciuta a Mondragone, ove da 50 anni operano nel campo della formazione della scuola primaria le Suore Figlie della Carità del Preziosissimo Sangue e una strada è intitolata proprio al grande sacerdote paganese che dedicò la sua vita a servizio degli ultimi e dell’evangelizzazione. Infatti, in un momento storico difficile dell’Italia e del Meridione in particolare, quando le idee di libertà dalla dominazione straniera avevano fatto breccia anche negli Italiani, insorgendo con rivoluzioni e disordini, il 1° dicembre del 1831 nacque a Pagani, Tommaso Fusco. Fu ordinato Sacerdote il 22 dicembre 1855 e, fin dai primi giorni del suo sacerdozio si dedicò alla formazione dei piccoli e alla carità operosa. Parroco, direttore spirituale, predicatore, fondatore delle Suore della carità del Preziosissimo Sangue, don Tommaso Maria Fusco di dedicò soprattutto alla formazione umana, spirituale e teologica dei giovani e di quanti erano incamminati al sacerdozio. Dopo una breve vita spesa tutta per servire la causa nel Vangelo, moriva il 24 febbraio 1891, all’età di 60 anni. Fu beatificato da Giovanni Paolo il 7 ottobre 2001. Oggi le Suore delle Carità del Preziosissimo sangue continuano la sua opera in varie parti d’Italia e del mondo, compreso Mondragone, dove hanno una loro casa in Via Tommaso Maria Fusco, scuola dell’infanzia.

Ritiro spirituale – Suore Diocesi di Sessa Aurunca

RITIRO SPIRITUALE MENSILE

SUORE DELLA DIOCESI DI SESSA AURUNCA

CARINOLA –DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013

 

LA VITA CONSACRATA UN CAMMINO DI LUCE

E DI TRASFIGURAZIONE

 

Negli ultimi anni del XX secolo si è avvertita la necessità di descrivere più accuratamente l’identità dei vari stati di vita nella Chiesa: “in questi ultimi anni si è avvertita la necessità di esplicitare meglio l’identità dei vari stati di vita, la loro vocazione e la loro missione specifica nella Chiesa” (VC 4b). La risposta a tale necessità è avvenuta mediante il lavoro di tre Sinodi, i cui frutti sono stati raccolti da Giovanni Paolo II in tre Esortazioni postsinodali. Il 30 dicembre 1988 venne pubblicata l’Esortazione postsinodale sui laici “Christifideles laici”. Il 25 marzo 1992 apparve l’Esortazione postsinodale sulla formazione dei sacerdoti “Pastores dabo vobis”. Il 25 marzo 1996 è stata firmata l’Esortazione postsinodale sulle persone consacrate “Vita consecrata”. Consapevole dei deplorevoli attacchi all’identità della vita consacrata, mossi a volte persino mediante l’uso di frasi del Concilio, nell’ultima Esortazione il Papa ha voluto soprattutto illustrare la peculiare e positiva identità della vita consacrata nella Chiesa. Le riflessioni del Papa infatti si incentrano sull’identità biblica e teologica della vita consacrata.

Nel suo luminoso testo, il Papa non prende un atteggiamento di rottura con il passato. Segue, invece, una linea di continuità e di sviluppo. Segue una linea di continuità, perché presenta una identità in armonia con il Magistero del Concilio. Il Papa dichiara esplicitamente che, tanto nelle sue catechesi sistematiche sulla vita consacrata, tenute durante e dopo il Sinodo, come nella sua Esortazione, il Concilio “è stato luminoso punto di riferimento” (VC 13d). Segue anche una linea di sviluppo, perché esplicita meglio gli elementi positivi dell’identità della vita consacrata e perché intende offrire, con piena consapevolezza, una interpretazione autentica dei testi del Concilio. Ad esempio, il Papa ripropone (cfr VC 29b) l’affermazione del Concilio, secondo la quale la professione dei consigli evangelici appartiene indiscutibilmente alla vita e alla santità della Chiesa (cfr LG 44) e, respingendo le false interpretazioni, la spiega con autorità in questo modo: “Questo significa che la vita consacrata, presente fin dagli inizi, non potrà mai mancare alla Chiesa come un suo elemento irrinunciabile e qualificante, in quanto espressivo della sua stessa natura” (VC 29b).

