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COMMENTO ALLA TERZA DOMENICA DI PASQUA – 10 APRILE 2016

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III DOMENICA DI PASQUA (ANNO C)
DOMENICA 10 APRILE 2016 

Nella rete della misericordia di Dio 

Commento di padre Antonio Rungi 

La terza domenica di Pasqua ci presenta Gesù che appare agli apostoli e li aiuta nel lavoro di pescatori. Da una notte senza aver pescato nulla, ad una pesca in pieno giorno in cui prendono tutto, raccolgono ogni tipo di pesce, piccoli e grandi, una raccolta straordinaria. E’ l’immagine di questo giubileo della misericordia, durante il quale il Signore Gesù, attraverso l’opera della sua Chiesa, intende raccogliere nella rete del suo amore misericordioso tutti i suoi figli. Quelli che vivono nella grazia e quanti sono lontani da una vita di preghiera e sacramentale. Il miracolo della pesca abbondante che Gesù permette di fare agli apostoli dopo una notte di lavoro senza aver raccolto nulla ci indica la strada di come lavorare nel campo dell’apostolato. Solo con Gesù e in ascolto della sua parola, nel mettere in pratica i suoi insegnamenti possiamo riavvicinarci a Lui e portare a Lui chi naviga in mari pericolosi, smarrito tra tanti rischi della vita di tutti i giorni, quando non si è in sintonia con il vangelo dell’amore e della misericordia. Gesù, agli apostoli, dopo aver dato il conforto di una pesca eccezionale, vuole condividere con loro la gioia dello stare insieme. E’ la chiesa della risurrezione che intorno al suo maestro si accosta al cibo eucaristico, dal quale trae la forza e il coraggio per testimoniare e vivere il vero amore nel mondo. Non a caso dopo la pesca miracolosa Gesù si rivolge a Pietro in prima persona e gli pone una delle domande alle quali o si risponde con sincerità oppure tutto diventa farsa, menzogna e fariseismo. Dalla risposta cosciente e convinta alla richiesta di un amore sincero, scaturisce la sequela di Cristo e le conseguenze di tale scelta totale di Cristo. Il dialogo tra Gesù e Pietro è tra i quelli che toccano le corde più profonde di un Dio, che è Gesù, e di un essere umano, Pietro:Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi». Questa domanda il Signore, oggi, la rivolge a ciascuno di noi. In che misura possiamo dire come Pietro: Signore, tu sai che io ti amo e sei tutta la mia vita? Certo nella misura in cui ogni giorno ci immergiamo in questo amore, mediante la preghiera, la partecipazione alla messa, alla comunione, nell’ascolto della sua parola, nella pratica della giustizia, nella lotta per la verità, nella difesa degli ultimi, questo amore cresce in noi e diventa autentico. La risposta che Cristo ci chiede se ci vogliamo porre alla sua sequela è quella di una amore completo che si fa servizio ed oblazione e che investe tutta la vita, fino al mistero più paradassale della morte in croce alla quale allude Gesù nella parte finale del dialogo con Simon Pietro. Tu Maestro ci hai insegnato ad amare e fa che questo amore sia ogni giorno più forte e potente per combattere le forze dell’odio e della morte che si presenti in questo nostro tempo. Bisogna avere il coraggio e la fede dei primi apostoli e dei primi cristiani di Gerusalemme che, nonostante la persecuzione, le proibizioni dei politici del tempo, vanno avanti per la loro strada nel parlare di Cristo e nell’annunciare la sua misericordia. Il coraggio dei martiri, dei perseguitati per la fede è quello che oggi la chiesa necessita. E’ vero che anche oggi tanti sono i cristiani, nel mondo, che testimoniano la fede fino alla morte. Anche in questi ultimi mesi, da ogni angolo della terra, i crimini contro i cristiani si rinnovano, senza che alcuno alzi la voce a loro protezione e difesa, tranne quella del Papa, dei Vescovi, dei sacerdoti e di quanti sperimentano l’emarginazione in questo nostro terribile momento storico.In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».  Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.Una riflessione conclusiva su quanto ci raccontano e ci insegnano i due testi biblici che abbiamo ascoltato e commentato in questa terza domenica di Pasqua la troviamo nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dall’Apocalisse. In questa meravigliosa visione dell’apostolo Giovanni, è la sintesi della nostra fede, del nostro cammino nella storia e della meta ultima del nostro pellegrinaggio verso l’eternità: “Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.

Vogliamo metterci in adorazione del Risorto in questo tempo di Pasqua e noi sappiamo benissimo che il Risorto è presente in corpo, sangue ed anima nella santissima eucaristia. Il tempo di Pasqua sia il tempo di un’adorazione perpetua al Cristo, volto misericordioso del Padre. Lasciamoci prendere nella rete del suo amore e lasciamoci catturare dal suo volto luminoso, glorioso, che è la nostra vera gioia.

Sia questa la nostra umile preghiera: Padre misericordioso, accresci in noi la luce della fede, perché nei segni sacramentali della Chiesa riconosciamo il tuo Figlio, che continua a manifestarsi ai suoi discepoli, e donaci il tuo Spirito, per proclamare davanti a tutti che Gesù è il Signore. Amen.

COMMENTO DI PADRE ANTONIO RUNGI SULLA DOMENICA DELLA DIVINA MISERICORDIA

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II DOMENICA DI PASQUA o della Divina Misericordia (ANNO C)

Domenica 3 aprile 2016

 

Una Chiesa missionaria della misericordia nel nome di Cristo Risorto

 

Commento di padre Antonio Rungi

 

E’ la domenica più importante di questo anno giubilare dedicato alla misericordia, perché è la domenica specifica che San Giovanni Paolo II, da Papa, volle dedicare a questo tema, istituendo la seconda domenica di Pasqua come domenica della Divina Misericordia. La motivazione teologica e pastorale del grande papa, ora santo, che addusse il Pontefice furono i testi biblici, che la liturgia di questo giorno prende annualmente in considerazione, per il fatto che Gesù, esattamente, come rammenta il Vangelo di Giovanni, apparve nello stesso giorno della risurrezione e poi otto giorni dopo.

