Archivi Mensili: marzo 2015

MONDRAGONE (CE). PRECETTO PASQUALE 2015 A SANT’ANGELO

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Mondragone (Ce). In un clima di vera gioia celebrato il precetto pasquale per il liceo 

di Antonio Rungi 

In un clima di vera e gioia, lunedì 30 marzo 2015, nella Chiesa di San Michele Arcangelo in Mondragone si è tenuto il precetto pasquale del Liceo Scientifico Statale “G.Galilei” di Mondragone. Il rito della santa messa del lunedì santo è stato presieduto don Paolo Marotta parroco di Sant’Angelo in Mondragone. Ha concelebrato con lui, padre Antonio Rungi, docente di  Filosofia e Scienze umane nello stesso liceo mondragonese.

Oltre 300 studenti presenti in chiesa con molti docenti, con il dirigente, professore Giorgio Bovenzi e suoi collaboratori, con i genitori e con il personale della scuola. Bellissimi i canti eseguiti dal “Schola cantorum galileana”, sorta per la circostanza e diretta dalla professoressa Rita Tramonti con l’ausilio di studenti ed ex-studenti liceali che hanno composto il coro e l’orchestra.

Ricca di doni  la processione offertoriale. I giovani hanno portato all’altare il cibo e il denaro per le necessità  delle persone povere del Rione Sant’Angelo. La sola parrocchia assiste oltre 100 famiglie di bisognosi.  

Alcuni momenti forti della celebrazione sono stati: l’accoglienza della parola di Dio portata da una studentessa insieme ad un gruppo di ballo e consegnata nelle mie mani di padre Antonio Rungi, che ha provveduto poi ha proclamare il vangelo di Giovanni della visita di Gesù nella casa di Lazzaro, Maria e Marta. L’unzione e la benedizione con il nardo, portato dalla Terra Santa, di tutti i fedeli che hanno partecipato al rito e che don Paolo e padre Antonio hanno impartita alla fine della messa.

Immediata e partecipativa l’omelia di Don Paolo che ha toccato il cuore e la mente di tutti i presenti. Parole sentite e autentiche quelle dette da padre Antonio Rungi, a conclusione della messa, per ringraziare tutti coloro che avevano reso possibile una simile esperienza di fede e gioia sperimentata in nella giornata del lunedì santo del 2015.

La partecipazione alla celebrazione, resa libera, era stata approvata dal consiglio d’Istituto, dal collegio dei docenti e fortemente voluta dagli studenti e dai genitori degli alunni, ravvisando in questo momento di preghiera una validità occasione per fare esperienza di comunione, condivisione e partecipazione al bene di tutti.

COMMENTO ALLA DOMENICA DELLE PALME – 29 MARZO 2015 – P.RUNGI

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DOMENICA DELLE PALME (ANNO B)

29 marzo 2015 

OSANNA AL FIGLIO DI DAVIDE, CROCIFISSO PER AMORE 

Commento di padre Antonio Rungi 

La domenica delle palme è in verità la domenica della passione di Cristo. La liturgia, di oggi, oltre a fare memoria dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, ci fa meditare, con la lettura del Passio, che oggi è quella del Vangelo di Marco, sul mistero del processo a Gesù Cristo, della sua condanna a morte, del suo viaggio al Calvario, crocifissione e della sua morte in croce. In poche parole riviviamo nella celebrazione di questa domenica della pace e della riconciliazione il cammino d Cristo verso la sua pasqua di morte e risurrezione, che è anche morte e risurrezione per noi. La Pasqua, la Chiesa continua a viverla in profondità con la celebrazione quotidiana, settimanale, annuale della messa di risurrezione, memoriale e attualizzazione, in modo incruente della pasqua del Signore. Fare Pasqua è il motivo perché Gesù entra nella città santa. Come buon discendete della stirpe di Davide, egli è il Re vittorioso che va verso la sua definitiva residenza e destinazione, che non è il tempio di Gerusalemme, nella i palazzi dei potenti, è invece il calvario e la croce, in cui il Cristo viene innalzato per attrarre a sé l’intera umanità verso la riconciliazione e la pace. In questa domenica, tutti noi cristiani, con la palma in mano, segno del martirio per la fede, andiamo incontro al Signore ed una volta incrociato il suo volto, mettiamoci alla sua sequela, facendo lo stesso itinerario del nostro maestro, fino alla morte in croce e alla risurrezione. Siamo festanti per la gioia di aver incontrato Cristo nella nostra vita e questo nostro incontro si trasformi continuamente in un dialogo d’amore con Dio e con i fratelli, mettendoci dalla parte di coloro che lottano per la pace, la giustizia, la verità, la gioia e la felicità che nasce da un cuore veramente riconciliato. Il simbolo della palma benedetta che ci scambieremo fraternamente e con gioia oggi e che porteremo agli anziani, ammalati e sulle tombe dei nostri cari, è tutto un progetto di vita che vogliamo potare al termine, dopo il lungo periodo di incubazione che è stata la Quaresima di quest’anno 2015, che svolge al termine e che ci pone, proprio come punto più alto, di tutta il cammino, la montagna del calvario con Cristo Crocifisso, inchiodato alla Croce e morto per noi sul patibolo più ignominioso per un uomo. Il nostro osanna sia rivolto a Gesù che entra in Gerusalemme, acclamato con Re e atteso Messia del popolo di Israele, ma il nostro osanna sia più forte e convincente nel rivolgere la nostra preghiera al Servo sofferente del Signore a  Cristo Crocifisso, morto e risorto per noi, come ci invita a fare il profeta Isaia, nel brano della prima lettura di questo giorno di luce e tenebre, di amore ed odio, di gioia e di dolore: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso”. 

