DOMENICA

P.RUNGI. QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA- 31 MARZO 2019

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QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

DOMENICA 31 MARZO 2019

CON L’ UMILTA’ DEL CUORE CHIEDIAMO PERDONO E RICOMINCIAMO

Commento di padre Antonio Rungi

Con la quarta domenica di Quaresima, detta della letizia entriamo nel vivo del cammino di conversione verso l’annuale Pasqua di morte e risurrezione di Cristo, ma anche della nostra risurrezione spirituale in Cristo, mediante la gioia di ritornare al Lui con tutto il cuore, pentiti, come il figliol prodigo del Vangelo di questa domenica. Si tratta di un cammino spirituale ed interiore al quale nessuno di noi può sottrarsi. Ci obbliga il nostro essere battezzati e il nostro essere consacrati alla passione, morte e risurrezione di Cristo.

Questo cammino, spero, che ognuno di voi l’abbia intrapreso da tempo. Siccome i avvicina la Pasqua 2019, se questo cammino di ritorno non è neppure iniziato, sia questo il momento favorevole per farlo, in quanto Dio ci attende a braccia aperte, fin quando non ritorniamo a Lui, come ci ricorda sant’Agostino, in una delle sue più celebri aforismi: O Signore, il mio cuore è inquieto, finché non riposa in Te”. Facciamo riposare questo nostro travagliato, agitato ed afflitto cuore nella bontà e nella tenerezza di Dio, che si fa misericordia e si fa dono per tutti noi, peccatori sinceramente pentiti e riconoscenti a Dio. Prendiamo ad esempio il pentimento del figlio prodigo che ritorna al Padre e chiede di essere nuovamente accolto nel suo cuore e nella sua casa, cioè nella sua misericordia e nella sua chiesa.

Il figliol prodigo che va via dalla casa del Padre è il peccatore che esce dalla comunione con Dio e rompe ogni legame con il Signore, in attesa del ripensamento e del ritorno.

Dio non si stanca di aspettare, fino all’ultimo istante questo ritorno al piena comunione con lui nella grazia nell’amicizia.

E lui ci attende non solo sull’uscio della chiesa, per dargli il perdono qui su questa terra, mediante il sacramento della confessione; ma lo attende sull’ingresso del paradiso, per donargli la felicità senza fine. E’ tempo di ritorno e non possiamo più attendere per convertirci tutti a Dio,

Sta a noi entrare in questo cammino di ritorno a Dio da celebrare continuamente con una forte comunione di grazia e in grazia con Lui.

Il modo per farlo è mettersi nella condizione di quel che realmente siamo: peccatori e perciò bisognosi di perdono e di misericordia di Dio.

Non illudiamo noi stessi e gli altri: siamo tutti peccatori e perciò stesso abbiamo bisogno del suo perdono.

Quel Padre attende con pazienza, ma spera sempre che il ritorno inizi davvero e lo fa scrutando l’orizzonte della storia e del mondo, scrutando l’orizzonte del nostro cuore, spesso privo di quel rosso di sera, che fa ben sperare per l’alba e l’inizio di un nuovo giorno pieno di sole e di grazia del Signore.

Facciamo nostre le parole del figlio pentito: “Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre”.

Ci vogliamo rialzare dalla nostra debolezza interiore, frutto di una mancato assorbimento dei nutrienti essenziali alla vita dello spirito, che sono la preghiera, la penitenza e la carità sincera.

Non bisogna crogiolarsi nei peccati; anzi bisogna riemergere da essi prima che sia troppo tardi, prima che si abbia toccato il fondo del disastro morale più grave.

Non dobbiamo attendere i tempi del figliol prodigo per rinsavire dalle nostre condotte non buone e immorali, oltre che malvagie. Sia ricorrente questa preghiera del cuore, che ci sprona alla conversione: “O Padre, che per mezzo del tuo Figlio operi mirabilmente la nostra redenzione, concedi al popolo cristiano di affrettarsi con fede viva e generoso impegno verso la Pasqua ormai vicina”.

E non diciamo mai, e poi mai: io sono senza peccato. Che peccato faccio o posso fare? Non dimentichiamo che nessuno di noi è senza peccato e come tali non possiamo giudicare gli altri o scagliare la pietra della condanna che uccide anche i sinceramente pentiti.

Nel cammino verso la Pasqua, ci incoraggi quanto scrive Giosuè nel suo Libro, in merito al popolo eletto: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». La celebrazione della Pasqua a

Gàlgala al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico fu motivo per andare avanti nel cammino dell’esodo. Infatti, il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan”. Dio premia sempre la buona volontà di ogni uomo della terra. D’altra parte nel brano della seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi, ci vengono ricordati alcuni concetti teologici di base: se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Siamo, dunque, ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Noi siamo i portavoce  di Dio, i trombettieri dell’Altissimo, i maestri di musica divina che fanno cantare perfettamente i coristi di quanti credono in Dio. Facciamo sì che questa gioia di vivere e testimoniare il vangelo arrivi attraverso di noi ai nostri fratelli vicini e lontani.

 

P.RUNGI. COMMENTO ALLA SESTA DOMENICA DEL T.O. 17 FEBBRAIO 2019

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VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

Domenica 17 febbraio 2019

Noi benedizione di Dio

Commento di padre Antonio Rungi

La sesta domenica del tempo ordinario ci parla di benedizione e di maledizione, di beatitudini e di guai, di morte e risurrezione.

Le tre letture bibliche con il salmo, partendo dal profeta Geremia è un gioco di opposti, di termini antitetici che ci aiutano a capire dove sta il bene e dove sta il male da evitare sempre e senza mai accondiscendere ad esso.

Attraverso la voce del profeta Geremia, il Signore dichiara “benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia”. Tale uomo, usando un’immagine cara all’ecologia umana e contemporanea “è come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi”. Questo uomo benedetto e protetto da Dio “nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti”. In poche parole, non inaridisce mai spiritualmente, ma è sempre alimentato dalla grazia, che è benessere spirituale per l’anima. Al contrario chi è a rischio di aridità spirituale e umana “è l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore”. Tale persona autoreferenziale e sganciato da ogni riferimento con l’assoluto e l’eterno “sarà come un tamarisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere”. In altri termini, sarà una persona sola e abbandonata a se stessa, nell’assoluta condizione di emarginazione e di improduttività del cuore, incapace come è di vedere e fare il bene.

Anche il salmista afferma che è “beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte”.

Questo primo Salmo sostiene che l’essere umano, spiritualmente elevato, è “come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene”. All’opposto di questi esseri buoni, ci sono i malvagi, “che come pula che il vento disperde”, non hanno speranza e futuro. Infatti, ci ricorda questo salmo che “il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”. Per chi comprende questa lezione di vita e di spirito si regola di conseguenza e si pone totalmente nelle mani di Dio e a Lui solo si rivolge per chiedere aiuto.

Anche l’Apostolo Paolo, nel brano della seconda lettura di oggi ci pone di fronte al dilemma della vita e della morte, partendo dal mistero della morte e risurrezione di Cristo. Infatti, se annunciamo, come è vero, che “Cristo è risorto dai morti, come possiamo poi dire che non c’ è risurrezione dei morti?”. In poche parole, non si può assolutamente dubitare di questa verità di fede fondamentale per il nostro credo. Conclude, san Paolo, dopo, uno stringato ragionamento che “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”.