Nella prima apparizione Tommaso non era presente e fu in quel contesto che Gesù diede il mandato agli apostoli di rimettere i peccati, come leggiamo nel vangelo:  “La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Sarà stato un caso che Tommaso in quella circostanza non era presente? A leggere il testo mi sembra che non fu un caso. In Tommaso non è ancora maturata l’idea e il convincimento della risurrezione di Gesù. Possiamo dire non c’era ancora la fede necessaria, in quanto il ministero della riconciliazione e del perdono, parte da una prospettiva di fede, senza la quale non è possibile né amministrare il sacramento, né tantomeno riceverlo. Apostoli e fedeli devono avere fede, perché i sacramenti sono sacramenti della fede e non atti magici o di altra natura. L’assenza di Tommaso in quella prima apparizione di Gesù, nel giorno stesso della risurrezione è un’assenza giustificata e comprensibile alla luce di quanto è successo nel giorno di Pasqua. Mi sembra di trovarci in un aula scolastica, all’inizio di una lezione o di una giornata di scuola, quando si fa l’appello dei presenti. D’altra parte Gesù era ed è il Maestro divino di quel gruppo di discepoli, che si erano messi spontaneamente, senza alcuna costrizione alla sequela di Cristo, nel corso della sua vita terra. Con quali prospettive ed attese, lo sappiamo. Dopo la morte e risurrezione, dopo il tempo dello smarrimento e dello scoraggiamento il gruppo, che già ha perso Giuda il traditore, si ricompatta nel Cenacolo, dove attende, insieme a Maria gli eventi successivi. Quando Gesù appare la prima volta, come registra Giovanni, Tommaso non era presente. Infatti, leggiamo che “Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Ebbene arriva il tempo della maturazione della fede per Tommaso: appena una settimana, durante la quale quanto volte avrà pensato alle parole dei suoi colleghi che gli avevano detto di aver visto Gesù. E’ proprio vero per gli scettici, gli agnostici e gli atei, se non interviene un fatto significativo, rimangono nella loro convinzione di non credenti per tutta la vita. Per Tommaso questo fatto nuovo si verifica subito, dopo una settimana. In quel contesto il quadro familiare cambia, quando Gesù appare nuovamente e allora c’era anche Tommaso, come leggiamo nel testo giovanneo, particolarmente attendibile su questi aspetti dottrinali e teologici: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». La risposta di Tommaso fu sincera e sicuramente più convinta degli altri apostoli, in quanto era passato attraverso il vaglio della ragione, della riflessione, del dubbio, ma alla fine la risposta fu più convinta e maturata alla luce delle facoltà umane di intendere e di volere. D’altra parte, sappiamo benissimo che la fede e la ragione sono due ali che vanno verso la verità. Quando la fede non è sincera, forte ed immediata, necessità della ragione, del pensiero, della filosofia, del ragionamento che alla fine, se è autentico e segue dei canoni di ricerca, approda per forza di cosa alla fede. Perciò Gesù nel dialogo che intercorre tra lui e l’apostolo dubbioso ed incerto, che mette in dubbio la verità attestata dagli altri, ha un esplicito rimprovero per quanti vogliono dimostrare con la ragione ciò che non è dimostrabile, e dice, toccami, prendi atto della realtà e della verità; pertanto “non essere incredulo, ma credente!».

Credere questo è l’appello fondamentale che ci viene da Gesù, credere nella sua persona, nella sua missione e credere nella sua risurrezione. E scopo di ogni annuncio missionario, di ogni azione sacramentale che la Chiesa è chiamata a compiere in ogni tempo e in ogni situazione è quella di suscitare la fede. D’altra parte i sacramenti sono sacramento della fede. Perciò l’evangelista Giovanni conclude il suo vangelo con questi versetti finali che è tutto un programma missionario, apostolico della Chiesa di tutti i tempi, anche della Chiesa di Cristo, guidata oggi da Papa Francesco, in questo anno della misericordia: “Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.

Scrivere, trasmettere la fede è il compito di ogni cristiano che si fa araldo del vangelo e strumento di pace, riconciliazione, di speranza in ogni angolo del mondo. San Giovanni evangelista, anche nel Libro dell’Apocalisse, evidenzia questa sua missione di diffusore della fede e degli eventi salvifici che fanno espresso riferimento alla persona di Gesù Cristo. Leggiamo, infatti, nel brano dell’Apocalisse di questo giorno, ottava di Pasqua: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese». Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».

Dai segni di Gesù, si passa ai segni, ai fatti ed eventi straordinari di fede, raccontati dagli Atti degli Apostoli, in particolare dal capo del collegio apostolico, Pietro, nel brano della prima lettura della liturgia della parola di Dio di questa seconda domenica di Pasqua: “Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti”.

Questa è la storia di una Chiesa che da 2000 anni guarisce le ferite di ogni genere nel nome e per mandato di Cristo Redentore dell’uomo, soprattutto quelle interne e spirituali che sono più gravi di quelle materiali e fisiche, con il sacramento della confessione e dell’unzione degli infermi, definiti i sacramenti della guarigione.

Sia questa la nostra preghiera conclusiva della celebrazione della parola di Dio nella Domenica della Divina Misericordia, che tanto affascinò l’esperienza ascetica di Santa Faustina Kowalska, giustamente indicata da Papa Francesco, nella Bolla di indizione dell’Anno Giubilare della Misericordia, come la principale santa della misericordia: Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza pasquale ravvivi la fede del tuo popolo, accresci in noi la grazia che ci hai dato, perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti. Amen

PREGHIERA PER LA PASQUA 2016
COMPOSTA DA PADRE ANTONIO RUNGI, PASSIONISTA

Signore Gesù,
vincitore del peccato e della morte,
che nella tua Pasqua annuale
ridai significato e senso alla vita umana,
guarda a questa umanità,
segnata da tante sofferenze,
da tanta violenza,
da molteplici forme di ingiustizia
che gridano vendetta davanti a Dio.

Non permettere, Signore della vita,
che la cultura della morte e dello scarto
regni incontrastata
nel terzo millennio dell’era cristiana,
quando più forte ed esigente
si fa il bisogno di umana accoglienza
della vita nascente o che volge al termine,
di quella vita di ogni fratello e sorella della Terra
che ha il diritto di vivere dignitosamente.

Tu, Signore della gioia e della gloria
reca letizia e speranza,
in questa Pasqua della misericordia,
a quanti sono afflitti e sconfortati
per la mancanza di un lavoro, di una patria,
dei beni di prima necessità
e di tutto ciò che rende veramente umana
ogni vita umana.

Dal Paradiso, ove sei asceso per prepararci
un posto nel Tuo Regno,
tra la schiera degli Angeli e dei Santi,
continua ad inviare messaggeri di pace
in ogni angolo della Terra,
dove maggiore è il bisogno
di parlare di amore e non di odio,
di vera religione e non di falsa credenza,
di un Dio Amore,
che è Padre, Figlio e Spirito Santo,
come Tu ci hai rivelato,
durante il Tuo breve pellegrinaggio
tra questa umanità,
quando Ti sei abbassato
alla nostra condizione umana
e ci hai redento con il tuo sangue.

Maria, Madre della risurrezione e della vita,
associata a Te nella passione, morte e risurrezione
ci guidi nel cammino della vita di ogni giorno,
tra i tanti calvari di questo mondo,
ci protegga sempre in ogni situazione
per prepararci ad incontrare Te,
nel santo Paradiso,
Dio della vita, della gioia, dell’amore
e della misericordia senza fine. Amen

DOMENICA DELLE PALME 2016. LA RIFLESSIONE DI P.ANTONIO RUNGI

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DOMENICA DELLE PALME (ANNO C)