Essere discepoli del crocifisso ed avere parole di conforto e di incoraggiamento verso coloro che sono crocifissi con il Crocifisso e nel Crocifisso. Prestare attenzione a ciò che il Signore vuole da noi, in questo discepolato che ci impegna anche a portare la nostra croce. Non c’è vero cristiano senza la croce di Gesù.

Nel salmo responsoriale di oggi, tratto dal salmo 21, è trovata descritta in anticipo tutta la passione di Cristo, anche nella stessa terminologia biblica usata da Gesù sulla Croce, che Egli ben conosceva: Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

E poi la bellissima riflessione-preghiera di questo salmo che ti fa toccare con mano il grande mistero del dolore e della sofferenza del Signore: Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: «Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!». Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa.  Si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte. Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto. Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza d’Israele”.

La teologia del croce, il contenuto più completo di tutto il mistero di Gesù Crocifisso, la troviamo sintetizzato nel ben noto passo della Lettera ai Filippesi di San Paolo Apostolo:  “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

L’umiltà di Cristo, la sua obbedienza al Padre nella missione affidatagli per la salvezza del genere umano, fino al compimento supremo della morte in croce; la centralità di Cristo nel piano della redenzione e della glorificazione, sono temi molto cari all’Apostolo Paolo che in questo bellissimo brano della lettera ai Filippesi coglie con precisione estrema la venuta, la missione, la glorificazione di Gesù, verso cui converge ogni cosa, ogni realtà terrena, umana, celestiale.

Nel rinnovare il nostro grazie infinito alla Santissima Trinità per l’opera della redenzione, in questa domenica delle Palme il nostro sguardo si fissa più che mai sul Crocifisso, sull’uomo della Croce, che è Cristo Salvatore e a Lui ci rivolgiamo con questa preghiera:

Sul monte del dolore,Tu, Signore della Croce,

sei salito per amore, salvando il mondo intero

dalla vera sofferenza.

 

Gesù, vittima pasquale, che ti sei donato al Padre,

in totale obbedienza alla sua volontà,

fa che la nostra vita sia in obbedienza alla volontà di Dio.

 

O, Gesù, morente sulla Croce,

non permettere a questo mondo di dimenticare il tuo dolore,

causando morte e distruzione in odio alla religione.

 

Guarda dalla Croce coloro che portano tante croci,

dalle più leggere alle più pesanti,

senza lamentarsi mai.

 

Proteggi la sofferenza innocente di tanti bambini, donne ed uomini

che soffrono in ogni parte della terra,

senza avere il minimo conforto da quella carità fraterna

che spegne il fuoco di ogni sofferenza.

 

Fa che noi, viandanti della croce e con la croce,

pellegrini del dolore, che ci lamentiamo di ogni minimo dolore,

sappiamo guardare alla tua Croce

e nella preghiera di ringraziamento,

rinnovare l’ impegno di seguirti  fino al Calvario,

ben sapendo che chi vuole venire dietro a Te,

deve prendere la sua croce, ogni giorno

e camminare speditamente verso le alte mete

dell’amore e dell’oblazione.

 

Signore della Croce, donaci la forza

di portare con dignità le nostre croci quotidiane,

quelle che Tu ci doni per amore e per purificazione,

quelle che ci arrivano inaspettate,

dalla nostra condizione umana.

 

Signore della Croce, abbi pietà di noi peccatori,

di noi che abbiamo messo sulle spalle degli altri

le nostri croci, perché incapaci di amare e di sacrificarci per gli altri.

 

Signore della Croce,

dona pace al nostro cuore inquieto e irrequieto,

finquando,  rassegnandosi alla tua volontà,

non riposa in Te per l’eternità. Amen

(Preghiera di padre Antonio Rungi)

 

Napoli. Le Monache passioniste che hanno abbracciato Papa Francesco

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Napoli. Le Monache passioniste che hanno abbracciato Papa Francesco 

di Antonio Rungi 

Le immagini in diretta Tv, le interviste e questa sera anche il Tg1 della Rai hanno portato le monache passioniste del Convento di San Giacomo dei Capri in Napoli al centro e all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, per il gesto spontaneo di affetto e rispetto che hanno fatto nei confronti di Papa Francesco, nella sua visita a Napoli, il 21 marzo scorso. Scena vissuta nel Duomo di Napoli, all’inizio dell’incontro del Papa con i sacerdoti e i religiosi, lì convenuti. Cosa è successo è la madre  Giuliana, Presidente della federazione dei quattro monasteri delle passioniste: Napoli, Vignanello, Ovada e Maumere in Indonesia, a raccontarlo. E la maggior parte delle monache sono infatti di origine indonesiane, arrivate al monastero per interessamento del Cardinale Sepe, dell’allora provinciale dei passionisti di Napoli, padre Antonio Rungi, dell’assistente nazionale delle passioniste, del tempo, padre Giovanni Giorgi e del compianto monsignor Piergiorgio Silvano Nesti, allora segretario della Congregazione degli istituti di vita consacrata e delle società apostoliche. Nel convento di via San Giacomo dei Capri,  vivono oggi  12 consorelle, tra cui alcune italiane e il resto indonesiane.