Nella sua lettera “Novo Millennio ineunte” (6 gennaio 2001), il Papa invita i religiosi e le religiose a coltivare con cura i valori positivi della loro “speciale consacrazione” (NMI 46), attuando con rinnovato slancio il programma di “ripartire da Cristo” (NMI 29), supremo consacrato e missionario del Padre.

 

1. I più importanti documenti con cui confrontarsi

 

1) Orientamenti della costituzione dogmatica “Lumen gentium” (1964).

2) Orientamenti del decreto “Perfectae caritatis”(1965).

3) Orientamenti del motu proprio “Ecclesiae Sanctae” (1966).

4) Orientamenti dell’istruzione “Renovationis causam” (1969).

5) Orientamenti del nuovo “Messale Romano” (1970).

6) Orientamenti del “Rito della professione religiosa” (1970).

7) Orientamenti dell’Esortazione “Evangelica testificatio” (1971).

8) Orientamenti dell’Esortazione “Evangelii nuntiandi”.(1975).

9) Orientamenti del documento “Mutuae relationes” (1978).

10) Orientamenti di Giovanni Paolo II nei primi anni del suo pontificato (1978-1980).

11) Orientamenti del documento “Religiosi e Promozione umana” (1980).

12) Orientamenti del documento “Dimensione contemplativa della vita religiosa” (1980).

13) Orientamenti del documento sulla pastorale delle vocazioni (1982).

14) Orientamenti del nuovo “Codice di Diritto Canonico” (1983).

15) Orientamenti dell’istruzione “Elementi essenziali” (1983).

16) Orientamenti dell.’Esortazione “Redemptionis donum” (1984).

17) Orientamenti del messaggio di Giovanni Paolo II ai Religiosi e alle Religiose del Brasile (1986).

18) Orientamenti di Giovanni Paolo II nel discorso all’USMI (1988)

19) Orientamenti della lettera a tutte le persone consacrate (1988)

20) Orientamenti dell’istruzione “Potissimum institutioni” (1990).

21) Orientamenti della lettera di Giovanni Paolo Il ai Religiosi e alle Religiose dell’America Latina (1990).

22) Orientamenti dell’Enciclica “Redemptoris missio” (1990).

23) Orientamenti del documento sulla pastorale delle vocazioni (1992).

24) Orientamenti del nuovo “Catechismo della Chiesa Cattolica” (1992).

25) Orientamenti dell’istruzione “La vita fraterna in comunità” (1994).

26) Orientamenti di Giovanni Paolo II delle catechesi in occasione del Sinodo sulla vita consacrata (1994-1995).

27) Orientamenti dell’Esortazione “Vita consecrata” (1996).

28) Orientamenti del messaggio di Giovanni Paolo II per la celebrazione della Giornata della vita consacrata (1997).

29) Orientamenti dell’istruzione “La collaborazione inter-Istituti per la formazione” (1998).

30) Orientamenti di Giovanni Paolo II nel Giubileo della vita consacrata (2000).

31) Orientamenti della lettera “Novo millennio ineunte” (2001).

 

 

 

2. Vita di speciale configurazione a Cristo

 

La vita consacrata deve essere innanzitutto una presenza viva di Cristo nel mondo: “Veramente la vita consacrata costituisce memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato” (n. 22c). Questa è la nota più caratteristica, sia tra i cristiani sia tra i non cristiani: “Le persone consacrate, infatti, hanno il compito di rendere presente anche tra i non cristiani (cfr LG 46; EN 69) il Cristo casto, povero, obbediente, orante e missionario” (n. 77).