DOMENICA 20 MARZO 2016

LA PALMA E LA CROCE DELLA MISERICORDIA

Commento di padre Antonio Rungi

Questa che celebriamo oggi è la domenica della Passione, meglio conosciuta come Domenica delle Palme. E’ una domenica speciale, per molti versi più sentita della stessa Pasqua, per un duplice motivo di fondo. Il primo è il simbolo della pace, che è la palma benedetta, che ci scambieremo in segno di ritrovata amicizia e comunicazione tra noi o conferma e potenziamento di tale esperienza umana gratificante; il secondo è il simbolo della croce, di cui facciamo memoria attraverso la lettura della passione di Gesù Cristo. In questa domenica delle Palme e della Passione di Cristo, noi possiamo bene dire di benedire la Palma della Misericordia e di accostarci alla Croce della Misericordia. L’anno giubilare che stiamo vivendo ci immerge sempre più nel mistero della misericordia di Dio, che trova il suo punto culminate nel mistero della morte e della risurrezione di Gesù. Oggi, con la benedizione delle palme e con la lettura del Passio entriamo nella settimana maggiore, la settimana più importante da un punto di vista liturgico e soprattutto il triduo pasquale. In questi giorni, a partire da questa celebrazione festiva, ma anche di dolore, noi siamo chiamati a metterci sui passi del Salvatore, di Gesù Cristo, l’inviato del Padre che viene a noi come messaggero di pace. Il suo ingresso a Gerusalemme accolto da una folla festante è il grande segno di questa speciale attenzione che la gente semplice, di allora come di oggi, presta al Messia. Il quale non entra in Gerusalemme con cavalli, esercito o in veste regale, ma su una mula e con un semplice mantello di stoffa di poco conto e poverissimo. Gesù come Re fa ingresso nella città santa con le insegne regali della misericordia, del perdono, della pace e della riconciliazione. Viene per il popolo di Israele, ma anche per noi, cristiani di questo tempo, con la segreta speranza di cambiare il nostro cuore, da un cuore di pietra e di indifferenza, ad un cuore di carne e di attenzione verso gli altri. Il simbolo con il quale gli abitanti di Gerusalemme lo accolgono è quel ramo di ulivo che riporta alla storia della salvezza dopo la tragedia del diluvio universale. Segno della rappacificazione cosmica e della purificazione di un mondo, oggi ci viene riproposto come segno di rappacificazione tra di noi, segno della misercordia, che significa avere un cuore buono e tenero verso ogni uomo e donna di questa martoriata terra. La Domenica delle Palme è perciò a ben ragione la domenica della misericordia, del perdono e della riconciliazione, tra tutti noi esseri umani che spesso invece di vivere in pace, preferiamo vivere in una guerra continua con noi stessi, con gli altri e con il mondo intere. Il principe della pace, Gesù, viene a portare la gioia del perdono in una Gerusalemme deserta, per mancanza di fede, di speranza e di amore, simbolo delle tante città, popoli e nazioni della società di oggi, dove Dio non trova più posto, non solo per nascere, ma neppure per morire e farllo risorgere nel cuore e nell’intimo di chi crede in Dio. Chiediamo al Signore, in questo giorno della palma misericordiosa e della croce benedetta, quello che il sacerdote rivolge al Signore, all’inizio del rito della benedizione delle Palme: “Fratelli carissimi,
questa assemblea liturgica è preludio alla Pasqua del Signore, alla quale ci stiamo preparando con la penitenza e con le opere di carità fin dall’inizio della Quaresima.
Gesù entra in Gerusalemme per dare compimento al mistero della sua morte e risurrezione. Accompagniamo con fede e devozione il nostro Salvatore nel suo ingresso nella città santa, e chiediamo la grazia di seguirlo fino alla croce, per essere partecipi della sua risurrezione”. Noi dobbiamo accompagnare Gesù vero il calvario. Non ci possiamo tirare indietro. Non scompariamo dalla sua vista e dai suoi occhi che sprizzano amore e misericordia, anche se incastonati in un volto insanguinato. Non abbiamo paura di guardare in faccia ad un Dio crocifisso per amore e che per riconciliare il mondo con l’eternità, offre se stesso sul patibolo della croce, un supplizio il più ignobile che possa esistere per uccidere un uomo e soprattutto Lui, il nostro Signore, l’Agnello immacolato, che muore sull’altare per ridonare pace al genere umano. Immergiamoci oggi in questo grande mistero dell’amore di Dio, che nella sua passione, morte e risurrezione ci ridona speranza e vita nuova. L’immagine del crocifisso, l’Ecce Homo, ci accompagni in questi giorni santi, non solo meditando sul grande mistero della sofferenza di un Dio innocente, ma anche sulla sofferenza di tanti innocenti della terra, a partire dai tanti bambini uccisi dalla guerra, dalla violenza, dalla fame, dalla globalizzazione dell’indifferenza, nel silenzio più assordante di un mondo che non ama guardare in faccia alla realtà, ma che preferisce narcotizzarsi con varie droghe culturali, ideologiche, religiose, politiche, economiche che non vanno nella direzione giusta, non vanno verso Dio e verso Cristo e per ciò stesso non vanno verso l’uomo e l’umanità. Consapevoli dell’infinito amore di Dio verso di noi, meditiamo sulla passione di Cristo, come hanno fatto tutti i santi della Chiesa, a partire dai primi martiri del cristianesimo, fino agli ultimi della immensa schiera di quanti per amore di Cristo e dei fratelli hanno donato la vita per la causa del vangelo, come le quattro suore Figlie della Carità della Beata Teresa di Calcutta uccise nei giorni scorsi nello Yemen. L’inno cristologico della lettera di San Paolo Apostolo ai Filippesi, ci aiuterà moltissimo a fare un cammino di vera conversione, di vero rinnovamento spirituale per questa Pasqua 2016, che è la Pasqua dell’anno giubilare della misericordia. La sintesi di questa croce misericordiosa di Gesù, la troviamo espresso in modo esemplare in questo bellissimo brano, che dovremmo sempre avere davanti agli occhi e nella nostra mente per bene operare con noi stessi e con gli altri: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”.

Il racconto della passione di Cristo, tratto dal Vangelo di Luca che oggi ascolteremo ci darà ulteriori elementi di riflessione e di approfondimento, ma soprattutto per chiedere davvero perdono a Gesù, ai sui piedi come Maria, l’apostolo prediletto, le pie donni e i soldati convertiti. Non lo facciamo passare invano o scivolare nel nostro cervello, ma chiediamo davvero al Signore, per intercessione della Madonna Addolorata, che in questo venerdì l’abbiamo ricordata come “Desolata”, che la Passione di Gesù Cristo sia sempre impressa nei nostri cuori.  E con questo spirito di attenzione a colui che muore per noi sulla croce, questa nostra attenzione si sposti in questi giorni su quanti stanno morendo e soffrendo, come Gesù in Croce, nel silenzio più coerente con la propria fede cristiano che ci invia a rivolgere lo sguardo a Colui che è stato trafitto e crocifisso per amore, per l’amore verso ognuno di noi. Domenica delle Palme è il giorno per leggere nei disegni di Dio la sua volontà su ciascuno di noi e su tutta l’umanità.