«È stato un attimo –racconta madre Giuliana, la superiora o presidente –  ci siamo guardate tra noi, un cenno con la testa. Quando abbiamo visto che intorno al Papa si allentava la sicurezza vaticana siamo partite. A razzo, imprendibili. Non ci avrebbe fermato nessuno in quei pochi metri che ci separavano dalla sedia del Papa». Con lei, sabato pomeriggio c’erano anche madre Bernardetta, suor Cornelia, suor Firmina e suor Brigida, tutte del monastero di clausura dell’ordine di Santa Croce di Nostro Signore Gesù Cristo, suore passioniste. Tutte insieme hanno travolto la sicurezza. A parlare a lungo con il Papa è stata suor Bernardetta, da circa 20 anni nel monastero di Napoli, dove ha svolto l’ufficio di superiora-presidente, proveniente da Tarquinia e richiesta per tale compito. Madre Bernardetta ha precisato il perché di quel gesto spontaneo ed immediato che ha potuto sorprendere tutti, ma noi no. Perché è stato così spontaneo e immediato che non ci abbiamo pensato due volte. Il risultati si sono visti subito, compreso lo scherzoso intervento del cardinale Crescenzio Sepe che conosce benissimo le Monache Passioniste, dove spesso si recava e si reca per le visite pastorali. Forse il Papa è rimasto sorpreso, ma alla fine ha accettato di buon grado il gesto di affetto e riverenza manifestato nei suoi riguardi dalle suore passioniste e di altri ordini e congregazioni.

Racconta suor Giuliana: «Noi abbiamo atteso che una di noi andasse a consegnare il primo regalo, poi siamo partite tutte. Il cerimoniale prevedeva questo gesto dopo l’intervento del Papa. Noi abbiamo anticipato a sorpresa tutti, lo stesso Papa, Cardinale Sepe, e sicurezza vaticana, fuori da ogni protocollo, come è Papa Francesco”.

La gioia e sorpresa del Papa è stata avallata poi dal suo intervento proprio nel Duomo. Non ha letto il testo scritto, consegnandolo personalmente al cardinale Sepe, ma rispondendo alle domande poste dai due vicari episcopali, quello presbiterale e quello della vita consacrata, ha utilizzato le confidenze proprio di Madre Bernardetta, parlando della benedizione in articulo mortis e della su volontà di andare a potenziare il monastero delle passioniste di Tarquinia, intesa da Papa come volontà di andare in missione. Il dialogo tra il Papa e Madre Bernardetta è stato incentrato su questo argomento, al punto tale che Madre Bernardetta non si voleva staccare dal Papa, stringendogli la mano per un bel pò di tempo.

Certo questo fatto può ben considerarsi eccezionale nell’insieme e sicuramente unico per Papa Francesco, che pure è molto aperto e disponibile verso tutti. Questa volte le Monache lo hanno anticipato riuscendo nel loro scopo di baciare la mano al Papa, di consegnarli il regalo approntato e soprattutto di mettersi ai suoi piedi per ascoltare a sua parola e ricevere la benedizione.

Mondragone (Ce). Giornata e marcia della legalità.

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Mondragone (Ce). Nella solennità di San Giuseppe una marcia per ricordare i martiri delle mafie: don Pino Puglisi e don Peppe Diana

di Antonio Rungi 

Migliaia di bambini, ragazzi e studenti di tutte le scuole di Mondragone e di altri Comuni, insieme a molti cittadini hanno partecipato questa mattina ad una grande manifestazione per ricordare i martiri delle mafie di tutti i tempi sul tema “La verità illumina la giustizia”. XX Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”.

Sono stati ricordati in particolare le due figure sacerdotali emblematiche della lotta alla mafia e alla camorra: don Pino Puglisi e don Giuseppe Diana. La marcia iniziata nel centro storico di Mondragone, da Piazza Falcone, si è snodata per le principali strade cittadine, attraversando la Statale Domiziana,  per concludersi nel Piazzale Conte, vicino al mare, in una giornata primaverile che ha aperto il cuore alla speranza ai tanti giovani della città e del territorio. Hanno partecipato alla manifestazione tutte le parrocchie cittadine con i rispettivi parroci. La manifestazione è stata organizzata da Libera ed ha avuto l’adesione di tutte le istituzioni cultuali, sociali e politiche della città. La marcia è stata preceduta da vari incontri culturali nelle scuole medie e superiori di Mondragone con la partecipazione del magistrato, Giuseppina Casella, presidente del Tribunale del Riesame di Napoli, che nel Liceo Scientifico Statale “G.Galilei” ha parlato della legalità e del sistema di corruzione in atto in Italia e che deve essere debellato con il contributo di tutti i cittadini e le istituzioni. “Sull’esempio di Papa Francesco, ha detto Casella, la Chiesa sta prestando maggiore attenzione alla morale sociale e ai problemi sociali portando il suo contributo di idee a di azione in questa crescita del senso comune e del bene comune”. Una speciale menzione il magistrato ha voluto fare dei due sacerdoti simboli della lotta alla mafia e alla camorra, rispettivamente don Pino Puglisi e don Giuseppe Diana. A Liceo, la manifestazione si è caratterizzata come una profonda e sentita riflessione sul tema della giornata. L’incontro culturale è stato moderato da professore Silvio Macera e l’organizzazione della mattinata al Liceo è stata curata dalla professoressa Rosa Crocco. A dare il saluto ed offrire la prima riflessione della giornata è stata la professoressa Filippa De Gennaro, Vice-preside che ha messo in evidenza l’importanza di simili iniziative, soprattutto quando è la scuola ad essere protagonista. Nel corso della mattinata, al tavolo dei relatori si sono succeduti testimoni di giustizia, giornalisti ed esperti della materia. Significativa è stata anche la presenza del primo cittadino di Mondragone, Giovanni Schiappa, ex-allievo del Liceo Galilei ed ora sindaco della città, che ha detto deve migliorare sul versante della legalità.