Da parte sua, il testo del Vangelo di Luca, ci offre ulteriori spunti di meditazione tra il bene e il male, tra il positivo e il negativo, tra la gioia e la sofferenza, tra la beatitudine cristiana e i guai tipici degli esseri umani che confidano solo nella ricchezza, nella potenza economica, nella soddisfazione dei piaceri della carne e del mondo, senza curare il vero benessere spirituale.

I guai annunziati da Cristo per coloro che, a conclusione della loro vita, dovranno, come tutti, rendere conto a Dio, riguardano i ricchi, perché hanno già ricevuto la loro consolazione; i sazi, che hanno pensato a riempire il ventre e lo stomaco, ma non  il cuore e la mente per fare il bene; guai anche a coloro che ridono della vita e degli altri, senza prendere in considerazione la sofferenza altrui e il dolore dei fratelli più deboli e fragili della terra, perché per questi falsi gaudenti arriverà il dolore e il pianto eterno. Chiaro riferimento, come per tutti gli altri, della condanna eterna. Guai pure agli esaltati e per quanti pensano di essere perfetti e cercano solo apprezzamenti e consensi. La fine di costoro sarà la stessa dei falsi profeti, esclusi e ripudiati, messi da parte dalla storia e dalla verità dei fatti. Per queste ed altre categorie di persone negative, nella prospettiva della parola di Dio e del Vangelo, c’è solo da pregare per la loro conversione e saper ringraziare Iddio, perché ancora oggi manda a noi dei santi, dei saggi e dei veri testimoni del Vangelo.

Per cui, legittimamente e con cuore e mente rivolti al cielo, possiamo pregare così, con tutta la comunità cristiana, in questo santo giorno: “O Dio, che respingi i superbi e doni la tua grazia agli umili, ascolta il grido dei poveri e degli oppressi che si leva a te da ogni parte della terra: spezza il giogo della violenza e dell’egoismo che ci rende estranei gli uni agli altri, e fa’ che accogliendoci a vicenda come fratelli diventiamo segno dell’umanità rinnovata nel tuo amore”. Amen.

 

P.RUNGI. LA RIFLESSIONE PER LA QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 10 FEBBRAIO 2019

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V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Domenica 10 febbraio 2019

Ecco, Signore, manda me per annunciare il tuo Vangelo.

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa quinta domenica del tempo ordinario ci aiuta a discernere bene la nostra vocazione cristiana e la nostra vocazione missionaria.

Tutti, in base al Battesimo, siamo inviati ad essere portatori della buona notizia del Vangelo, secondo il proprio stato di vita, dal semplice fedele laico, che vive nel mondo e a contatto con le cose del mondo, ai sacerdoti e religiosi, ai vescovi.

Tutti oggi veniamo interpellati dalla parola di Dio in merito all’impegno di essere profeti in mezzo al popolo, portando la gioia e la speranza nel cuore di ogni persona.

Nella prima lettura di oggi, il profeta Isaia racconta e descrive la sua chiamata ad essere profeta delle nazioni.

In una visione, di cui ce ne descrive i particolari, ci indica il contenuto stesso della sua chiamata ad essere profeta. “Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali».

Al canto solenne del Santo fatto dai Serafini, “vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo”.

A questo punto il profeta si sente perduto e non si scorge degno ed adeguato alla missione alla quale è chiamato: “un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito”.

Continua la visione e Isaia descrive ciò che accadde subito dopo: “Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato».

La purificazione del cuore e delle labbra del profeta è ormai completata e lui può svolgere, ora, il suo compito e la sua missione.

Infatti, Isaia “udii la voce del Signore che gli diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». Non c’era disponibilità ad assumere questo difficile compito. Allora il profeta rispose: «Eccomi, manda me!».

Inizia così l’avventura profetica di Isaia a servizio della parola di Dio e annunciatore della volontà di Dio in mezzo ad un popolo dalle labbra impure.

Alla prima lettura di questa domenica gli fa eco il Vangelo di Luca che parla della missione della sequela di Cristo. In questo brano si racconta della pesca miracolosa e della successiva chiamata di Pietro e degli Apostoli a seguire Gesù. Sono citati, infatti, questi due eventi importanti riguardanti Gesù e i suoi discepoli per riportare all’attenzione di chi legge ed ascolta la potenza dell’amore di Cristo sulle persone disponibili e docili a seguirlo.

Un gruppetto di pescatori delusi da una notte intera di inutile fatica di una pesca infruttuosa, con l’intervento di Gesù si rimette in moto e riparte proprio da lì, dove si era fermato. Gesù, infatti, chiede a Pietro di fare tre cose: di scostarsi dalla riva e di buttare nuovamente le reti in mare; di non avere paura, promettendogli che sarà, da ora in poi, un pescatore di uomini e non più di pesci. E così, convito da Gesù. Pietro si affida totalmente a Lui: “Va bene, Maestro, sulla tua parola getterò le reti”.

Che cosa spinge Pietro a fidarsi di Gesù ciecamente? Una cosa è certa: nella persona di Gesù ha visto l’amore.

Pietro si è sentito amato, in quel momento di delusione e di sofferenza sente che la sua vita è al sicuro accanto a Gesù. Credendo alla parola del Signore, credendo all’amore di Dio, Pietro e il resto del gruppo dei pescatori che lavoravano con lui riceve una copiosa pesca, quale dono alla risposta affermativa data.

Simone davanti al tale prodigio si sente stordito, inadeguato. Lui esperto pescatore, deve alzare le mani davanti al Signore, che rende copioso ogni altro genere di pesca. Ecco perché si rivolge a Gesù e pronuncia parole di grande umiltà: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Gesù, di fronte allo stupore di Pietro e al riconoscimento della sua pochezza umana e spirituale, lo incoraggia a non pensare più al suo passato e ai suoi peccati, ma a guardare avanti con fiducia e speranza al suo futuro, che inizia proprio da lì.

“Non temere, gli dice, d’ora in poi sarai pescatore di uomini”.  Per cui, Pietro e gli altri, abbandonate le barche cariche del loro piccolo tesoro, proprio nel momento in cui avrebbe avuto senso restare, si mettono a seguire il Maestro verso un altro mare, senza neppure domandarsi dove li condurrà. Vanno dietro a lui. Vanno dove li porta il cuore.

Il grande e coraggioso gesto di abbandonare ogni cosa per seguire il richiamo di Dio ci fa da sprone ad abbandonare ogni cosa che ci porta lontano da Dio per farci ritornare a Lui con tutto il cuore e soprattutto con un cuore davvero pentito.

Anche l’apostolo Paolo segue la scia del Maestro, dopo la sua conversione, sulla via di Damasco. Anche per lui avviene un cambiamento radicale che lo porta a proclamare il Vangelo ai cristiani di Corinto, a quali raccomanda di restare saldi in esso e dal quale sono salvati, se lo mantengono integro nei contenuti e nella forma.

Il nucleo essenziale di questo vangelo che annuncia Paolo è lo stesso che egli ha ricevuto, e cioè “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto”.