Sia questa la preghiera augurale per noi e per gli altri in questa giornata di pace e di fraternità universale, che abbiamo la possibilità di essere vissuta almeno per 24 ore, con la palma in mano come i martiri di ieri e di sempre: “Accresci, o Dio, la fede di chi spera in te, e concedi a noi tuoi fedeli, che rechiamo questi rami  in onore di Cristo trionfante,  di rimanere uniti a lui,  per portare frutti di opere buone”. Amen

COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA

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V DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO C)

Domenica 13 marzo 2016 

La misericordia di Cristo verso l’adultera 

Commento di padre Antonio Rungi 

Verso la fine del tempo quaresimale (oggi celebriamo la quinta domenica) la parola di Dio ritorna sul tema della misericordia. Un tema centrale nel vangelo e che in questo anno giubilare ha un significato particolare. Ci fa vivere e toccare con mano come è grande e infinità la misericordia di Dio, la misericordia di Gesù Cristo. Se nella parabola del figliol prodigo comprendiamo la misericordia di Dio Padre, nel racconto dell’adultera, di cui ci parla il vangelo di Giovanni, comprendiamo la misericordia di Gesù Cristo, Figlio di Dio che, in base alla sua autorità divina può dire alla donna, di fronte ai suoi accusatori che la volevano lapidare, uccidere e massacrare, perché colta in flagrante adulterio: “Donna, nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

Siccome solo a Dio spetta il potere di perdonare il peccato, come spesso ha ricordato nei suoi molteplici interventi di guarigione, soprattutto del paralitico. Affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati, alzati e cammina. E così guarì il paralitico.

La donna che in questo racconto è sotto tiro dei giudizi, ma anche delle armi è una peccatrice, colta nell’atto di offendere il matrimonio. La legge prevedeva la lapidazione della donna e stranamente non la lapidazione dell’uomo. Segno evidente della sudditanza della donna nei confronti dell’uomo e della legge maschilista che ha sempre dominata e domina in certe culture e in certe religioni. Stando a quella legge, la donna doveva morire ed essere quindi lapidata. Gesù non permette che questo avvenga, perché nessuno ha l’autorità di togliere la vita agli altri. La pena di morte con qualsiasi strumento non è legittimata da nessuna legge o peggio religione. La persona umana ha una dignità che, anche nei crimini più efferati, deve seguire la logica del perdono e della misericordia e non dell’odio e della vendetta. Gesù quindi, nella sua piena autorità di Maestro e di nuovo legislatore, la cui legge fondamentale è l’amore: perdona la donna e non la condanna;  ma obbliga anche a tutti i boia presenti al rito dell’esecuzione collettiva della condanna, di riflettere seriamente sulla loro condotta di vita. L’effetto di questa forzata introspezione di quelle persone la descrive in modo molto preciso l’evangelista che era presente al fatto: “Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”. Facile commentare questi versetti del vangelo: nessuno di loro era senza peccato, come nessuno al mondo è senza colpa e senza peccato. Neppure noi che pensiamo di essere più giusti e retti degli altri, solo perché siamo furbi a non farci trovare con le mani nel sacco. Se andiamo bene ad analizzare il nostro cuore e la nostra vita, davvero ci rendiamo conto che nessuno di noi è senza peccato, dai più leggeri o veniali a quelli più pesanti e mortali.

Questo esame di coscienza è possibile farlo a tutto con il Signore. Ed è bello e significativo quello che succede dopo la fuga dei peccatori (che si ritengono giusti) dalla peccatrice pubblica che non si ritiene tale. Giovanni descrive questo bellissimo dialogo tra Gesù e l’adultera con          questo versetto: “Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono?”. Gesù è a tu a tu con quella peccatrice. La donna sta in mezzo a quello spazio della miseria umana, della debolezza umana, una vera e propria agorà della vergogna. Da quella situazione di abbattimento, di prostrazione, di toccare il fondo e la terra, Gesù si erge, si mette in piedi, come facevano e fanno i veri maestri. L’autorità sta nel comando vero che è quello del cuore e dello spirito, della pulizia morale. Gesù fa esattamente questo: nella sua piena autorità di Figlio di Dio, perdona e con condanna; ma raccomanda d non ripetere lo stessa cosa. Se quella donna abbia appreso la lezione di Gesù ed abbia agito d conseguenza non lo sappiamo. L’evangelista Giovanni non vi ritorna sulla notizia, sul caso posto al giudizio del maestro,  dagli scribi e i farisei circa un caso di adulterio.  Ma essi “dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo” e quindi condannarlo a morte anche Lui, visto che la legge mosaica era chiara, in quanto Mosè aveva  comandato di lapidare donne adultere. Vogliono sapere le opinioni di Gesù. E Gesù non si mette a discutere sulla legittimità e validità della legge, sul diritto civile o diritto penale, si mette a scrivere a terra e dice poche parole ai presenti:Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra”. Una grande lezione della bontà e della misericordia divina. Quella lezione che dovremmo apprendere tutti e che dovrebbe ispirare il nostro comportamento in tantissime e frequentissime situazioni del genere che si verificano ai noi giorni. Non siamo nessuno da potere giudicare gli altri; ma solo Dio può comprendere il cuore dell’uomo e valutarlo nella sua interezza.  Bisogna riappropriarsi delle bellissime ed incoraggianti parole della prima lettura di questa quinta domenica di Quaresima, che da sole ti fanno assaporare la vera Pasqua della nostra vita, come ci ricorda il profeta Isaia nel brano della prima lettura di oggi: “Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo; essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi». Oppure immergerci totalmente nel pensiero di Cristo, come scrive l’apostolo Paolo nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla sua lettera ai Filippesi: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti”. Guardare avanti e non voltarsi indietro. Le cose di prima sono passate. Sono passate anche le nostre debolezze, i nostri peccati, i nostri errori e le nostre ipocrisie. Ora è tempo di guardare oltre, all’eternità. La meta è ancora lontana, ma bisogna sforzarsi per arrivarci in buono stato di salute spirituale, perché il Paradiso è per tutti e non solo per alcuni o pochi eletti. La corsa si fa difficile e stancante, ma alla meta bisogna arrivarci. Sia, perciò, quella nostra umile preghiera che innalziamo al Signore in questo giorno di festa:  Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Amen.

COMMENTO ALLA QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA – 6 MARZO 2016

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IV DOMENICA DI QUARESIMA – LAETARE (ANNO C)
DOMENICA 6 MARZO 2016

NEL CUORE DELLA MISERICORDIA DI DIO: LA GIOIA DEL PERDONO.