Ampia partecipazione alla manifestazione anche delle associazioni cattoliche presenti sul territorio e che sono coordinato da un apposito comitato dal Vescovo della Diocesi di Sessa Aurunca, monsignor Orazio Francesco Piazza. La parte conclusiva della manifestazione si è svolta vicino al mare con questi significativi momenti condivisi dalle miglia di persone presenti: un momento di silenzio, il suono e canto dell’Inno nazionale, l’inno alla Gioia, un fash mob, il saluto delle istituzioni presenti, con in prima fila il sindaco della città, dottor Giovanni Schiappa, assistito dalla baby-sindaco, che ha rivolto un caloroso messaggio a tutti i presenti. Poi canzoni e la testimonianza canora di Agnese Ginocchio ed anche il ricordo del cantante napoletano, Pino Daniele, che oggi avrebbe compiuto 60 anni. A concludere la manifestazione l’intervento di un bambino affetto da un male incurabile contratto nella cosiddetta terra dei fuochi, di cui Mondragone è una delle zone più a rischio, che ha invitato tutti a promuovere la pace e a difendere la vita, soprattutto dei più piccoli e innocenti.

CATECHESI QUARESIMALI. SAN PIETRO L’APOSTOLO DELL’AMORE.

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Mercoledì 18 marzo 2015

Pietro l’apostolo dell’amore

 

 

«Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e a te darò le chiavi del Regno dei Cieli. » (Vangelo secondo Matteo 16, 18-19)

 

Simon Pietro secondo il vangelo di Giovanni era nativo, così come il fratello Andrea e l’apostolo Filippo, di Betsaida, città situata a circa 3 chilometri a nord del Lago di Tiberiade, un antico villaggio successivamente ricostruito dal tetrarca Filippo che fondò qui la sua capitale.

Secondo i vangeli sinottici, dopo il matrimonio si trasferì a Cafarnao, piccolo villaggio della Galilea che divenne in seguito uno dei centri della predicazione di Gesù, che vi si recava spesso per soggiornare qualche tempo, come amico, presso la casa dell’Apostolo. Il trasferimento a Cafarnao, insieme alla moglie, la suocera, il padre e il fratello Andrea, fu dettato probabilmente da motivi pratici, in quanto quella città offriva maggiori possibilità lavorative per il commercio del pesce. Gli scavi archeologici, effettuati a partire dal 1905, portarono alla luce i resti di un’antica sinagoga e di una chiesa di forma ottagonale alla cui base furono scoperte le fondamenta di una casa di pescatori. Nel 1968 la casa fu identificata con quella dell’Apostolo Pietro grazie alla presenza di alcuni attrezzi da pesca ivi rinvenuti, ma, soprattutto, per il ritrovamento di alcuni graffiti, raffiguranti Gesù e Pietro, databili al II secolo d.C.

 

Legami familiari

Nei vangeli Pietro è presentato come figlio di Giona o di Giovanni. Di lui sappiamo essere fratello di Andrea, entrambi apostoli, scelti e chiamati sul lago di Galilea. Secondo i vangeli, un giorno Gesù guarì a Cafarnao “dalla febbre” la suocera dell’apostolo. L’esistenza di questa suocera ha portato alla conclusione che Pietro fosse sposato ma nulla si conosce né della moglie né dei figli. Interessante è però ricordare che l’apostolo Paolo allude a una “donna credente di Cefa”[che senza dubbio era la moglie. L’autore stesso della lettera solitamente identifica le collaboratrici col titolo di “sorelle” (adelphe) e non “sorelle donne”, come sarebbe meglio tradurre “donna credente” (derivando dalle parole greche adelphen gunaika).Secondo Clemente Alessandrino la moglie di Pietro seguì il marito nella sua predicazione e morì martire prima di lui.

 

Condizione economica e culturale

 

I fratelli Pietro e Andrea vengono presentati nei vangeli, sin dalla loro prima chiamata, come pescatori e più volte li ritroviamo con le barche sul lago di Galilea. Si sa anche che Giacomo e Giovanni di Zebedeo erano, secondo il vangelo di Luca, soci di Simone[20] e difatti saranno “chiamati” subito dopo gli amici. Emblematico in tal senso è il noto episodio della pesca miracolosa, nel quale Pietro è intento a ripulire le reti dopo una dura notte di lavoro senza alcun risultato. Anche dopo la Resurrezione, Gesù apparve a Pietro e ad altri discepoli mentre pescavano nei pressi del lago di Tiberiade.

Dagli Atti degli apostoli emerge un altro aspetto importante della vita di Pietro: la sua condizione culturale. Arrestato con Giovanni e condotto in presenza del Sinedrio, l’apostolo rispose con saggezza al loro interrogatorio, lasciando meravigliati i due giudici che lo credevano senza istruzione e popolano.

Il testo del vangelo oggetto della nostra meditazione questa: “Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simone Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro? Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che io ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene! Gli disse: “Pasci le mie pecore”. Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene? Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene?”. E gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecore”. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo disse: “Seguimi”.