Nella linea dell’inizio del capitolo VI della costituzione “Lumen gentium”, ma con una esplicitazione trinitaria, dobbiamo affermare: “La vita consacrata, profondamente radicata negli esempi e negli insegnamenti di Cristo Signore, è un dono di Dio Padre alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito. Con la professione dei consigli evangelici i tratti caratteristici di Gesù – vergine, povero ed obbediente – acquistano una tipica e permanente “visibilità” in mezzo al mondo” (n. 1a). Per illustrare il rapporto biblico e teologico esistente tra la vita consacrata e la vita di Cristo, l’Esortazione predilige il linguaggio diretto e positivo, presente anche nei testi del Concilio: “La vita consacrata (…) rappresenta nella Chiesa (…) la forma di vita che Gesù supremo consacrato e missionario del Padre per il suo Regno, ha abbracciato” (n. 22a). Nella vita consacrata si abbraccia la proposta di una esistenza “cristiforme” (n. 14b), che richiede “l’adesione conformativa a Cristo dell’intera esistenza” (n. 16b). L’aspirazione della persona consacrata “è di immedesimarsi con Lui, assumendone i sentimenti e la forma di vita” – (n. 18b), con “il desiderio esplicito di totale conformazione a Lui” (n. 18c). Il supremo desiderio dei religiosi e delle religiose deve essere quindi quello di diventare “persone cristiformi” (n. 19b). Questa identità biblica e teologica determina la natura della formazione, che deve avere la configurazione a Cristo come il suo obiettivo centrale: “Dal momento che il fine della vita consacrata consiste nella configurazione al Signore Gesù e alla sua oblazione, è soprattutto a questo che deve mirare la formazione. Si tratta di un itinerario di progressiva assimilazione dei sentimenti di Cristo verso il Padre” (n. 65b). Volendo, tuttavia, sottolineare che non intende negare agli altri cristiani l’elemento di una comune, battesimale e fondamentale configurazione a Cristo, l’Esortazione usa alle volte il linguaggio caratterizzante della formula “più”, presente anche nei testi del Concilio: la vita consacrata “più fedelmente imita” (n. 22a) la forma di vita di Gesù, e ne è “una conformazione più compiutamente espressa e realizzata” (n. 30a). Sempre per lo stesso motivo, l’Esortazione, come il Concilio, indica che quella della vita consacrata è una “speciale conformazione a Cristo” (n. 3ld). Questa caratteristica della speciale configurazione a Cristo si riferisce tanto alla figura biblica di Cristo come “supremo consacrato (…) del Padre” (n. 22a), quanto alla sua figura di “Apostolo del Padre” (n. 9b) o “supremo missionario del Padre” (n. 22a). Perciò il senso biblico e teologico della “nuova e speciale consacrazione” (nn. 30t; 3ld) e della “speciale missione” (n. 17a) delle persone consacrate è una caratteristica soprattutto cristologica.

 

3. Vita di speciale comunione di amore col Padre

 

Il religioso e la religiosa sono legati alla Trinità non solo a causa della grazia santificante e dei doni ricevuti nel battesimo, ma anche a motivo della “grazia della vocazione” (n. 64b). Essi, infatti, ricevono una “grazia di (…) speciale comunione di amore con Cristo” (n. 15c), che è anche grazia di speciale comunione di amore col Padre. All’origine della “speciale grazia di intimità” (n. 16a), con cui Cristo chiama alcune persone alla vita di speciale sequela, “sta sempre l’iniziativa del Padre” (n. 14b), “sorgente dell’amore” (n. 111b),”che attrae a sé (cfr Gv 6, 44) una sua creatura con uno speciale amore e in vista di una speciale missione” (n. 17a). “L’esperienza di questo amore gratuito di Dio è a tal punto intima e forte che la persona consacrata avverte di dover rispondere con la dedizione incondizionata della sua vita, consacrando tutto, presente e futuro, nelle sue mani” (n. 17a). Per questo la vita consacrata “è annuncio di ciò che il Padre compie con il suo amore, la sua bontà, la sua bellezza” (n.

20a).