Di fronte a queste sublimi verità di fede, ma anche di storia della prima comunità cristiana di Gerusalemme, Paolo si sente come “il più piccolo tra gli apostoli”, anzi non si ritiene neppure degno “di essere chiamato apostolo perché ha perseguitato la Chiesa di Dio”. La coscienza del proprio passato lo tormenta, ma poi aggiunge che “per grazia di Dio, ora è quello che è, cioè completamente diverso dal passato, tanto è vero che la grazia di Dio in lui non è stata vana”. L’apostolo riconosce questo speciale intervento di Dio a suo favore per portarlo sulla retta via della santità e dell’ annuncio missionario della salvezza, a punto tale che afferma che egli ha fatto molto di più, come apostolo, non in senso stretto, rispetto ad altri che lo erano a pieno titolo. Evidenzia Paolo un santo orgoglio missionario ed apostolico che non si può negare a lui, essendo un fatto evidente e ben conosciuto presso i cristiani di allora.

Isaia, i 12 Apostoli, Paolo di Tarso sono una triade di riferimento biblico a fare dell’attività apostolica e missionaria l’impegno prioritario di ogni cristiano. Perciò a ben ragione possiamo elevare al Signore questa umile preghiera di inizio messa: “Dio di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo, sostienici con il tuo Spirito, perché la tua parola, accolta da cuori aperti e generosi, fruttifichi in ogni parte della terra. Amen.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO- DOMENICA 4 NOVEMBRE 2018

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XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 4 Novembre 2018

Ascoltiamo la voce dell’amore che dal cielo e giunge fino a noi.

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio della XXXI domenica del tempo ordinario, soprattutto nella prima lettura e nel Vangelo, ci invita ad ascoltare la voce di Dio che ci parla di amore verso di Lui e verso chi è immagine sua sulla terra, ovvero ogni essere umano. Noi siamo stati fatti ad immagine e somiglianza di Dio e come tali dobbiamo vivere nell’amore, in quanto è amore, relazione trinitaria e comunione tra per persone. Da qui il richiamo nella prima lettura ai precetti fondamentali della legge mosaica e successivamente quella cristiana, portata a perfezionamento della venuta di Cristo sulla terra, nostro redentore e salvatore. Come l’antico popolo di Israele, così, noi oggi, nuovo popolo di Dio in cammino verso la patria celeste, dobbiamo mettere in pratica quello che Dio ci ha comunicato, prima mediante la rivelazione sinaitica e poi nel mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, parola di Dio, fatta carne e venuta a parlare di amore e libertà del cuore. Il nostro atteggiamento è quello di ascoltare Dio che ci parla e ci dice: Io sono il Signore Dio tuo. Sono l’ unico Signore e non ve ne sono altri al di fuori di me. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Ti sforzerai, perciò nella vita di tutti i giorni di partire sempre dal vertice, cioè da Dio e dal cielo per agire rettamente e con buone intenzioni, sapendo che ogni cosa va fatta per la gloria di Dio e per la santificazione di se stessi. In questo amore totalizzante verso Dio, trova la ragion d’essere l’amore verso i fratelli. Ed è Gesù, nel testo del Vangelo di questa domenica, a riportare ad un discorso unitario e di inscindibilità i due fondamentali precetti della religione cristiana, cercando di far capire allo scriba che lo interrogava che cosa voglia significare l’amore di Dio e l’amore dei fratelli. Il primo comandamento ben noto, si lega al secondo che è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Si ama Dio senza misura, illimitatamente e si ama il fratello con la stessa intensità e trasporto con i quali si ama la propria persona. Uscire fuori dall’egoismo e dall’egocentrismo per aprire alla carità e alla fraternità. “Non c’è altro comandamento più grande di questi, cioè quello dell’amore, che si esprime nella direzione verticale, verso Dio ed orizzontale verso i fratelli Chi vive nell’amore è già immerso nel cammino del Regno di Dio. Infatti, Gesù, nota la disponibilità dello scriba di lasciare interpellare dall’amore e a lui dice con grande sensibilità intellettuale ed umana: «Non sei lontano dal regno di Dio». Di fronte ad una spiegazione così esaustiva dell’unico precetto dell’amore, nessuno delle persone ed intellettuali presenti che avevano ascoltato Gesù aveva più il coraggio di interrogarlo. Il Maestro aveva fatta la lezione, era stato convincente, soprattutto perché aveva citato lo <<Shema Israe>> ascolta Israele. Gesù tuttavia va oltre la mera citazione dei passi della Bibbia ben noti a tutti i buoni israeliti, impegna la persona a confrontarsi con l’amore si fa concretezza di azione e di modi di vivere. In questo discorso sull’amore concretamente vissuto, Gesù si propone come modello di riferimento, come ci ricorda la seconda lettura di oggi, tratta dalla Lettera agli Ebrei. Egli è il Sommo Sacerdote, perché possiede un sacerdozio che non tramonta mai. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore”.

Superata la visione umanistica del sacerdozio dell’Antico Testamento si entra nella figura di un vero ed eterno sacerdote, che è Cristo Signore. Infatti, ci ricorda il testo della lettera agli Ebre che “questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”. Un sacerdote venuto dal cielo e ritornato in cielo, dopo aver completato la sua missione di redentore. Egli non ha avuto bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso, mediante il sacrificio redentivo della sua morte in croce e risurrezione. La diversità tra Cristo-sacerdote e il sacerdozio di coloro che assumono questo ministero è sostanziale, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, per farci capire dove sta la differenza e come va letta la vita di chi è sacerdote,  soggetto ad umana debolezza, come ogni sacerdote terreno, ma Cristo è sacerdote senza peccato e senza macchia, in quanto Figlio Unigenito del Padre, disceso sulla terra per salvare l’umanità dalla condizione di peccato. Al Figlio di Dio, Gesù Cristo, Sommo ed eterno sacerdote, eleviamo la nostra umile preghiera: “O Dio, tu se l’unico Signore e non c’è altro Dio all’infuori di te; donaci la grazia dell’ascolto,
perché i cuori, i sensi e le menti si aprano alla sola parola che salva, il Vangelo del tuo Figlio, nostro sommo ed eterno sacerdote”.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO – XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