Il pasto preso insieme li ha affiatati e Gesù ora guarda Pietro e gli fa una domanda impegnativa, gli chiede: “Mi ami tu più di costoro?”. La risposta di Pietro è sfumata, umile. Pietro non usa il verbo “amare”. Dopo quanto gli è capitato, come può affermare con sicurezza un amore incondizionato che esige un totale dono di sé? E neppure osa dire che lo ama più degli altri. Egli ha rinnegato il Maestro, gli altri no! Si limita a usare il verbo dell’amicizia, ma anche questo con umiltà, affidandosi finalmente al giudizio del suo Signore: “Tu sai che ti voglio bene”. E Gesù sapeva che ora Pietro era in sintonia con lui e pronuncia quella formula che è conferimento di missione: “Pasci i miei agnelli”.

Siamo in un linguaggio pastorale. Dire “pasci” significa affidargli il gregge perché vada avanti e il gregge lo segua come si segue il pastore di cui le pecore conoscono la voce, significa preoccuparsi perché al gregge non manchi il necessario, incominciando dagli agnelli, cioè dai piccoli, dai più deboli, significa difenderli dai pericoli, disposto a dare la propria vita, perché abbiano la vita.

Gesù per la seconda volta gli chiede ancora: “Mi ami tu?” e Pietro ripete: “Tu sai che ti voglio bene”. E Gesù gli dice: “Pasci le mie pecore”. Il parlare è cambiato. Gesù non solo gli affida il gregge, ma gli affida il governo del gregge, gli dà pieni poteri sul popolo di Dio. Tale è nella Bibbia il senso pieno di pascere. Gli affida la totalità del gregge. Sarà lui che visibilmente, nel suo ministero, dovrà unire tutti i figli di Dio dispersi, fare di tutti un solo gregge, un solo popolo. È l’autorità di Gesù sul suo popolo che il ministero di Pietro dovrà rendere visibile nella storia.

Ed eccoci alla terza domanda di Gesù: “Mi vuoi bene?”. Qui Gesù si colloca sul piano di Pietro e usa il verbo dell’amicizia. Si compie così per Pietro la parola di Gesù: “Non vi chiamo più servi, ma amici e agli amici si dice tutto (15,14). Sulle prime Pietro si rattrista – è difficile dimenticare quel che gli è capitato – ma poi si dona totalmente a Gesù: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene”. Sono amici e gli amici hanno gli stessi ideali e lavorano insieme per uno stesso scopo. Pietro perciò lavorerà all’unisono con Gesù e come Gesù. E Gesù gli ripete: “Pasci le mie pecore”.

Senza immagini: Pietro sarà il Maestro della comunità, alla quale comunicherà quelle parole che sono spirito e vita (6,33) e si donerà al gregge come si è donato il suo Maestro e Signore. Gesù ne è sicuro e gli annuncia che sarà perfettamente associato al suo martirio. La parola di Gesù è fatta di immagini e antitesi, ma l’autore che scrive dopo i fatti commenta: “Questo gli disse per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio, proprio come Gesù. Poi si riporta un altro comando di Gesù a Pietro: “Seguimi” e Pietro lo seguì. Il “mi seguirai più tardi” (13,36) incomincia a realizzarsi.

 

La triplice risposta di Pietro

Alle tre domande di Gesù, Pietro risponde per tre volte: «Tu sai che io ti voglio bene»; «Tu sai che io ti voglio bene»; «Tu conosci tutto, tu sai che io ti voglio bene». Noi probabilmente avremmo risposto così: «Sì, mi sembra di amarti, ho imparato la lezione, sto facendo dei progressi, vorrei amarti, ci tengo molto, è importante per me amarti». Avremmo cioè risposto quasi tenendo noi il gioco in mano, mostrando di non essere ancora entrati pienamente nella sfera dell’amore gratuitamente ricevuto. La risposta di Pietro non è un «sì», sicuro di sé, e non è nemmeno un «non so». Il «sì» avrebbe il rischio di ripetere le promesse fatte da Pietro durante l’ultima cena e per di più lo lascerebbe continuamente ansioso, perché nessuno può rispondere a una simile domanda. Però, a questo punto Pietro non può dare nemmeno una risposta incerta o restare in silenzio. Pietro è stato trasformato dall’esperienza della croce e dall’attuale incontro con il Risorto: non può negare di avere ricevuto un amore per il Signore che gli riempie il cuore, ma sa che non può prevalere sugli altri e che non può fare tante promesse, non può appoggiarsi su se stesso, perciò si affida alla conoscenza di Gesù e dice: «Tu lo sai». Pietro si appella alla conoscenza soprannaturale che Gesù possiede e che egli aveva sperimentato già al momento del primo incontro, quando lo aveva chiamato per nome e gli aveva imposto il nome nuovo di Cefa/Pietro (Gv 1,42). Per tre volte Pietro si affida alla conoscenza di Gesù e dice: «Tu lo sai»; la terza volta aggiunge le parole «tu conosci tutto» e ripete le parole: «tu sai che ti voglio bene».

In tutte e tre le risposte il soggetto della frase non è «io», ma «tu»: «tu conosci il mio amore per te». Pietro viene così portato a cancellare il proprio gesto di rinnegamento con una triplice dichiarazione di amore. La triste esperienza del rinnega-mento gli ha fatto capire che non ha solidità in se stesso e allora egli si appoggia ormai solo su Gesù. Pietro si fa forte della certezza che il Signore sa, si basa sulla conoscenza che il Signore ha del suo cuore, e risponde: «Tu sai che io ti amo». Pietro sente dentro di sé un amore per Gesù, sa che la sorgente di quell’amore non è dentro di lui, sa che quando gli chiede: «Mi vuoi bene?», Gesù, che è la sorgente dell’amore, vuole anzitutto donargli questo amore.