La vita consacrata ha una “triplice relazione” (n. 36f), un “triplice orientamento: verso il Padre, innanzitutto” (n. 36e). Dato che la vita consacrata “realizza a titolo speciale quella confessio Trinitatis che caratterizza l’intera vita cristiana” (n. 2la), tale confessione deve essere rivolta verso il Padre, innanzitutto . La persona consacrata deve rendersi conto che Dio Padre è anche il suo più alto formatore, perché “Dio Padre (…) è il formatore per eccellenza di chi si consacra a Lui” (n. 66a; cfr nn.70fg). Il Padre è l’agente più determinante di tutta l’opera della formazione, l’agente divino che “plasma nel cuore dei giovani e delle giovani i sentimenti del Figlio” (n. 66a). Come Cristo, che durante tutta la sua esistenza terrena si lasciò formare dal Padre vivendo sempre “in atteggiamento di docilità al Padre” (n. 22b), le persone consacrate, “docili alla chiamata del Padre” (n. 1b), debbono ininterrottamente lasciarsi plasmare dallo stesso Padre.

La vocazione alla vita religiosa è una “chiamata del Padre” (n. 1b), “un’iniziativa tutta del Padre” (n. 17b). La rivelazione (cfr Gv 17, 11) presenta il Padre come “Padre Santo” (n. 111b) e ci fa “scoprire nell’iniziativa del Padre, fonte di ogni santità, la sorgente originaria della vita consacrata” (n. 22a). Il Padre è “prima origine e scopo supremo della vita consacrata” (n. 2le). Perciò alle decisive domande “da dove vieni?” e “dove vai?”, il religioso e la religiosa possono rispondere: “A Patre ad Patrem” (n.17t), “dal Padre al Padre”, cioè dalla “sublime bellezza di Dio Padre” (n.16d) alla gloriosa “casa del Padre” (n. 52b).

 

4. Vita di speciale comunione di amore con lo Spirito Santo

 

La persona consacrata ha un peculiare rapporto con la Trinità (cfr nn. 14b; 16d; 2la). Come abbiamo detto, la persona consacrata riceve una “grazia di (… ) speciale comunione di amore con Cristo” (n. 15c), che è necessariamente anche grazia di speciale comunione di amore col Padre (cfr n. 17a). Il doveroso rispetto dell’armonia trinitaria, ci. obbliga a pensare che tale grazia è anche grazia di speciale comunione di amore con lo Spirito Santo.

Ogni cristiano riceve dallo “Spirito Santo e santificante” (n. 95b) la grazia sacramentale e i doni del battesimo. Il religioso e la religiosa, tuttavia, ricevono dallo stesso Spirito uno specifico dono: “A questa chiamata corrisponde, peraltro, uno specifico dono dello Spirito Santo, affinché la persona consacrata possa rispondere alla sua vocazione e alla sua missione” (n. 30c).

Si tratta di “un particolare dono dello Spirito, che apre a nuove possibilità e frutti di santità e di apostolato” (n. 30d). Ai religiosi e alle religiose, quindi, viene offerto un peculiare dono, che ha la forza di trasformarli in “persone cristiformi” (n. 19b): “Una tale esistenza “cristiforme”, proposta a tanti battezzati lungo la storia, è possibile solo sulla base di una peculiare vocazione e in forza di un peculiare dono dello Spirito” (n. 14b). In questo modo la speciale sequela di Cristo ha anche “una connotazione essenzialmente (… ) pneumatologica” (n. 14b).