Commento di padre Antonio Rungi

Con la quarta domenica di Quaresima, detta della letizia entriamo nel pieno dell’anno giubilare e del vero significato di questo tempo di grazia, che è tempo di misericordia. Se come ha detto Gesù c’è più gioia in cielo per un peccatore che si pente e non per 99 che si ritengono giusti, oggi è la domenica in cui facciamo festa e siamo nella gioia perché ci viene in aiuto e a nostro conforto il testo del vangelo di questa domenica che è dedicato alla parabola del figliol prodigo. E’ una delle tre parabole della misericordia su cui siamo chiamati a riflettere in questo giorno in particolare ma anche per tutta la vita: Dio essenzialmente è amore e misericordia. E non è difficile capirlo. Basta accostarsi con animo sincero al testo di questa parabola per comprendere dove sta esattamente il cuore di Dio: sta dalla parte dei suoi figli che sono lontani da lui, che hanno deciso, nella loro piena e legittima libertà, proprio concessa dal creatore all’uomo, di camminare per strade che non sono quelle del Signore. Il figliol prodigo che va via dalla casa del Padre è il peccatore che esce dalla comunione con Dio e rompe ogni legame con il Signore, in attesa del ripensamento e del ritorno. Dio non si stanca di aspettare, fino all’ultimo istante di ogni persona, questo ritorno. E lui ci attende non solo sull’uscio della chiesa, per darci il perdono qui su questa terra, mediante il sacramento della confessione; ma ci attende sull’uscio del paradiso, per donarci la felicità senza fine. Sta a noi entrare in questo cammino di ritorno a Dio da celebrare continuamente con una forte comunione di grazia e in grazia con Lui. Il modo per farlo è mettersi nella condizione di quel che realmente siamo: peccatori e perciò bisognosi di perdono e di misericordia di Dio. Non illudiamo noi stessi e gli altri: siamo tutti peccatori e perciò stesso abbiamo bisogno del suo perdono. Sta a noi chiederlo questo perdono ed ottenerlo da Dio, secondo le modalità che noi ben conosciamo, che non è una confessione frettolosa, affrettata, ma un profondo e radicale cambiamento della vita, in sintonia con la volontà di Dio, di quel Padre che è tenerezza e compassione. Di quel padre che scruta l’orizzonte della storia e del mondo e scruta l’orizzonte del nostro cuore, spesso privo di quel rosso di sera, che fa ben sperare per l’avvenire personale a livello spirituale. Molte volte questo orizzonte è cupo e intristito dal male e dalla mancanza di speranza ed anche in queste situazioni limite si cala forte lo sguardo di Dio, che ne cambia le sorti e le prospettive. Mettiamo sulle nostre labbra le espressioni di un sincero pentimento del cuore e della vita che pronunciò il figlio prodigo nella parabola raccontata da Gesù e che suscitò nei presenti reazioni diverse: “Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre”. Ci vogliamo alzare dalla nostra depressione spirituale, dalla mancanza di fede, speranza, amore e gioia. Vogliamo, stando a contatto con Dio, sperimentare la gioia sempre, nonostante le nostre gravi lacune e deficienze spirituali. Lontano dai nostri pensieri l’atteggiamento del figli maggiore, geloso e risentito, per il ritorno del fratello, morto e poi ritornato in vita, al quale il Padre dedica una festa senza paragoni e senza precedenti. Quanto è difficile capire, quando si sta nella grazia, nell’amicizia e nella vicinanza a Dio, tale grande bene che si possiede. Quel bene di cui non si è accorto il figlio “santo”, perfetto e vicino al padre, che non è scappato via, non ha chiesto nulla, ha avuto tuttavia tutto, ma non ha saputo gioire di quello che aveva: la grazia di stare vicino a Dio. Quanti cristiani non sanno apprezzare la fede, la grazia che hanno vivendo vicino alla Chiesa, praticando e condividendo i progetti pastorali e spirituali a tutti i livelli e in ogni tempo. Forse anche loro avvertono il desiderio di andare via, come ha fatto, sbagliando, il figlio più piccolo ed incosciente, quando ha deciso di rompere il legame interiore e profondo con il Padre. Solo i santi hanno saputo capire quanto è brutto e disastroso vivere nel peccato; per cui si confessavano spesso e avevano tanti scrupoli e trovavano in essi tante imperfezioni.  Non bisogna crogiolarsi nei peccati; anzi bisogna riemergere da esso prima che sia troppo tardi, prima che si abbia toccato il fondo del disastro morale più grave. Non dobbiamo attendere i tempi del figliol prodigo per rinsavire dalle nostre condotte non buone.  E non diciamo mai, e poi mai: io sono senza peccato. Che peccato faccio o posso fare? In questo caso saremo un po’ come il fariseo al tempio che vantava davanti a Dio la sua presunta perfezione legale ed esteriore della legge, ma senza cuore e senza amore verso il Signore e verso gli altri, al punto tale che giudica il pubblicano come peccatore, da allontanare. Mentre quel povero pubblicano, già riconosciuto di fatto peccatore pubblico per il pessimo ruolo ed ufficio che ricopriva, si batteva il petto e chiedeva perdono, non si avvicinava alla parte più sacra del tempio, né alzava gli occhi al cielo, perché si considerava indegno. Stessa situazione che ha vissuto il figliol prodigo quando ha preso coscienza del suo stato di immoralità in cui si è trovato, dopo l’allontanamento dalla casa del Padre. Facciamo nostre le bellissime parola, scritte da Paolo Apostolo ai suoi cristiani di Corinto, nel breve brano della lettura di oggi, tratta dalla seconda lettera a questi problematici cristiani del suo tempo e a questa comunità alquanto vivace:  “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. Oppure immergiamoci nell’esperienza esodale che, è esperienza di gioia e di libertà, come ci rammenta la prima lettura di oggi, tratta dal Libro di Giosué, colui che ebbe il dono di vedere la terra della libertà, la terra promessa, la terra della vera gioia che il Signore donò al suo popolo, di mettere piede fisico e spirituale su di essa: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan”. Togliere l’infamia dal nostro volto e dal volto dei nostri fratelli è questo il compito che spetta ad ogni cristiano seriamente intenzionato a fare la Pasqua e lasciare la via del peccato per vivere nella grazia di Dio, soprattutto in questo anno giubilare, durante il quale la misericordia non è solo un annuncio o una catechesi, ma è esperienza vera di un Dio buono e misericordioso, lento all’ira e ricco nel perdono, che ci attende per parlare al nostro cuore, per cambiare in bene e in vero bene la nostra vita. Con il profeta Isaia cantiamo con gioia: “Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione”.

E con il salmista proclamiamo: “Ho cercato il Signore: mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato. Guardate a lui e sarete raggianti, i vostri volti non dovranno arrossire. Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce”. La nostra vera gioia è liberarci da angosce e paure di qualsiasi genere, perché chi sta con Dio non ha paura di nulla in questa vita e nell’eternità, ma vive solo nella dimensione gioiosa dell’esistenza umana.

 

P.RUNGI. COMMENTO ALLA V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 7 FEBBRAIO 2016

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DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

7 FEBBRAIO 2016

 

CHIAMATI PER PURIFICARE LA MENTE E IL CUORE

 

Commento di padre Antonio Rungi

 

La chiave interpretativa della parola di Dio di questa quinta domenica del tempo ordinario, è sicuramente il testo della prima lettura, tratto dal profeta Isaia, nel quale la coraggiosa voce del grande profeta dell’Antico Testamento si alza per denunciare tutto il male presente nel suo tempo, verso cui grida forte la parola purificazione della mente, del cuore, delle labbra. Una purificazione completa di tutto il popolo di Dio, se vuole riprendere il dialogo con l’Altissimo. In una precisa e dettagliata visione che il profeta ha del Signore, egli si sente inviato, anzi, si rende disponibile per una missione impossibile, quella della purificazione. Nell’anno santo della Misericordia, penso, alla missione di Papa Francesco che, ispirato da Dio, ha indetto questo anno giubilare, proprio per attuare in noi una vera e completa purificazione interiore.