Ponendo la sua domanda, Gesù desidera che Pietro gli chieda il dono di amarlo con fedeltà. Rispondendo «Tu sai che ti amo», Pietro si rimette a Gesù, si affida a lui: ha imparato che per l’uomo è fondamentale muoversi nella sfera dell’amore, riconosce che se ama Gesù non è perché si sente forte, generoso, ma perché il Signore è generoso con lui e lo rende capace di amarlo ogni giorno di più; rispondendo così, Pietro manifesta che la radice della sua capacità di amare sta nel Signore e si affida umilmente a lui. «Pietro evita così sia l’umiltà depressiva, sia un certo tipo di sicurezza che può diventare presunzione, confessa che la misura del nostro amore per Gesù non siamo noi, ma è lui stesso che ce lo mette dentro e, affidandolo a lui, al suo amore crocifisso, noi siamo certi che questo amore esiste e non abbiamo se non da decidere quali opere questo amore ci chiede di fare adesso» (C.M. Martini).

Quando la domanda gli viene fatta la terza volta, Pietro è colmo di tristezza, di un dolore che evoca le lacrime che, secondo Mc 14,72, aveva versato in seguito al proprio rinnegamento. Secondo alcuni esegeti alla terza domanda Pietro si rattrista, perché Gesù non usa più lo stesso verbo delle prime due domande (agapao, che significa amare gratuitamente), ma quasi si abbassa e usa il verbo phileo che significa avere un amore di amicizia, lo stesso che Pietro aveva usato nelle sue due prime risposte. A Gesù che lo interroga due volte sul suo amore gratuito, Pietro risponde per due volte: «Tu lo sai che ti voglio bene»; nelle risposte di Pietro il testo greco usa il verbo phileo, che vuol dire «essere amico»; Pietro risponde: «Tu lo sai che ti voglio bene così come sono capace, tu lo sai che ti amo del mio povero amore».

La terza volta Gesù dice a Simone: «Mi vuoi bene, mi sei amico?», usando anche lui, come Pietro, il verbo phileo. Simone ha compreso che a Gesù basta il suo povero amore, l’amore di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. È Gesù che si è convertito a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù. Ed è questa «conversione di Dio» ai nostri limiti che dà speranza al discepolo che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Questa terza volta Pietro non dice più soltanto: «Tu sai che io ti amo», ma insiste sulla piena conoscenza del Maestro e dice: «Tu sai tutto». Con la parola «tutto» Pietro esprime la consapevolezza di non poter contare sulle proprie forze e manifesta ancora più esplicitamente il proprio affidamento al Signore. In questo amore di Pietro per Gesù, o meglio in questo abbandono di Pietro all’amore di Gesù è adombrato il mistero della Chiesa: è la sposa innamorata di Cristo. Il suo amore per Cristo è ricco di concretezza, impegna le energie più belle della libertà, crea iniziative generose e aperte. Però la Chiesa, come Pietro, sa di poter amare perché prima è stata amata e continua a essere amata: fa consistere il suo amore nella risposta fedele all’amore di Cristo per lei.

Gesù non torna da Pietro per giudicarlo, ma ritorna a lui unicamente per do-mandargli se lo ama ancora, se la sua caduta non ha distrutto in lui l’amicizia che lo univa al suo Signore. Gesù domanda a Pietro se il giorno della sua passione e morte ha accresciuto in lui l’amore. È evidenziata in questo incontro di Gesù con Pietro la differenza tra il rimprovero e il perdono. Il rimprovero rende presente una mancanza, il perdono la allontana fino a farla sparire, creando una situazione nuova. Col rimprovero si rinfaccia una colpa che appartiene al passato, la si rende ancora attuale; col perdono Gesù ci mette di fronte all’avvenire che può essere diverso. Nella triplice domanda e nella triplice risposta che Gesù attende da Pietro c’è certamente la forza della ripetizione: l’amore è ripetitivo. Tuttavia c’è di più e lo cogliamo nel testo dove ci viene detto che Pietro si turba perché per la terza volta viene interrogato. C’è un richiamo delicato, discreto, saggio alla debolezza dell’apostolo, alla sua incapacità di amare, alla sua triplice negazione nel momento della passione.

Ovviamente la triplice negazione è già stata perdonata dallo sguardo di Gesù a Pietro; ora però lo interroga tre volte per ribadire il suo perdono e rendere Pietro conscio e capace di amare seriamente. Il dialogo di Gesù con Pietro è dunque un dialogo riconciliatore, riabilitante, che rialza l’apostolo, gli infonde fiducia, gli dà coraggio e lo rende capace non solo di amare il Signore, ma di amare anche il gregge da pascere, capace di trasmettere la riconciliazione, il perdono, la rinnovata forza di amare di cui è dotato il primo destinatario.

Sarebbe bello se anche noi fossimo condotti alla penitenza attraverso questa ricostruzione della persona, non soltanto attraverso parole esterne, ammonizioni generiche, se anche noi fossimo condotti alla penitenza attraverso un esercizio che ci porta a ripercorrere i cammini sbagliati, ritrovando noi stessi la strada giusta e la certezza che Dio ci ama. E ricordiamo che anche noi siamo chiamati ad aiutare gli altri in questo modo, a costruire le persone, essendo strumenti della forza risanatrice di Dio.

 

Il triplice affidamento del ministero a Pietro

Per tre volte Gesù domanda a Pietro se è disposto ad amarlo e alla triplice ri-sposta di Pietro per tre volte gli dice: «Pasci i miei agnelli»; «Pascola le mie pecore»; «Pasci le mie pecore». Gesù affida a Pietro in tre riprese successive un ministero universale.