I religiosi e le religiose debbono coltivare “in modo particolarmente vivo” (n. 14b) insieme all’orientamento “verso il Padre” (n. 36c) e all’orientamento “verso il Figlio” (n. 36d), l’ “orientamento verso lo Spirito Santo” (n. 36e). Mai si può dimenticare che “la chiamata alla vita consacrata è in intima relazione con l’opera dello Spirito Santo” (n. 19b): “E’ lo Spirito che suscita il desiderio di una risposta piena; è Lui che guida la crescita di tale desiderio (…); è Lui che forma e plasma l’animo dei chiamati, configurandoli a Cristo casto, povero e obbediente e spingendoli a far propria la sua missione” (n. 19b). Alimentando “la fedeltà allo Spirito Santo” (n. 62g), coltivando con speciale cura la “vita nello Spirito” (n. 71b), i religiosi e le religiose saranno veramente fedeli alla “propria identità” (n. 71b) e raggiungeranno “una serenità profonda” (n. 71b). Lo Spirito farà gustare loro la sua “amicizia” (n. 111d), le riempirà della sua “gioia” (n. 111d) e del suo “conforto” (n.111d), e le renderà “specchio della bellezza divina” (n. 111d).

 

5. Vita di speciale configurazione alla Vergine Maria

 

Il mistero della vita religiosa, visto alla luce della vita evangelica della Vergine Maria, acquista un nuovo splendore. In effetti, come conferma l’Esortazione, Maria “è esempio sublime di perfetta consacrazione, nella piena appartenenza e totale dedizione a Dio” (n. 28b). Perciò “la vita consacrata guarda a Lei come a modello sublime di consacrazione al Padre, di unione col Figlio e di docilità allo Spirito, nella consapevolezza che aderire “al genere di vita verginale e povera” (LG 46) di Cristo significa far proprio anche il genere di vita di Maria” (n. 28c). Tutte le persone consacrate sono chiamate a coltivare con maggiore chiaroveggenza il valore mariano della loro vita spirituale: la presenza di Maria ha “un’importanza fondamentale sia per la vita

spirituale di ogni singola anima consacrata, sia per la consistenza, l’unità, il progresso di tutta la comunità” (n. 28a). Maria è modello di vita consacrata: “pronta nell’obbedienza, coraggiosa nella povertà, accogliente nella verginità feconda” (n. 112c). Maria è maestra nel pregare (cfr n. 34b), nel “proclamare le meraviglie” (n. 112b) del Signore, nel “portare Gesù” (n. 112b) e nell’unione al Cristo sofferente (cfr n. 23c).

L’Esortazione invita esplicitamente a fare un approfondimento biblico sulla dimensione mariana della vita consacrata, meditando assiduamente “le parole e gli esempi (… ) della Vergine Maria” (n. 94a). “Ogni missione inizia con lo stesso atteggiamento espresso da Maria nell’annunciazione: ‘Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto’ (Lc 1, 38)” (n. 18d). La comunione della persona consacrata con la Vergine Maria è una speciale comunione di amore: “Nella Vergine la persona consacrata incontra (… ) una Madre a titolo del tutto speciale” (n. 28d). Alla “speciale tenerezza materna” (n. 28d) di Maria, la persona consacrata risponde “amandola e imitandola con la radicalità propria della sua vocazione” (n. 28d).

I miei ultimi racconti su Papa Benedetto XVI

 

Ipapabenedettoaddio1.pngl pellegrino vestito di bianco

 