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XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
DOMENICA 28 OTTOBRE 2018
Cecità della mente e freddezza del cuore
Commento di padre Antonio Rungi
Il vangelo del cieco Bartimeo, figlio di Timeo, ci indica persone ben precise che hanno un problema grave.
Bartimeo figlio, cieco, e Timeo, padre, che deve affrontare il dramma del figlio disabile.
Al tempo di Gesù non c’erano garanzie sociali ed economiche per i disabili, per cui Bartimeo, per poter sopravvivere deve mendicare lungo la strada. Quello che stava facendo esattamente mentre passava di lì Gesù, che lasciata Gerico era diretto verso altra località, che non è specificata nel testo.
Al seguito di Gesù c’era tanta gente, a conferma della popolarità che si era acquistata il Maestro con la sua missione e con il suo operare a favore degli ultimi e dei sofferenti.
E un sofferente quello che Egli incontra sulla strada, questo Bartimeo, che è cieco e chiede l’elemosina.
Gesù, mosso dalla tenerezza del suo cuore, sentito quello che chiedeva il cieco, opera la guarigione e ridona vista e speranza a questo uomo infermo e disabile.
Nel racconto del brano evangelico di Marco ci sono alcuni importanti passaggi che vale la pena sottolineare nella nostra riflessione domenicale.
Il cieco si rivolge a Gesù con il nome ben conosciuto ed identificativo della discendenza regale e davidica, a conferma della divinità del Cristo: “Figlio di Davide, abbi pietà di me”. E lo dice due volte con insistenza.
E’ la richiesta di una persona in necessità che si rivolge a chi certamente può fare molto o tutto. Quell’abbi pietà di me indica lo stretto rapporto che esisteva tra la malattia e il peccato.
Tutti coloro che erano affetti da malanni erano considerati dei peccatori, puniti da Dio e condannati a tale condizione miserevole, compresa la cecità.
E’ evidente che in questa richiesta di Bartimeo c’è il riconoscimento della propria colpa, dei propri peccati, sapendo che quella era la forma mentale acquisita mediante un insegnamento religioso che vedeva Dio che punisce mediante la malattia ed altre calamità.
Un Dio vendicativo nei confronti del singolo e della comunità. Una visione chiaramente distorta che Gesù viene a correggere, venendo in questo mondo e facendosi servo per amore e venendo incontro alle necessità e povertà materiali e spirituali.
Lo comprendiamo perfettamente alla luce del dialogo che si instaura tra Gesù e Bartimeo, che viene convocato alla presenza del Maestro, mediante il coinvolgimento degli Apostoli, ai quali Gesù dice di chiamarlo, visto che gridava forte e la gente cercava di farlo zittire. E di fatto il cieco si presenta al cospetto di Gesù, faccia a faccia, a tu per tu, ed inizia un dialogo diretto, senza più mediazioni.
Quanto è bello ed importante parlare a tu a tu con Dio nella preghiera. E qui siamo in un contesto di preghiera di impetrazione e di richiesta di grazia. Infatti Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Poche parole, pochi gesti e il cieco, mediante la fede è guarito dalla sua cecità fisica e dalla cecità della mente e del cuore, al punto tale che si mise a seguire Gesù lungo la strada.
In poche parole, diventa discepolo anche lui e lo fa con la gioia del cuore, come aveva fatto prima, nel momento in cui, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e andò da Gesù.
Cosa che dovremmo fare sempre, quando le necessità di qualsiasi genere, soprattutto spirituali ed interiori, ci dovrebbero spingere nella giusta direzione, che è quella della Chiesa, della preghiera, della messa, della confessione e dell’abbandono fiducioso in Dio, del Padre Nostro.
Non sempre lo facciamo anche se la parola di Dio di questa Domenica ci invita a fare questo percorso di totale abbandono in Dio, come ascoltiamo nel brano della seconda lettura di questa XXX domenica del tempo ordinario, presentato come il vero ed eterno sacerdote, al quale rinvolgerci per ottenere grazia e misericordia: “Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek”.
Gesù non è il sacerdote debole e fragile come sono tutti i sacerdoti del mondo, scelti da Dio per una missione, ma il sacerdote vero ed eterno, perché Figlio eterno del Padre che nel mistero della morte e risurrezione ci salva con l’unico e definitivo sacrificio della sua vita sull’altare della Croce.
Ci ricorda, infatti, la Lettera agli Ebrei: “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne”.
La diversità tra i sacerdoti dell’Antico e Nuovo Testamento con Cristo sta nella natura stessa del sacerdozio, che è pienamente ed esclusivamente espresso nella persona di Cristo.
Il servizio sacerdotale e la consacrazione sacerdotale, mediante il sacramento dell’Ordine, fa partecipare la persona ritenuta degna di questo mistero al sacerdozio di Cristo capo, in quanto c’è un sacerdozio comune che tutti i cristiani esercitano in ragione del sacramento del battesimo, mediante il quale siamo stati consacrati in Cristo Re, sacerdote e profeta.
Quindi tutti sacerdoti in base al Battesimo e sacerdoti ministri, cioè scelti per uno specifico servizio nella Chiesa, che sono i presbiteri e i vescovi, nei quali c’è la pienezza del sacerdozio e dell’ordine sacro.
Ministri quindi per servire e non servirsi di Cristo e della Chiesa, per offrire la propria vita e non sacrificare la vita degli altri.
Ministri di misericordia e di perdono e non uomini di potere che in base alla consacrazione sacerdotale pensano di poterla cavare anche nascondo il male e lo scandalo.
Mi piace citare quando ha detto Papa Francesco a noi Passionisti, nell’incontro di lunedì 22 ottobre 2018: “Vi incoraggio ad essere ministri di guarigione spirituale e di riconciliazione, tanto necessarie nel mondo di oggi, segnato da antiche e nuove piaghe…La Chiesa ha bisogno di ministri che parlino con tenerezza, ascoltino senza condannare e accolgano con misericordia”.
E’ tempo di conversione e di rinnovamento per tutti nella Chiesa di Cristo, come ci ricorda la prima lettura di oggi tratta dal profeta Geremia che guarda ad Israele, fuori dalla condizione di esiliata, e in una situazione di gioia, rispetto a quella del pianto e del dolore per la patria lasciata perché deportati: “Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».
Dio non è vendicativo, Dio è amore, perdono e misericordia. Per Lui ogni essere umano va salvato e redento, anche se ha commesso i più gravi crimini della terra, purché si penta amaramente dei propri errori e rincominci una vita nuova nel Signore, come è stato per Bartimeo, il cieco che ha riavuto la vista da Gesù, ma soprattutto hai riavuto la gioia di vivere seguendo il Cristo, vera luce e speranza di ogni cuore pentito e contrito, aperto alla tenerezza e all’amore di Dio e dei fratelli.
Sia questa la nostra preghiera oggi, in questo giorno dedicato al Signore, fonte della speranza per ogni cristiano: “O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell’oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa’ che tutti gli uomini riconoscano in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te. Carissimi, non c’è vero cammino di nessun tipo se non iniziamo a fare almeno i primi passi per incontrare Dio e incontrare gli altri. Chi si ferma, dice un antico e noto proverbio, è perduto. Chi cammina ha speranza di raggiungere primo o poi la meta sperata, soprattutto se riguarda l’eternità. Camminare per santificarsi e santificare.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA XXIX DEL T.O.- 21 OTTOBRE 2018

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XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 21 Ottobre 2018

Il potere e la gloria di Cristo Crocifisso

Commento di padre Antonio Rungi

Nel tempo ordinario dell’anno liturgico, sembra fuori luogo parlare di Cristo Crocifisso.

Eppure la liturgia di questa XXIX domenica del tempo ordinario ci porta proprio a riflettere sul mistero centrale della nostra fede, che è la Pasqua di Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza.

E’ Gesù stesso che forma la coscienza e l’intelligenza dei suoi discepoli a questo evento, apparentemente drammatico della vita di Gesù, ma in realtà l’opera più grande e stupenda dell’amore di Dio nei confronti dell’umanità, come soleva ripetere san Paolo della Croce, fondatore dei Passionisti.

Gesù, infatti, nel brano del Vangelo di Marco di questa domenica, cerca di preparare gli apostoli allo scandalo della croce, ma anche di dare indicazioni precise circa la sua missione, che poi deve essere la missione di ogni suo vero discepolo: “il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.