Il profeta, prima di parlare agli altri, guarda se stesso. E’ lui per primo a riconoscersi peccatore, in quanto uomo dalle labbra impure; in secondo luogo, perché comprende che si trova davanti ad un popolo immerso nella impurità e che necessita di essere risanato. Guardandosi intorno e non avendo possibilità di trovare qualcuno che possa portare avanti questa missione di purificazione, Isaia offre se stesso e con grande semplicità si rivolge al Signore e dice: manda me a convertire la gente, perché possa ritornare sulla retta strada. «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti».

Il profeta non si scoraggia e si abbandona pienamente alla volontà di Dio, che si manifesta a lui mediante l’intervento di uno dei serafini, il quale gli tocca la bocca e lo purifica, al punto tale che dopo, questo rituale di purificazione, Isaia parte per la sua missione e può, in una condizione nuova da un punto di vista religioso e spirituale, parlare al popolo e richiamarlo ai propri doveri.

E’ sempre vero che bisogna iniziare da se stessi il cammino di conversione, per poi avventurarsi nell’esperienza della purificazione degli altri. «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». In una nuova condizione spirituale, il profeta può ora parlare in nome di Dio ed essere credibile in base alla sua testimonianza di vita e al suo stato di salute spirituale. La parola di Dio che egli trasmette, avrà la sua efficacia e produrrà l’effetto benefico sperato.

Anche san Paolo Apostolo nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla Prima Lettera ai Corinzi, sente la responsabilità dell’annuncio del mistero della redenzione portato a termine con la Pasqua di Gesù Cristo. Con precisi riferimenti alla storia della salvezza partendo appunto dalla Pasqua di Cristo, all’apparizione del Risorto a Pietro, poi agli altri apostoli ed infine ad un gruppo numeroso di altri credenti e discepoli del Signore, egli fa capire nettamente a quale ruolo è stato chiamato direttamente da Dio. Dopo l’apparizione a Paolo dello stesso Gesù sulla via di Damasco, al momento della sua conversione e alla sua purificazione, alla vita nuova che inizia in Gesù Cristo, egli lascia totalmente la vita passata e precedente, senza alcun ripianto e scrive di se stesso: “Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me”.

Le fatiche missionarie del grande apostolo delle genti, lo portano a consolidarsi sempre più nel suo ministero, al punto tale che proprio rivolgendosi ai cristiani di Corinto, egli scrive:  “Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto”.

La trasmissione veritiera del dato di fede lo incoraggia nel ministero al punto tale che non si ferma mai, va avanti per la sua strada di far conoscere Cristo ai lontani.

La chiamata alla missione e all’apostolato ci viene ricordata anche nel testo del Vangelo di oggi, quando Gesù, dopo aver compiuto il miracolo della pesca eccezionale, ha un importante e sentito dialogo con Pietro. Questo umile pescatore, dopo l’evento prodigioso, ha compresso che si trova davanti al Messia e si rivolge al Signore con parole, degne di attenzione e riflessione da parte nostra: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Chi vive nel peccato sta lontano da Dio e la sua condizione di peccatore, non può assolutamente permettere di stare vicino alla fonte della luce, quando si è tenebra nel cuore e nella mente. Pietro comprende e inizia, da subito, il cammino di avvicinamento al Signore con una risposta piena all’amore di Dio.

Da quel momento la conversione del cuore e della mente, la purificazione di Pietro e dei suoi compagni di lavoro si è concretizzata, al punto tale che lasciano ogni cosa e si mettono alla sequela di Gesù. Il Signore, infatti, dice a Pietro: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.

Il grande gesto e il maturo coraggio di abbandonare ogni cosa per seguire il richiamo di Dio ci fa da sprona ad abbandonare ogni cosa che ci porta lontano da Dio, a ritornare a Lui con cuore davvero pentito.

La Madonna ci aiuti a discernere meglio la volontà divina e a metterla in pratica, con o senza strumenti in nostro possesso, nell’assoluta povertà dei nostri mezzi, ma pienamente abbondonati alla volontà di Colui che vuole solo la nostra felicità e il nostro vero bene, che è il Signore, redentore dell’uomo.

Sia questa la nostra preghiera oggi: “Dio di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure  e alle nostre fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo, sostienici con il tuo Spirito, perché la tua parola, accolta da cuori aperti e generosi, fruttifichi in ogni parte della terra”. Amen.

COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA 24 GENNAIO 2016

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TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
DOMENICA 24 GENNAIO 2016 

GESU’ GIUBILEO DELLA MISERCORDIA DEL PADRE

Commento di padre Antonio Rungi 

Nell’anno giubilare della misericordia, in questa terza domenica del tempo ordinario dell’anno liturgico, risuona con particolare significato la parola di Dio che ascoltiamo nella liturgia della santa messa di oggi. E’ nel testo del vangelo di Luca, che ci racconta della presenza di Gesù a Nazaret, nella sinagoga del paese dove ha vissuto la sua infanzia, fino al momento dell’attività missionaria, ove ha l’opportunità, come tutti gli israeliti di leggere la parola di Dio.  Gli capitò in quel sabato di leggere il testo del profeta Isaia, ben noto, in cui si parla appunto della venuta del messia, del tempo della liberazione ed anche dell’anno giubilare, l’anno in cui più potente si faceva e si fa il dono della misericordia verso tutti e verso gli ultimi, i poveri, i carcerati, coloro che erano e sono soggiacenti in ogni forma di schiavitù morale, spirituale materiale. Gesù si fa proprio quel testo profetico dell’Antico Testamento e lo adatta alla sua missione e alla sua presenza nel mondo. «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato», egli dice si realizza tutto quello che aveva detto il profeta. Ma cosa aveva previsto, prefigurato il grande profeta della libertà? Vedeva nella venuta del Signore il tempo della misericordia, della liberazione, del ritorno ad una vita davvero felice. «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». In verità anche il profeta Neemia, nel brano della prima lettura di questa domenica ci racconta della liturgia della parola di Dio, che si usava celebrare presso gli Israeliti. In gioco ci sono gli addetti alla proclamazione della parola del Signore, che, nel caso specifico, è il sacerdote Esdra, il quale “portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza.  Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore”. L’importanza e la sacralità delle lettura della parola di Dio è ben nota presso il popolo d’Israele come è facile capire da questo testo. Il grande rispetto e la venerazione che si deve alla parola di Dio è accreditata in modo certo presso il nuovo popolo di Dio, la comunità cristiana che era assidua, fin dai primi tempi dopo la risurrezione di Cristo e la sua Ascensione al cielo e con l’invio dello Spirito Santo, nella lettura della parola di Dio e nell’insegnamento degli Apostoli. Anche le comunità cristiane come la comunità ebraica si nutrivano della parola di Dio e continuano a nutrirsi, attraverso varie forme di celebrazione della parola, tra cui eminentemente nella celebrazione della santa messa. La prima parte della celebrazione eucaristica è, infatti, dedicata alla liturgia della parola. Quella parola che abbiamo ascoltato e che insieme, anche in questa domenica, diventa cibo per le nostre anime e sulla quale meditiamo, riflettiamo e promettiamo di operare coerentemente con essa. E’ interessante, proprio attingendo dal testo della prima lettura di oggi, quale dignità avesse la parola di Dio presso il popolo di Israele e con quanta responsabilità, mansione ed attenzione ci si accostava ad essa specie nella proclamazione in pubblico dei testi sacri. Non ci si inventava lettori e come vengono detti, leviti, cioè addetti alla liturgia, ma si veniva formati alla proclamazione ufficiale ed in pubblica assemblea della parola di Dio. Infatti, i levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura”. Come si vede la parola veniva proclamata e commentata: catechesi, omelie, spiegazione dei testi sacri hanno una storia che parte dagli ebrei, i nostri fratelli maggiori nella fede e gli specialisti della lettura della Legge di Dio e dell’antica alleanza. Nella lettura pubblica della parola di Dio non erano esclusi gli uomini politici, coloro che detenevano il potere. Infatti alla lettura è presente anche Neemia. I vari personaggi citati nel brano, e cioè  Neemìa, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti,  ammaestravano il popolo dicendo a tutti i presenti: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». In poche parole è il sabato ebraico, divenuto la nostra domenica, giorno del Signore, durante il quale è dovere di tutti i credenti “fare festa ed abbandonare l’abito di lutto e del dolore”. Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. Una festa che parte dall’ascolto della parola e si estende nella vita familiare e sociale. Non senza motivo  Neemìa disse al popolo dopo aver ascoltato la parola: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza». Fare festa con un lauto convito, ma anche far fare festa a chi era sprovvisto di cibo. Non è domenica se non solleviamo la sofferenza di chi sta nella necessità ed ha bisogno del cibo materiale. Questa è un dovere morale, oltre che un obbligo civile su tutta la terra. A nessuno deve mancare il cibo della festa, ma anche il cibo della quotidianità. Ma questo è un sogno che non si realizza, se tutti pensano a soddisfare il proprio stomaco senza considerare le necessità degli altri. Il giubileo che stiamo celebrando ci chiede espressamente di vivere ed attuare le opere di misericordia corporale e spirituale a partire da quel dar da mangiare agli affamati che deve entrare nel nostro sistema d vita e non solo di pensiero. Tutto questo sarà possibile anche per noi cristiani del XXI secolo che formiamo un corpo solo e ci sentiamo davvero Chiesa, operando come membra vive e vitali in essa, secondo quanto ci dice l’apostolo Paolo nel brano della seconda lettura di oggi: “Come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra”. Sia questa la nostra sentita e convinta preghiera nella domenica dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani e alla vigilia della festa della conversione di San Paolo Apostolo: O Padre, tu hai mandato il Cristo, re e profeta, ad annunziare ai poveri il lieto messaggio del tuo regno, fa’ che la sua parola che oggi risuona nella Chiesa, ci edifichi in un corpo solo e ci renda strumento di liberazione e di salvezza”. Amen.

COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA IV DOMENICA DI AVVENTO 2015

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IV DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C)

DOMENICA 20 DICEMBRE 2015

 

Maria annuncia il Giubileo del suo amato Figlio

 

Commento di padre Antonio Rungi

 

A pochi giorni dal Santo Natale 2015, che è un Natale speciale da un punto di vista spirituale, in quanto è in fase di celebrazione il Giubileo Straordinario della Misericordia, la liturgia della Parola di Dio di questa quarta domenica di Avvento, ci porta davanti alla Grotta di Betlemme, in anticipo, sullo stesso giorno di Natale, per farci contemplare la Vergine Santissimo, in attesa di dare alla luce Gesù, il Figlio di Dio, l’atteso Messia. La Madre della Misericordia, Maria di Nazareth si presenta nel suo ruolo e missione di Madre proprio nel mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, nel suo grembo verginale, per opera dello Spirito Santo.

La gioia di questa attesa nascita, si percepisce da tutto il clima di festa per l’arrivo dell’atteso Messia. Già nella prima lettura di oggi, tratta dal Libro di Michea, si prefigura all’orizzonte l’immagine del Redentore, della sua Madre e del luogo della sua nascita, la Betlemme del Messia, dalla quale «uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti”. 

Betlemme di Èfrata, la più piccola delle realtà umane, sociali ed ambientali della Giudea, sarà la culla della nascita di Gesù. Solo dalle cose umili e piccole, nella logica di Dio e non dell’uomo, che nascono le cose grandi e diventano grandi, per chi le fa grande. E Betlemme diventerà grande, nella storia dell’umanità, perché lì si è incarnato il Figlio di Dio, nel grembo Colei che deve partorire e di fatto partorirà, la Vergine santa ed immacolata.

Il vangelo di Luca che si presenta Maria in visita alla sua anziana cugina, Elisabetta, ci fa comprendere il senso più vero del Natale di oggi e di sempre, soprattutto del Natale del Giubileo della Misericordia. Maria è la prima a vivere le opere della misericordia corporale e spirituale ed è modello di vita cristiana per quanti sono sinceramente incamminati verso la solennità del Natale ed hanno iniziato, con convinzione interiore e personale il cammino giubilare. Ci ricorda e ci racconta l’Evangelista Luca, il grande scrittore e pittore della Madonna, che “In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

Il Natale della gioia è il Natale giubilare. In occasione della giubileo, che nell’antico Israele si celebrava ogni 50 anni, il suo dello jobel, il suo del corno, è un suono di gioia e di festa, di riscatto e di rinascita, di ripresa di un cammino o di un ritorno sulla strada giusta, che si era abbandonata per rincorrere altre possibilità, al di fuori del progetto di Dio e della sua legge. Maria proclama il Giubileo del Suo Figlio. Ed è felice di farlo, comunicando alla sua cugina ciò che stava compiendosi nella sua vita. Da parte sua, Elisabetta annuncia il giubileo del precursore, Giovanni Battista, che lei porta nel suo grembo, per un miracolo della vita, prodotto in lei da Dio, aprendo il suo grembo ad accogliere la vita, nonostante la sua età avanzata e la sterilità conclamata.

La gioia del Natale e il giubileo della misericordia sono sintetizzati in questo storico incontro tra Maria ed Elisabetta, quando a gioire, per prime, sono queste due straordinarie madri, che sono in attesa della nascita dei rispettivi figli: Gesù Cristo e Giovanni Battista.

Il Natale è accoglienza della vita, è difesa della vita, è amore per la vita di tutte le persone umane, senza distinzione di razza, cultura, religione, età e nazione. Gesù nasce su questa terra per salvare tutta la terra e non una parte di essa.

Il testo della seconda lettura di questa quarta domenica di Avvento, tratta dalla Lettera agli Ebrei, ci offre lo spunto per comprendere meglio la missione di Cristo sulla terra: Gesù entrando nel mondo, dice al Padre: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre”. Incarnazione, morte e risurrezione di Cristo è il mistero della nostra fede, dopo quella d’Unità e della Trinità di Dio. In questo mistero dell’incarnazione vogliamo entrare, accompagnati dalla Madre di Gesù e Madre nostra, perché questo Natale della Misericordia, sia un Natale di gioia e di rinnovamento autentico della nostra vita e della vita della comunità dei credenti in Cristo.

Sia questa la nostra preghiera di impetrazione: “O Dio, che hai scelto l’umile figlia di Israele per farne la tua dimora, dona alla Chiesa una totale adesione al tuo volere, perché imitando l’obbedienza del Verbo, venuto nel mondo per servire, esulti con Maria per la tua salvezza e si offra a te in perenne cantico di lode”. Amen.