Dopo un breve viaggio dalla sua casa per otto anni, nel suo trasferimento alla provvisoria residenza non molto lontana dalla città eterna, tutto il mondo seguì il suo viaggio nel cielo, in un elicottero color bianco, come bianca era la sua veste e bianco il suo candore di padre e pastore. Tante lagrime sugli occhi di milioni di persone incollate alla televisione per accompagnare il nuovo pellegrino in veste bianca, verso il riposo momentaneo, in attesa del nuovo papa. Da quel balcone della sua residenza estiva dove si era affacciato tante volte, questa volta si affacciò di nuovo parlando brevemente, ma con commozione, dicendo con la sincerità e la semplictà di sempre, che quello era un giorno diverso per lui. Non un giorno come gli altri, come tanti trascorsi in quel luogo o nel colle del Vaticano. Era il giorno del suo ritiro in preghiera, avendo lasciato il ministero petrino per amore della chiesa. E il suo saluto non fu prolisso, ma con poche parole disse di se stesso ciò che sarebbe stato di lì a poco: un pellegrino che deve percorrere l’ultimo tratto della sua vita. Fu l’ultimo incisivo messaggio, twitter del suo pontificato che sintetizzava tutta la sua statura morale, spirituale e pastorale. In quella espressione disse cosa lo attendeva per il suo futuro, di fronte a chi per giorni si era interrogato come sarebbe stato il suo pensionamento, il suo definitivo ritiro dalla scena pubblica per esclusivi raggiunti limiti di età e di problemi di vigore fisico che non c’era più proprio in ragione dell’età. Lui con semplicità dipinse come un vero grande artista, dalle poche parole, ma incisivo, tutto il suo futuro viaggio, come un semplice pellegrino. Aveva iniziato con il dire che era un semplice operaio nella vigna del Signore e salutava l’immenso popolo che lo aveva seguito e non solo nel giorno dell’addio con la parola del pellegrino. Come tanti pellegrini di questa terra che hanno la coscienza che il viaggio si accorcia sempre di più per avvicanarsi ad un traguardo più importante ed una meta più sicura che è l’eternità. Le lacrime del popolo in preghiera non furono versate vanamente per quel singolare pellegrino vestito di bianco che con il semplice bastone della vecchiata e non più con il pastorale stava vicino al suo popolo in modo diversa, ma altrettanto importante per il bene della chiesa e dell’umanità. Quel pellegrino lo contuiamo a immaginare nelle sue brevi passeggiate nella residenza estiva e poi in quella della su definitiva dimora in attesa di quel giorno del Signore, che forse, nelle ultime parole, aveva fatto intravvedere come imminente, convinto come era che passa la scena di questo mondo e davanti allo scorrere del tempo e degli anni c’è solo di attendere con la preghiera l’eternità. Quel pellegrino con la veste bianca continuò a viaggare con noi, si fece compagno di viaggio con la preghiera e con la parola, proprio come Gesù con i discepoli di Emmaus. E noi lo sentimmo sempre vicino, perché la sua lezione di vita fu talmente incisiva che non c’è più bisogno che parlasse e scrivesse, comunicasse con il mondo intero, perché quello che doveva dire e doveva fare, l’aveva fatto nonostante i propri limiti, confidando solamente in Dio e apprezzando ogni gesto di amore di ogni fratello e comprendendo nell’amore la debolezza e la fragilità di tanti uomini, anche più vicini e stretti a lui come collaboratori.

 

I bambini del Papa

 

Quello fu l’ultimo giorno in cui il Papa accoglieva, come al solito, i fedeli nell’udienza generale del mercoledì. Era l’ulltima volta che avrebbe parlato direttamente al popolo, con lo stesso cuore di padre e pastore nel cui cuore c’erano tutti. La sua papamobile attraversava, prima e dopo la riflessione fatta nella Piazza più nota del mondo, due ali di folla che solo le transenne e i gendarmi riuscivano a contenere per il desiderio di toccarlo e di stingergli la mano per l’ultima volta da Papa in servizio. Non era possibile perché gli agenti della di sicurezza non permettevano a nessuno di avvicinarsi a lui, dopo tanti fatti che erano successi proprio in quella piazza.

Ma nel suo lento procedere, il Papa, dall’auto bianca, benediceva tutti e sorrideva a tutti, guardava all’immenso popolo,che era venuto nella città eterna, dalla stessa Roma e dai mille paesi dell’amata e cara Italia, ma anche da varie nazioni per dargli l’estremo saluto da vivo e non da morto come era successo per secoli e millenni, perché aveva rassegnato le dimissioni, nelle piene facoltà di intendere e di volere e ben cosciente della grave decisione che aveva assunto, fatto unico nella bimillenaria storia di quella singolare istituzione ecclesiastica