La missione di Cristo richiede adesione e risposta da parte dei discepoli, impegnati in altri discorsi: “Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

Molti apostoli di Gesù, sull’esempio del Maestro, per testimoniare la fede in Lui moriranno martiri, in varie parti del mondo, a partire dal principe degli apostoli, San Pietro, morto martire a Roma e poi, di seguito tutti gli altri, fino ad essere inserito come martire anche un apostolo aggiunto, Paolo di Tarso, che non aveva conosciuto Gesù, anzi lo aveva perseguitato mandando a morte i cristiani, lui acerrimo nemico della nuova religione portata da Cristo. Fu poi Paolo a scrivere che non ci sia altro vanto che nella croce di Cristo, per ogni discepolo di questo unico e irripetibile Maestro.

Tuttavia, prima degli eventi della morte e risurrezione di Cristo, gli apostoli, come tutti gli esseri umani, ragionavano e programmavano, prospettavano il loro futuro come sistemazione e posti da occupare, più o meno prestigiosi nel Regno di Cristo, pensato e immaginato come un potere temporale.

Umanamente erano giustificati, ma non come discepoli di un Maestro che aveva fatto capire esattamente per cui era venuto e verso quale meta era diretto. Evidentemente stavano nei loro ragionamenti e non seguivano il pensiero del Maestro. Ecco perché si rivolgono al Maestro con la pretesa di chi deve ricevere una ricompensa, riconoscimento visibile del loro essere parte integrante del progetto di Cristo. Ad esprimere apertamente il loro pensiero sono i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».

Gesù ascolta e segue con attenzione ciò che stanno dicendo e chiedendo, per cui risponde subito: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Ebbene, cosa potevano chiedere degli esseri umani avidi di potere e di sistemazione? La richiesta è riportata testualmente nel brano del Vangelo: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».

Sedere nella gloria, cosa significava per loro? Significava occupare il primo posto nella scala del potere regale. E i primi posti erano, infatti e lo sono ancora, quelli che si pongono a lato, di chi presiede e di chi comanda.

Destra e sinistra, in questo caso non sono in opposizione, ma in convergenza. Potremmo capire il perché tante volte nel potere politico opposti schieramenti si mettano insieme per comandare e governare, sotto un leader, perché comunque c’è un interesse, e non un servizio, se non altro quello di dimostrare di essere capaci e più bravi e meritevoli degli altri. E il pensiero di Cristo è chiaro in merito: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono”.

Alla conclusione del dialogo tra Gesù e i due apostoli troviamo questo invito a bere il calice e a rimandare la sistemazione definitiva, quella eterna, dei discepoli al giudizio del Padre, alla fine della loro vita. Sta di fatto che Gesù non promette posti e sistemazione ai suoi amici e seguaci, anzi chiede il sacrificio, l’accettazione della prova e della croce e la capacità di donarsi per una causa come quella del vangelo, soprattutto la scelta del servizio e non del comando: “Tra voi, tra i discepoli, però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Gesù modello supremo servizio alla causa dell’uomo, mediante il dono della vita.

Il modello di ispirazione di questo fondamentale atteggiamento è quello che troviamo espresso, anche nel brano della seconda lettura di questa domenica, tratto dalla lettera agli Ebrei.

Questo modello è Gesù Figlio di Dio “sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli e che ha preso parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”. Di fronte a questo modello di comportamento, siamo chiamato ad accostarci “con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.

Accostarci, chiedere ed ottenere: è il cammino di conversione alla Croce di Cristo, il vero potere e la vera gloria di cui dobbiamo affannosamente cercarne il possesso.

E, infatti, nel brano della prima lettura di oggi, tratto dal profeta Isaia, che ci presenta la persona del Servo sofferente di Javhè ci viene ricordato, parlando del futuro Messia, nostro Signore Gesù Cristo che “al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità”.

E’ scolpita qui l’immagine e l’effige più vera e rispondente alla missione di Cristo sulla terra, che è quella di Gesù in Croce, di Gesù che offre la vita per noi, davanti alla quale dobbiamo umilmente prostrarci e riconoscere i nostri peccati, come diciamo oggi nella preghiera della colletta: “Dio della pace e del perdono, tu ci hai dato in Cristo il sommo sacerdote che è entrato nel santuario dei cieli in forza dell’unico sacrificio di espiazione; concedi a tutti noi di trovare grazia davanti a te, perché possiamo condividere fino in fondo il calice della tua volontà e partecipare pienamente alla morte redentrice del tuo Figlio”. Amen.

 

P.RUNGI – COMMENTO ALLA XXVII DOMENICA DEL T.O.- 7 OTTOBRE 2018

RUNGI-VERDE

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

Domenica 7 ottobre 2018

L’essere per la comunione e per un amore puro e innocente

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa XXVII domenica del tempo ordinario ci fa riflettere sulla dignità della coppia umana e del matrimonio, come espressione di autentico amore, tra uomo e donna, secondo quanto stabilito dal Creatore, nell’atto della creazione.

Il libro della Genesi, che leggiamo come prima lettura oggi, ci riporta a questo momento della creazione della donna, successiva a quello dell’uomo, in quanto Dio stesso, che aveva già creato l’uomo si accorse che non era giusto che l’uomo fosse solo; per cui decise, per amore, di dargli un aiuto che gli corrispondesse. E così fece.

Il racconto biblico è molto significativo ed ogni parola e gesto ha una sua valenza di amore e di attenzione per la donna e verso la coppia, che così si costituisce nella pienezza di un amore vicendevole e di complementarietà. “

“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”.

A questo punto l’uomo prende consapevolezza e coscienza che si trova di fronte ad un essere uguale a lui, anche se con una struttura biologica e fisica diversa. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».

Due individualità singole, anche se uguali nella dignità e nel valore creazionale, non fanno coppia, né costituiscono di per sé la base di un amore reciproco. Bisogna quindi lavorare in quella prospettiva. Il superamento della solitudine individuale porta le due soggettività a prendere la decisione di fare coppia, in poche parole di mettersi insieme e fare famiglia.

Tanto è vero che il matrimonio naturale nasce da questo bisogno di superare l’individualità per formare una famiglia e costituire in comunione di vita due persone, due esseri umani con la stessa dignità e lo stesso peso rispetto alla vita e alla società: “Per questo l’uomo – leggiamo nel brano- lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”.

Questa espressione finale “un’unica carne” significa esattamente un unico progetto di vita per la vita e per l’amore.

Un progetto che si deve costruire e realizzare giorno per giorno, in quanto nulla è dato per scontato tra gli esseri viventi ed umani, al punto tale che le decisioni assunte, vanno vissute nella quotidianità, superando i limiti e le difficoltà, insite nella relazione di coppia, soprattutto ai nostri giorni.

Ecco perché nel Vangelo di oggi, di fronte a delle richieste di alcuni farisei che lo vogliono mettere alla prova Gesù, circa la questione del divorzio, il Maestro replica con quanto è scritto nella legge mosaica, ma, nello stesso tempo, potenzia il discorso sulla dignità del matrimonio affermando i due principi basilari del matrimonio stesso: unità e indissolubilità, ovvero fedeltà e coerenza per tutta la vita.