L’autorità che Gesù conferisce a Pietro ha poco a che fare con quella di un re di questo mondo. È un’autorità pastorale, radicata nell’amore di Gesù per Pietro e di Pietro per Gesù; è un’autorità pastorale che non fa appartenere le pecore a Pietro, perché esse restano sempre esclusivamente di Gesù; è un’autorità pastorale che pone su Pietro e non sulle pecore gli obblighi principali.

Interessante è confrontare il colloquio tra il Risorto e Pietro sulle rive del mare di Tiberiade con quello avvenuto a Cesarea di Filippo, riportato dall’evangelista Matteo. Lì Pietro aveva esclamato: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16) e Gesù aveva affermato: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Lì la precondizione per l’edificazione della Chiesa su Pietro era la sua fede. Dopo la pasqua, la precondizione per il ministero pastorale di Pietro è l’amore. A differenza di Matteo, dove le immagini delle chiavi e del legare e sciogliere hanno un carattere più legalistico, l’immagine pastorale riportata da Giovanni mette l’accento sull’amore che è richiesto al pastore e sugli obblighi verso il gregge che gli sono affidati.

Gesù associa a sé Pietro nel compito di pascere i suoi agnelli e le sue pecore. C’è anche qui una diversità di termini in greco, che l’italiano tenta di rendere. Probabilmente le due parole diverse usate in greco per indicare le pecore (arnia, cioè agnelli, e probata, cioè pecore) vogliono dire: «Pasci tutto il mio gregge», cioè tutti gli uomini, a partire da quanti sono più deboli, come gli agnelli. Gesù usa i termini «agnelli», «pecore» per indicare un rapporto di profonda e affettuosa responsabilità. Il pastore è un po’ padre e madre del gregge, fratello e sorella di ciascuna pecora; non è un amministratore, un contabile, un semplice organizzatore. Il pastore è colui che ha rapporti di profonda, affettuosa e amichevole responsabilità per ciascuno. Pietro riceve il compito di pascere: Pietro e i pastori nella Chiesa non sono i luogotenenti di Gesù assente, ma l’espressione visibile di Cristo Pastore, invisibilmente presente e operante. Egli è presente in vari modi nella sua Chiesa: è presente nella sua parola, nei sacramenti, nello Spirito Santo, nei poveri, ma è presente anche nel ministero di Pietro e degli altri pastori che è prolungamento del suo servizio di amore, del suo modo di essere tra gli uomini.

Gesù non dice a Pietro: «Sii pastore», ma «Pasci». La qualifica di pastore resta esclusiva di Gesù: Pietro è chiamato a svolgere le azioni di pastore, ma non è chiamato pastore. Nel Nuovo Testamento solo Gesù è pastore: è il «pastore grande delle pecore» (Eb 13,20), «il pastore e guardiano delle vostre anime» (1Pt 2,25). Il titolo «pastori», riferito a uomini che all’interno della Chiesa hanno una responsabilità ministeriale, appare soltanto in Ef 4,11, dove però ha un valore simile a quello di altre funzioni (apostoli, profeti, dottori) e non quello di una funzione privilegiata. Per questo Gesù dice a Pietro: «Pasci» e non «Sii pastore». Il pensiero che Gesù rimane l’unico pastore è rafforzato dall’aggettivo possessivo: Gesù non dice a Pietro: «Pasci gli agnelli», «pasci i fedeli», «pasci la Chiesa», ma «pasci i miei agnelli», «pasci le mie pecore». Le pecore e gli agnelli, affidati a Pietro, sono sempre del buon pastore, sono di Gesù, è lui che li tiene in mano. Gesù risorto continua a parlare delle «sue pecore» come di qualcosa che è soltanto suo, anche se Pietro viene incaricato di pascerle. Le pecore sono affidate da Dio Padre all’amore di Gesù e Gesù esprime questo suo amore anche attraverso l’amore di Pietro. Non ci deve stupire che il segno scelto da Gesù per incarnare il suo amore così grande sia così piccolo: un uomo con i limiti di ogni uomo. Rientra nello stile di Dio ottenere effetti straordinari con mezzi umilissimi, perché si veda che la potenza viene da lui. Il compito di Pietro e dei suoi successori scaturisce dall’amore e Gesù ha rivelato come si chiama e come si esercita un compito, un’autorità che scaturisce dall’amore: è servizio! «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27).

Pietro partecipa alla funzione pastorale di Gesù, ma non sarà mai un pastore autonomo rispetto a lui: le pecore restano di Gesù. Questo fatto è maggiormente comprensibile se teniamo presenti le parole dette da Gesù in croce a proposito di sua madre. Dall’alto della croce Gesù aveva donato Maria al discepolo amato dicendogli: «Ecco la tua madre!» (Gv 19,27), intendendo cioè consegnare la madre al discepolo, mentre non ha voluto fare lo stesso con Pietro dopo la risurrezione, dicendogli: «Ecco le tue pecore». Soltanto Gesù è il pastore in senso pieno, perché solo lui è morto per i peccati una volta per tutte, dischiudendo l’accesso a Dio. Egli soltanto ha fatto passare le pecore da una situazione di sbandamento alla nuova identità di gregge di Dio. Nessuno potrà mai venire costretto a essere pecora o gregge di un altro uomo e, d’altra parte, noi non possiamo mai avere la smania o la pretesa che qualcuno, nemmeno il nostro figlio, sia pecora nostra: solo Dio ha il potere di essere il pastore e ha trasmesso questo potere unicamente al Figlio, che è in piena comunione con lui. Il tema delle pecore che sono e restano di Gesù ricorre in altri passi del Nuovo Testamento: ai presbiteri di Efeso Paolo dice: «Siete stati posti a pascere la Chiesa di Dio» (At 20,28); ai presbiteri Pietro scrive: «Pascete il gregge di Dio che vi è stato affida-to» (1Pt 5,2). Commenta s. Agostino: «Se mi ami, non pensare che sei tu il pastore; ma pasci le pecore come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua, il mio bene, non il tuo, il mio profitto, non il tuo!».