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA XXXII – 8 NOVEMBRE 2015

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XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Domenica 8 novembre 2015

La carità genera la provvidenza e la conserva per sempre

Commento di padre Antonio Rungi

La carità genera la provvidenza e la conserva per sempre. E’ questa la sintesi della parola di Dio di questa XXXII domenica del tempo ordinario, ad un mese esatto dal grande giubileo della misericordia, indetto da Papa Francesco e che inizia l’8 dicembre prossimo. Partendo, appunto dal testo della prima lettura, nella quale troviamo il Profeta Elia come mendicante per le case di Sarepta, che incontra la generosità di una donna, vedova, con un figlio, per poi passare agli altri testi sulla carità, l’accoglienza e la generosità che sono messi alla nostra attenzione e meditazione in questa domenica, possiamo ben dire con assoluta certezza che solo l’amore cambia il cuore delle persone e il mondo. Acqua e pane di cui viene rifornito Elia da questa povera donna vedova, esprimono un gesto di amore e di carità sincera nei confronti dell’uomo di Dio che, poi, proprio perché può molto presso il Signore, assicura a quella casa il cibo non solo per pochi giorni, ma per sempre. Un gesto di generosità ha un valore di eternità, non si ferma al momento in cui lo facciamo. Davanti a Dio ha un valore immenso.  E la generosità di un’altra donna, anche questa vedova, è messa in risalto nel vangelo di oggi. Nel brano che, infatti, leggiamo in questa domenica, tratto dal Vangelo di Marco, Gesù, dopo la catechesi nel mettere in guardia i suoi discepoli dal lievito dei farisei, condannandoli apertamente per la loro ipocrisia e per la loro osservanza esteriore della legge, si mette ad osservare, da un punto molto preciso, di fronte al tesoro, tutte le persone che lasciano la loro offerta per il tempio di Gerusalemme. E cosa nota? “Come la folla vi gettava monete”. Osserva con rammarico “che tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo”. Poteva essere un fatto scontato, ovvio. Invece Gesù coglie l’occasione per fa notare ai suoi discepoli una cosa importante e che esplicita e manifesta subito con la sua parola di verità:«In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». I gesti di generosità vera e di amore verso Dio e verso il prossimo sono totali, non ammettono il superfluo, ma l’essenziale, ciò che è indispensabile alla propria salute e vita. Chi sa donare a Dio e agli altri questo è sulla strada della verità e della santità. La raccomandazione che ne deriva, è espressa da Gesù nei versetti iniziali del brano del Vangelo di oggi: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».

Questo  monito oggi ha attinenza non solo con il mondo dei non credenti, ma anche con il nostro mondo, il mondo dei cristiani, dei cattolici. Un mondo fatto solo di apparenza, di esibizione,  di mostrarsi ricchi, benestanti e potenti, sfruttando la povera gente.

Quante persone, immoralmente e illegalmente si mangiano, i sacrifici delle persone oneste, che spesso sono private delle cose essenziali e disperate si tolgono la vita o fanno una vita da miseri e da affamati.

Gesù condanna apertamente la spettacolarizzazione della fede e l’ostentazione nel fare il bene.

Se il bene deve essere fatto, come è giusto che sia, lo si faccia nella umiltà e semplicità, senza ostentare superiorità di alcuni genere. Il modello di questo donarsi agli altri, fino al sacrificio totale della propria vita è Gesù stesso e sul suo esempio sono i martiri del tempo di Gesù e della primitiva chiesa, ma anche i martiri di due millenni di era cristiana che hanno testimoniato la loro fede in Gesù Cristo vivendo in gravi disagi e difficoltà, confidando pienamente nella protezione del cielo.

Nel brano della seconda lettura, tratto dalla Lettera agli Ebrei, si comprende perfettamente in quale posto dobbiamo collocarci assumendo come esempio di vita Gesù Redentore. A questo Gesù, mite ed umile, ci dobbiamo ispirare. E per poter realizzare questo sogno possibile basta da osservare e metterle in pratica alcune cose fondamentali: la giustizia, la carità, l’onestà e la rettitudine nei comportamenti umani e sociali, forti della parola di Dio che nel Salmo 145 ci rammenta alcune importanti aspetti della vita di relazione con Dio e sintetizzati nella Colletta di questa Domenica XXXII del tempo ordinario. Infatti nella preghiera iniziale dell’assemblea eucaristica domenicale, preghiamo con queste parole aperte alla speranza e alla fiducia nel Signore:  O Dio, Padre degli orfani e delle vedove, rifugio agli stranieri, giustizia agli oppressi,  sostieni la speranza del povero che confida nel tuo amore, perché mai venga a mancare la libertà e il pane che tu provvedi, e tutti impariamo a donare sull’esempio di colui che ha donato se stesso, Gesù Cristo nostro Signore.  

 

P.RUNGI. I DIECI COMANDAMENTI GIUBILARI

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ITRI (LT). P. RUNGI. I DIECI COMANDAMENTI GIUBILARI

Ad un mese dall’apertura del Giubileo della Misericordia, indetto da Papa Francesco e che avrà inizio l’8 dicembre 2015 a Roma, padre Antonio Rungi, religioso passionista, ha composto un decalogo giubilare, nel quale, indicando dieci regole di comportamento, fissa l’attenzione sui contenuti essenziali per una degna celebrazione dell’anno santo.
I dieci comandamenti giubilari sono fissati in questi suggerimenti ed inviti ad agire a livello personale e comunitario.

 

1. Non avrai altro scopo nella vita che quello di servire Dio.

2. Ricordati che sei un peccatore e devi convertiti a Cristo Salvatore.

3. Non offendere nessuno con le parole e le azioni.

4. Ricordati di perdonare a chi ti ha offeso e di chiedere perdono se hai offeso tu.

5. Non pensare solo a te stesso, ma anche ai fratelli che sono in necessità.

6. Ricordati di fare il bene sempre, anche quando non sei ricambiato su questa terra e dai tuoi parenti.

7. Non essere arrogante, presuntuoso e altezzoso, ma sii umile, disponibile e amorevole verso tutti.

8. Ricordati che il Paradiso lo si conquista facendo il bene ed amando Dio e i fratelli.

9. Non essere, ipocrita, falso e infedele, ma sii coerente con te stesso.

10. Ricordati che la verità viene sempre a galla e che in Dio tutto sarà luce e trasparenza assoluta nell’eternità futura.

“Sono convinto -scrive padre Rungi in una Nota personale – che il prossimo giubileo che è prima di tutto per la Chiesa e per i membri tutti della Chiesa è un forte invito alla conversione personale, alla fedeltà alla propria vocazione battesimale, alla pulizia morale e alla trasparenza nei nostri atti e comportamenti. Questo tempo propizio e di grazia deve far riflettere tutti nella Chiesa di Cristo in questo tempo di forti scossoni, ma sempre pronti a rendere ragione della gioia, della speranza, della fede e dell’amore verso Dio e verso i fratelli in ogni situazione, anche dolorosissima, della nostra vita e di quella della comunità dei credenti. Nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio e dalla sincera volontà di convertirci e fare sempre il bene, nonostante le piccole debolezze dell’esistenza”.