Quindi è chiaro che non è lecito ripudiare la moglie o il marito, anche se Mosè aveva permesso di sottoscrivere l’atto di ripudio per la durezza del cuore di chi aveva deciso liberamente di vivere da sposato.

Ma il volere di Dio è diverso. Infatti nella Genesi è scritto esattamente che l’uomo una volta che decide di mettere su famiglia deve camminare per questa strada, in quanto l’uomo non ha potere ed autorità di dividere quello che Dio ha unito.

Chiaro riferimento alla sacralità del matrimonio cristiano che è unico ed indissolubile.

Discorso molto dedicato ai nostri giorni, che deve confrontarsi con la pluralità delle culture, delle fedi, del modo di intendere e vivere la scelta coniugale nella società e nella chiesa di ieri, di oggi e di sempre.

Possono cambiare alcune forme esteriori, ma la sostanza del discorso e dell’argomentazione di Gesù rimane inalterata.

Infatti è Gesù stesso che ribadisce ai discepoli il suo pensiero e il suo insegnamento in merito.

Leggiamo nel brano del Vangelo che una volta rientrati a casa, i discepoli interrogarono di nuovo Gesù su questo argomento del matrimonio, del divorzio, dell’infedeltà coniugale. Ed Egli disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

In poche parole, rompere il vincolo o patto coniugale è frantumare la famiglia, che è la base della società e della stessa comunità cristiana. Si ribadisce il totale rifiuto del divorzio nella prospettiva cattolica, anche se, oggi, si va verso un’accoglienza pastorale dei divorziati come cammino spirituale necessariamente da farsi, perché la Chiesa, come scrive Papa Francesco, non deve chiudere le porte in faccia a nessuno.

Per essere accogliente, anche nella pastorale familiare, la Chiesa deve assumere come modello di comportamento quello dei bambini, citati nella parte finale del Vangelo di oggi.

Gesù a chi rifiuta una visione di chiesa dell’innocenza e della semplicità ribadisce che lo stile vero di una chiesa vera è quella rappresentata iconograficamente dai bambini: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso. E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro».

E allora quale deve essere lo stile di ogni cristiano? E’ abbracciare la semplicità, l’innocenza, la purezza, è benedire e sanare.

Concetti che troviamo espressi nel secondo brano della parola di Dio di oggi, tratto dalla lettera agli Ebrei.

Gesù Redentore e Salvatore, coronato di gloria e che è vicino ad ogni uomo della terra. Quel Gesù che non si vergogna di chiamarci fratelli, anche se degli esseri umani sono stati a condannarlo ad una morte infamante.

Dalla croce e con la croce, Gesù ha riportato nel solco dell’amore, del perdono e della fratellanza universale tutto il genere umano. Egli è davvero l’unico punto di convergenza e di unificazione di tutte le genti e di tutti i rapporti umani, a partire da quelli familiari.

Sia questa la nostra comune preghiera, oggi, domenica, giorno del Signore: “Dio, che hai creato l’uomo e la donna, perché i due siano una vita sola, principio dell’armonia libera e necessaria che si realizza nell’amore; per opera del tuo Spirito riporta i figli di Adamo alla santità delle prime origini, e dona loro un cuore fedele, perché nessun potere umano osi dividere ciò che tu stesso hai unito”. Amen.

P.RUNGI. IL COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA 23 SETTEMBRE 2018

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XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 23 settembre 2018

La classifica che conta davanti a Dio. In serie A del Paradiso si arriva con l’umiltà.

Commento di padre Antonio Rungi

In questa XXV domenica del tempo ordinario, la nostra riflessione parte dal testo del Vangelo, che è quello di più immediata comprensione ed attualizzazione nella vita dei singoli, come della comunità ecclesiale, sociale ed umana.

L’idea di fondo che Gesù vuol far passare ai discepoli è quella del servizio e non quella del potere, quella dell’ultimo posto e non quella del primo posto, in quanto nella classifica divina ciò che conta non è il primo in ordine di importanza, ma il primo in ordine di santità, di amore e disponibilità verso gli altri.

Gesù sviluppa questa sua riflessione e rivolge questo monito ed esortazione ai suoi dodici apostoli durante il viaggio di attraversamento della Galilea.

Egli come sempre conversa con i suoi discepoli e li prepara a quello che sta per succedere da lì a poco, a conclusione della sua missione terrena, indicando il termine ultimo di questo cammino, che è il Calvario, la croce e la morte.

Diceva infatti, loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».

Ma i discepoli, intenti in altri ragionamenti e calcoli terreni, come tutti gli esseri umani, non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

La lezione della croce non era stata recepita dai distratti discepoli, al punto tale che non chiesero spiegazioni.

Gesù conoscendo le sue pecorelle, quando giunse a Cafàrnao e fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?».

Beh, era ovvio che non potevano rispondere e quindi tacevano, in quanto non stavano affatto ad ascoltare la parola del Maestro e il suo insegnamento circa la croce e la risurrezione che si avvicinava sempre di più per Lui.

L’evangelista Marco, infatti, come ottimo osservatore e cronista, riporta l’argomento del discorrere degli apostoli: “Per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande”.

Mentre Gesù parla di sofferenza, loro parlano di potere, di chi doveva occupare il posto più prestigioso vicino a Gesù, chi doveva essere considerato e classificato come primo.

Ebbene, Gesù si siede e chiama a se il gruppo al quale fa questo discorso: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».

Per far capire il discorso dell’umiltà, Gesù usa uno stratagemma che colpisce sempre: prese “un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Accogliere Cristo è vivere nell’umiltà, nella semplicità, nel servizio, nella disponibilità piena al progetto di Dio, che è  Croce, ma soprattutto risurrezione e vita.

La logica di Dio è la logica del dono e non del potere e del primeggiare sugli altri, per far valere la propria autorità, ma mettersi al servizio ed essere la chiesa che si inginocchia davanti alle sofferenze dei fratelli e lenisce le piaghe e le ferite del corpo e dello spirito.

Il modello di ispirazione per ogni azione rispondente al disegno di Dio è Cristo, il Servo sofferente, il Crocifisso.

Anche in questa domenica si parla appunto della sofferenza di Gesù, come ci è riportato nel brano della prima lettura di oggi, ricavato dal Libro della Sapienza: [Dissero gli empi:] «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”.

Queste insidie le tesero contro Gesù i sommi sacerdoti, il sinedrio e quanti non accettavano il Maestro per quello che diceva e faceva. Da qui la condanna a morte. La prova di questa struttura mentale votata alla distruzione e all’annientamento dell’avversario religioso e politico, la troviamo nelle parole che seguono: “Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».

Esattamente quello che ha vissuto Gesù durante il processo, la condanna a morte, il viaggio al Calvario, la morte in croce. Ma lui ha vinto tutto questo odio con l’amore che promana dalla sua croce e dalla sua risurrezione.

L’odio porta alla divisione, alla separazione, alla guerra e al conflitto di interesse di qualsiasi genere.

San Giacomo Apostolo ci mette in guardia da tutto quello che divide e separa nella vita di ogni cristiano, rammentando che “dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni”. E l’apostolo va all’origine di questi disastri spirituali, interrogandosi e interrogandoci: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?”.

La risposta è lapidaria: “Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni”.