Il Papa non è mai solo, il Papa non lascia mai la chiesa, la porta con sé ovunque e sempre egli sta e agisce da solo o in comunione con gli altri. Il Papa è di tutti e tutti sono del Papa. Il Papa continua a stare sulla Croce, ma in modo diverso; infatti sta ai piedi del Crocifisso per pregare e chiedere perdono. Quel giorno, diversamente da tutti gli altri, che avevano caratterizzato il suo breve pontificato, aveva il sapore del dolore, ma anche della speranza. Ci mancherai, non ti lasceremo mai, sei sempre con noi si leggeva sui mille cartelli e striscioni portati in quella piazza che abbraccia tutto il mondo ed è il cuore del mondo. Ecco che mentre la papamobile viaggiava, erano tante le mamme che chiedendo al personale della sicurezza di prendere i loro bambini e portarli dal Papa per farli benedire. Non si contarono quanti furono in quel giorno i bambini che il Papa accolse tra le sue braccia, che baciò con tenero affetto di padre e nonno per poi restituirli immeditamente ai genitori. La gioia immensa delle mamme e dei papà che per l’ulltima volta, nello storico incontro finale tra il successore di Pietro e i fedeli autentici della Chiesa, vedevano il papa Benedetto e avevano la benedizione finale per i bambini appena nati o di pochi mesi. Fu quello un giorno speciale, prima di ritararsi definitivamente dall’ufficio di Romano Pontefice, per stringere tra le sue braccia i tanti bambini del mondo intero. Quei bambini angeli in terra che davano la gioia e il conforto al papa che lasciava la scena di questo mondo per ritirarsi in preghiera e a  vita privata. Quei bambini del Papa entrati nel cuore di questo saggio pastore che per la difesa di essi aveva fatto pulizia e chiarezza nella chiesa, condannando apertamente ciò che indegno di ogni essere umano e soprattutto di ogni persona che si consacra a Dio nella pluralità dei ministeri, ruoli ed uffici nella chiesa. Quei bambini abbracciati dal purezza di quelle mani sante erano la garanzia che nella chiesa una storica pagina era stata voltata, e non perché il Papa avaeva liberamente rassegnato le dimissioni, ma perché un’era nuova per la chiesa e l’umanità iniziava proprio in quell’ora. I bambini del Papa nella loro innocenza e purezza, nella loro semplicità ed essenzialità riportavano il cuore e la mente di quanti amavano Cristo e il suo vangelo, proprio ai gesti del Messia durante il suo ministero pubblico quando si rivolgeva ai suoi apostoli, alquanto infastiditi dalla presenza dei piccoli, che andassero da Lui, perché il Regno di Dio è fatto per loro e per quanti vivono come loro, nella sincerità e purezza della propria esistenza. Dopo quell’ultimo incontro con il popolo acclamente e riconoscente per il lavoro che quel santo Padre aveva fatto in tanti anni, si ritirò in silenzio e solo pochi privilegiati ebbero negli anni futuri la gioia di continuare ad incontrarlo e a dialogare con lui, partendo da un punto fermo per lui e per tutti: la preghiera e la meditazione, che eleva la mente ed il cuore al Signore e nel Signore attingere la forza per essere vicino ad ogni sofferenza dei fratelli e del mondo intero. Quel Papa fu per la prima volta appellato come “emerito”, per non usare il Papa “in pensione”, in quanto egli continuava a pregare, come tanti santi, ai piedi della croce per tutta la Chiesa che aveva servito nel minitero petrino e per i bisogni dell’umanità. In quella sua santa ed elevata preghiera un posto speciale occupavano i bambini, soprattutto quelli più afflitti e derelitti. Il Papa dei bambini continuò ad esserlo anche tra le mura del monastero dove si era ritirato per pregare e servire diversamente Dio e la Chiesa, continuamente immerso nei divini misteri e sempre attento alle necessità della barca di Pietro, che ora era guidata da un altro comandante, e dalla cui stanza dei comandi non era mai sceso il divino Maestro, perché la nave appartiene solo a Lui, vero proprietario di tutta la barca, dell’equipaggio e dei passeggeri in cammino verso i pascoli eterni..