In poche parole succedono tutte queste cose, perché siamo una frana umanamente e spiritualmente, per cui facciamo disastri ad ogni livello.

Per superare tutti questi umani limiti è necessario essere umili e guardare al Crocifisso, chiave di lettura per parlare di pace, giustizia e fratellanza.

Facciamo questo sforzo di confrontarci con il Maestro Crocifisso e Risorto e non con il potere umano, politico ed economico che, secondo un paganesimo sempre più diffuso in tutti gli ambienti, compresi quelli religiosi, è causa di guerra, divisioni e gelosie, calunnie e diffamazioni che portano all’infelicità di chi accusa e dell’accusato.

Sia questa la nostra umile preghiera in questa domenica: “O Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un fanciullo la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”.

Diventiamo davvero grandi davanti a Dio, conquistiamo il primo posto nella classifica di Dio, mettendoci a servizio e donando la vita. In serie A, quella del Paradiso, si arriva con l’umiltà e il sorriso.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DEL 5 AGOSTO 2018

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XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 5 agosto 2018

Il pane dal cielo, cibo per la nostra vita terrena

Commento di padre Antonio Rungi

La diciottesima domenica del tempo ordinario ci ripresenta il tema del pane eucaristico, con il duplice riferimento ad esso nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, in cui è raccontato il miracolo della mamma piovuta dal cielo, e nel vangelo di Giovanni, con il noto capitolo sesto sul pane della vita, nuovamente viene presentata alla nostra riflessione il cibo che dura per la vita eterna.

Il ritorno su questo tema da parte della liturgia della parola di Dio è giustificato dal fatto che noi effettivamente abbiamo bisogno del doppio cibo, quello materiale che ci sostiene nel cammino della vita terrena e quello spirituale che ci accompagna nel pellegrinaggio verso la terra promessa. E questa è la santissima eucaristia. Partendo dalla pima lettura che ci racconta la lunga traversata del deserto da parte del popolo eletto, durata 40 anni, che chiaramente creò non pochi problemi di sopravvivenza per il consistente gruppo di israeliti che si diressero verso la terra promessa che il Signore aveva indicato a Mosè. In questo sofferto pellegrinaggio verso la liberta successe che “nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne”.

Le lamentele erano così forti che “gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Il prezzo della libertà è svenduto per un pezzo di pane e di carne. E’ la storia di sempre dell’uomo che pensa solo allo stomaco e non alla mente ed al cuore. La libertà non a prezzo e per essa si deve anche morire. Quanti esempi dai primi martiri del cristianesimo fino ad oggi che per la libertà religiosa o semplicemente di pensiero sono state sacrificate vittime innocenti e ancora oggi si sacrificano per questo valore non contrattabile della libertà. Ebbene, in questa nuova situazione di emergenza alimentare e biologica, “il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”».

Le promesse di Dio si attuano e vanno sempre in porto, quelle degli uomini non approdano quasi mai al risultato finale. E, infatti, quello che è successo è scritto nel testo di oggi dell’Esodo: “La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».

Nonostante le lamentele e l’ingratitudine dell’uomo, Dio lo ricompensa sempre con amore. E’ la storia di sempre di un’umanità infedele e irriconoscente verso Dio e di un Dio immensamente attento alle necessità dell’uomo.

Stesso scenario nel Vangelo di questa domenica che è la prosecuzione del brano di domenica scorsa, in cui Gesù fa notare alle persone che lo cercano, ovunque egli si trovi, “non perché avevano visto dei segni, ma perché avevano mangiato di quei pani e si erano saziati”. E’ una ricerca interessata e motivata dai vuoti dello stomaco e non del cuore e della fede in Dio. Da qui il preciso monito del Maestro: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”.

Scontata la domanda da parte della gente nei confronti di Gesù: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».

Evidentemente la fede in loro non c’era se cercano ancora altri segni. Non sono bastati i segni che finora Gesù aveva compiuto. Ecco che allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Il richiamo alla manna ricevuta in dono da Dio durante il cammino verso la terra promessa è riconosciuta con miracolo, come segno divino, perciò obiettano a Gesù, Lui cosa fa per far credere e suscitare la fede. Gesù risponde con queste parole: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Di fronte ad una sicurezza del genere, la chiesta della gente è lapidaria: «Signore, dacci sempre questo pane». Al che Gesù rispose: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». Ecco la grandezza del nostro Dio: Egli è la piena soddisfazione dei bisogni veri dell’uomo, perché Dio riempie il nostro cuore, al punto tale che ci sentiamo in obbligo di rispondere a questo amore generoso con una vita degna di essere definita cristiana, come ci ricorda l’Apostolo Paolo nel brano della Lettera agli Efesini di oggi: “Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, come pure di abbandonare la condotta di prima, quella l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli. Bisogna invece rinnovarsi nello spirito e nel modo di pensare, al fine di “rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”. E’ quello che chiediamo al Signore mediante la preghiera: “O Dio, che affidi al lavoro dell’uomo le immense risorse del creato, fa’ che non manchi mai il pane sulla mensa di ciascuno dei tuoi figli, e risveglia in noi il desiderio della tua parola, perché possiamo saziare la fame di verità che hai posto nel nostro cuore”.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA SOLENNITA’ DI SAN GIOVANNI BATTISTA – DOMENICA 24 GIUGNO 2018

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SOLENNITA’ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

DOMENICA 24 GIUGNO 2018

GIOVANNI BATTISTA,

IL PORTAVOCE DI CRISTO FINO DAL GREMBO MATERNO

Commento di padre Antonio Rungi

Oggi la liturgia domenicale è totalmente dedicata a San Giovanni Battista, il precursore di Gesù, il suo portavoce dal momento del concepimento fino all’ultimo istante della sua vita, conclusasi con il martirio, con la decapitazione. Oggi quindi la parola di Dio ci invita a prendere esempio da questo santo unico e eccezionale, di cui non troviamo paragoni nella storia della Chiesa, anche per lo stretto rapporto con la venuta di Cristo sulla terra, di cui egli è stato il grande predicatore e annunciatore. La devozione popolare, l’iconografia, le chiese, le parrocchie, l’arte dedicano moltissimo a questo santo che affascina per la sua spiritualità, per la serietà e l’elevatura morale, per il coraggio, la penitenza, l’umiltà e lo stile di vita improntata su Dio e indirizzata all’accoglienza dell’unico Messia. Rispetto ad altri santi, la Chiesa lo festeggia, come la Vergine Maria, anche nel giorno della sua nascita, il 24 giugno; mentre ne ricorda la tragica fine, nel giorno 29 agosto, celebrando il suo martirio. La sua vocazione profetica si manifestò ancor prima di nascere attraverso segni messianici come “l’esultanza” davanti a Maria in visita alla cugina Elisabetta. E Cristo stesso lo definì «il più grande tra i nati da donna» È l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e il primo Apostolo di Gesù, perché gli rese testimonianza ancora in vita. Nel Vangelo di Luca  si dice che era nato in una famiglia sacerdotale, suo padre Zaccaria era della classe di Abia e la madre Elisabetta, discendeva da Aronne. La sua nascita miracolosa è annunciata dall’arcangelo Gabriele, come nella nascita di Gesù Bambino. Il testo di questo evento singolare fa parte del Vangelo della solennità di questa giornata, dedicata a questo grandissimo Santo. La madre Elisabetta era sterile e ormai anziana. Un giorno, mentre il marito Zaccaria offriva l’incenso nel Tempio, gli comparve l’arcangelo Gabriele che gli disse: “Non temere Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché sarà grande davanti al Signore” e proseguendo nel descrivere le sue virtù, cioè pieno di Spirito Santo, operatore di conversioni in Israele, precursore del Signore con lo spirito e la forza di Elia.