 

L’anziano eremita

 

Da molto tempo aveva deciso di ritarsi tutto soletto su un alto monte a pregare il Signore perché lo liberasse dal peso delle fatiche che quotidianamente doveva sostenere per il bene dei suoi fratelli.

Un giorno decise di farlo nell’assoluta libertà, lasciando interdetti quelli di casa e quanti avevano sperato in lui per continuare a lavorare negli stessi uffici e negli stessi ruoli.

L’età avanzata, la salute precaria, l’antico desiderio di farsi frate, la nostalgia di una vita contemplativa spinsero l’anziano signore a lasciare ogni cosa e ritarsi in contemplazione.

Lasciò la sua vecchia abitazione che aveva occupato per ragioni d’ufficio solo per 8 anni, prendendo possesso di un antico monastero, sistemato per lui, alla meglio, perché oltre che a pregare, potesse continuare a fare le cose a cui si era dedicato da una vita.

Era felice di aver fatto una scelta così radicale e forte, perché avvertiva nel suo cuore di padre, e per certi versi nonno, che solo immergendosi totalmente nella preghiera si è più vicino ai vicini e ai lontani, più di quanto possa assicurare la vicinanza fisica e materiale.

Il giorno in cui per la prima volta si sentì davvero libero nel profondo del suo cuore, senza preoccupazioni per salvaguardare la dottrina e poi l’ufficio, gli sprizzavano gli occhi dalla gioia di aver visto il Signore.

Anche lui, come i tre apostoli con Gesù, era salito sul monte Tabor e da lì contemplava meglio il volto di Dio mediante la preghiera dalla sera alla mattina.

Non sentiva nostalgia di nulla e di nessuno, perché la sua vera nostagia era quella di Dio e una volta compensata tale nostalgia il suo volto e il suo viso ringiovanirono.

Anche la salute migliorò per l’anziano eremita, non dovendo sottoporsi a stress continui per gestire l’ufficio al meglio e dare sicurezza e garanzia su molti versi.

Passavano così le giornate nel suo eremo spirituale, su uno dei colli più rinomati e conosciuti della zona, dove spesso la gente accorreva per trovare ristoro e refrigerio alle loro anime perse e senza mete.

L’anziano eremita non poteva vedere nessuno e né incontrare nessuno, non perché non lo potesse fare, ma perché così aveva liberamente scelto di fare, in quanto stando lontano dal mondo, stava più a contatto con nostro Signore e con lo stesso mondo.

A Gesù, buon Pastore, si rivolgeva per pregare per quanti si affidavano a lui nella preghiera. E lui tutti poneva sull’altare, quando celebrare l’eucaristia quotidiana, assistito dal suo segretario personale e da alcune amabilisse suore, che nulla facevano mancare al saggio eremita di quel monastero singolare.

L’eremita si nutriva di poche cose, faceva penitenza, faceva silenzio, studiava, suonava, passeggiava e nei suoi lunghi passeggi mattutini e serali contava i passi che lo distanziavano dall’eternità. Vestiva di un semplice abito bianco in ricordo della sua veste battesimale.

Tutto immerso nella meditazione dei divini misteri, cosciente della valenza e dell’attualità dei novissimi, quali la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso, non considereva ipotesi plausibile una fine lontana della sua vita, ma preparato orami ad incontrare Dio, ogni giorno allargava sempre di più il suo pensiero sull’orizzonte dell’eternità, mentre il tempo scorreva inesorabilmente sul mondo.

Anche il giorno del suo abbandono, in cui tutti piansero per aver lasciato l’incarico, lo rileggeva nell’ottica della gioia e della speranza per il mondo, perché da quel giorno l’anziano eremita pregava continuamente Iddio per la sua gente e per quanti credevano fermamente in un mondo diverso. Un mondo senza protagonismi di nessun genere, ma solo con il desiderio di esercitarsi nell’umiltà, quella virtù morale che è capace di cambiare il mondo in un solo istante.

Non si era separato dal mondo, ma vi era più vicino con la preghiera autentica di un eremita saggio, santo ed intelligente.