Dopo quella visione, Elisabetta concepì un figlio fra la meraviglia dei parenti e conoscenti; al sesto mese della sua gravidanza, l’arcangelo Gabriele, il “messaggero celeste”, fu mandato da Dio a Nazareth ad annunciare a Maria la maternità del Cristo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi anche Elisabetta, tua parente, nella vecchiaia ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile; nulla è nulla è impossibile a Dio”.  Maria allora si recò dalla cugina Elisabetta per farle visita e al suo saluto, declamò il bellissimo canto del “Magnificat”, per le meraviglie che Dio stava operando per la salvezza dell’umanità e mentre Elisabetta esultante la benediceva, anche il figlio che portava in grembo, sussultò di gioia. Quando Giovanni nacque, il padre Zaccaria che all’annuncio di Gabriele era diventato muto per la sua incredulità, riacquistò la voce, la nascita avvenne ad Ain Karim a circa sette km ad Ovest di Gerusalemme, città che vanta questa tradizione risalente al secolo VI, con due santuari dedicati alla Visitazione e alla Natività.

Nel commentare questa nascita miracolosa, l’evangelista Luca sottolinea che: “Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui”. Dopo la nascita, in estrema sintesi San Luca scrive circa Giovanni Battista: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Quello che conosciamo di lui è scritto nei testi sacri con dovizia di particolari. Infatti, Giovanni Battista, dopo l’età della giovinezza, si ritirò a condurre la dura vita dell’asceta nel deserto, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico. Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio (28-29 d.C.), iniziò la sua missione lungo il fiume Giordano, con l’annuncio dell’avvento del regno messianico ormai vicino, esortava alla conversione e predicava la penitenza. Sempre dai testi del Vangelo sappiamo che da tutta la Giudea, da Gerusalemme e da tutta la regione intorno al Giordano, accorreva ad ascoltarlo tanta gente considerandolo un profeta; e Giovanni in segno di purificazione dai peccati e di nascita a nuova vita, immergeva nelle acque del Giordano, coloro che accoglievano la sua parola, cioè amministrava un Battesimo di pentimento per la remissione dei peccati, da ciò il nome di Battista che gli fu dato. Questa sua specificità è ricordata nel brano della seconda lettura di oggi, tratta dagli Atti degli Apostoli: “Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele. Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”. Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di questa salvezza».

San Giovanni era il riferimento della gente semplice, ma anche del Re, dei notabili, quanti frequentavano il tempio e gli stessi soldati, Infatti, diversi di loro, appartenenti alla protezione del Re Erode Antipa, andavano da lui a chiedergli cosa potevano fare per convertirsi alla carità e alla giustizia, visto che opprimevano il popolo. E lui rispondeva: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno e contentatevi delle vostre paghe” (Lc 3, 13). Il fascino che esercitava Giovanni sulla gente era tanto, al punto tale che molti incominciarono a pensare che fosse lui il Messia tanto atteso. Ma lui, ben sapendo chi era, indirizzava la gente verso il vero Messia, Gesù. Infatti, precisava: “Io vi battezzo con acqua per la conversione, ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non sono degno neanche di sciogliere il legaccio dei sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Ai sommi sacerdoti fece arrivare forte il suo messaggio “Io sono la voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia”. Il resto della sua vita, è raccontato nei testi del Vangelo ed hanno attinenza con il Battesimo di Gesù al Giordano, durante il quale Giovanni rivelò alla gente presente chi era davvero Colui che stava immergendosi nelle acque: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato dal mondo!” e a Gesù disse: “Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?” e Gesù: “Lascia fare per ora, poiché conviene che adempiamo ogni giustizia”.

L’altro momento forte, conclusivo della sua vita, fu il contrasto con il Re di Israele Erode Antipa († 40 d.C.), che aveva preso con sé Erodiade, moglie divorziata da suo fratello; ciò non era possibile secondo la legge ebraica perché il matrimonio era stato regolare e fecondo, tanto è vero che era nata una figlia Salomè. Per questo motivo, un giudeo osservante e rigoroso come Giovanni, sentiva il dovere di protestare verso il re per la sua condotta immorale. Infuriata Erodiade gli portava rancore, ma non era l’unica; perché il Battesimo che Giovanni amministrava, perdonava i peccati, rendendo così inutili i sacrifici espiatori, che in quel tempo si facevano al Tempio, e ciò non era gradito ai sacerdoti giudaici. Per questi ed altri motivi di ordine politico, di stabilizzazione del potere politico e religioso, per tranquillizzare l’ambiente, Erode fece arrestare e mettere in carcere Giovanni su istigazione di Erodiade, la quale avrebbe voluto che fosse ucciso, ma Erode Antipa temeva Giovanni, considerandolo uomo giusto e santo, preferiva vigilare su di lui e l’ascoltava volentieri, anche se restava molto turbato, come ci ricorda il testo del Vangelo del martirio di Giovanni.  Ma per Erodiade venne il giorno favorevole, quando il re diede un banchetto per festeggiare il suo compleanno, invitando tutta la corte ed i notabili della Galilea. Alla festa partecipò con una conturbante danza anche Salomè, la figlia di Erodiade e quindi nipote di Erode Antipa; la sua esibizione piacque molto al re ed ai commensali, per cui disse alla ragazza: “Chiedimi qualsiasi cosa e io te la darò”; Salomé chiese alla madre consiglio ed Erodiade prese la palla al balzo, e le disse di chiedere la testa del Battista. A tale richiesta fattagli dalla ragazza davanti a tutti, Erode ne rimase rattristato, ma per il giuramento fatto pubblicamente, non volle rifiutare e ordinò alle guardie che gli fosse portata la testa di Giovanni, che era nelle prigioni della reggia. Il Battista fu decapitato e la sua testa fu portata su un vassoio e data alla ragazza che la diede alla madre. I suoi discepoli saputo del martirio, vennero a recuperare il corpo, deponendolo in un sepolcro; l’uccisione suscitò orrore e accrebbe la fama del Battista.

Vogliamo fare nostro il messaggio di Giovanni Battista, che è sintetizzato nella vocazione profetica di Isaia, testo della prima lettura di oggi e diventare coraggiosi annunciatori della parola di Dio, senza compromessi di nessun genere ed avere il coraggio, fino alla morte, di parlare di Cristo con lo stesso entusiasmo di San Giovanni Battista, il grande annunciatore e predicatore dell’amore misericordioso del Signore.

Sia questa la nostra preghiera che rivolgiamo a Dio, mediante l’intercessione di San Giovanni Battista. “Signore rendici degni annunciatori, con la parola e con l’esempio, del tuo Regno di giustizia, verità, pace in questo mondo globalizzato dall’indifferenza verso ogni discorso di fede e di accoglienza del fratello più bisognoso della terra”. Amen.