È espresso qui anche il grande tema al quale è sempre più sensibile l’età moderna: il tema della libertà e del primato della coscienza. Le pecore sono di Gesù ed egli non le affida a Pietro, lasciandogli fare di loro quello che vuole. Pietro esercita il suo compito pastorale su pecore non sue. I cristiani sono liberi perché appartengono soltanto al Signore e in quanto appartengono al Signore si lasciano guidare dai servi del Signore.

COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA – 22 MARZO 2015

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QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA

22 MARZO 2015

“VOGLIAMO VEDERE GESU’”

Commento di padre Antonio Rungi

Il desiderio più grande di ogni cristiano è quello di vedere Cristo, in questo mondo e soprattutto nell’eternità. Aspiriamo a questa visione, a questo incontro, a questo dialogo con il Signore, con il nostro redentore e salvatore. E Gesù, ogni volta che lo vogliamo vedere non si nega ai nostri occhi e sguardi, anzi si fa più luminoso e più accessibile ai nostri orizzonti di vita, se davvero vogliamo stare con lui in amicizia. Questo desiderio di conoscere e vedere Gesù è espresso, nel Vangelo di questa quinta domenica di Quaresima, da alcuni greci che si rivolgono a Filippo, il quale a suo volta si rivolge agli altri del gruppo, fino poi ad approdare da Gesù. E Gesù si fa vedere e si rivela nel suo volto doloroso e sofferente.

L’annuncio della passione di Cristo è molto chiaro ed è facilmente leggibile nel brano del Vangelo di Giovanni, che oggi ascoltiamo e che rappresenta l’ossatura principale di tutto il messaggio che la parola di Dio ci vuole trasmettere in questa ultima domenica di quaresima, già pensando alla domenica delle Palme o della Passione e della Risurrezione che bussano alle porte e ci pongono davanti al grande dilemma della nostra vita. Stare dalla parte di Cristo, della luce e della verità; oppure scegliere la via del rifiuto e dall’allontanamento, come quelli che si comportano da nemici della croce di Cristo. Andiamo a guardare e a vedere il Crocifisso, non per assistere ad uno spettacolo di esecuzione a morte di un innocente, ma al grande mistero della redenzione del genere umano che si compie nella passione, morte e risurrezione di nostro Signore. Ascoltiamo direttamente dalla voce di Cristo, registrata nei vangeli, quello che vuole comunicarci in questa speciale ora della sua vita e della vita dell’umanità: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”.

Dal testo della seconda lettura di oggi, tratto dalla lettera agli Ebrei, comprendiamo esattamente il messaggio che intende lanciare la parola di Dio in questo preciso momento del nostro itinerario quaresimale verso la Pasqua. Il nostro cammino esodale ci porta necessariamente ad incrociare il volto di Gesù Crocifisso. E noi questo volto lo vogliamo incontrare, vogliamo contemplare e voglio davanti a Lui versare le nostre lagrime di gioia e di purificazione del nostro cuore e della nostra vita, lagrime di pentimento, lagrime di una volontà sincera di camminare davvero verso una visione più netta e bellissima quella del santo Paradiso.Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.

Nel mistero della Croce di Cristo, siamo invitati anche noi, cristiani del XXI secolo a stipolare un patto d’amore e un’alleanza nuova con il Signore, nell’intimo della nostra coscienza, come ci ricorda la prima lettura di questa domenica, tratta dal libro del profeta Geremia, che è una pagina di grande speranza e gioia per chi si lascia prendere per mano da Dio e si affida completamente a Lui, avviando un cammino di risanamento e purificazione che tocca le corde più profonde e sensibili del nostro cuore:Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato. Il giubileo della misericordia che Papa Francesco ha indetto e che celebreremo a partire dal prossimo 8 dicembre, solennità dell’ Immacolata, con l’apertura della porta santa in Vaticano, è questo segno e speranza dell’intera chiesa ed umanità di incamminarsi sinceramente con cuore contrito ed umiliato sulla strada della conversione e del rinnovamento interiore. Preghiamo, allora, con queste espressioni di fede che la liturgia mette sulle nostre labbra all’inizio della santa messa di questa giornata di festa e di gioia cristiana: “Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi”. Amen.

SCAURI. SECONDO GIORNO DI CATECHESI. ELIA IL PROFETA DELL’INTERIORITA’

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Parrocchia Sant’Albina – Scauri

CATECHESI 2

MARTEDI’ 17 MARZO 2015 

ELIA: IL PROFETA DELL’INTERIORITA’

 

1.Introduzione

 

Il Concilio Vaticano II ha dato molta importanza alla coscienza della persona umana, ritenendola il sacrario dell’individuo che agisce in base alle proprie convinzioni e certezza. Questa sera in rapporto al tema della coscienza, pongo alla vostra attenzione in questo cammino di esercizi spirituali nella vita quotidiana, la figura biblica del profeta Elia, che è il profeta dell’interiorità.

L’esercizio del ministero profetico in Israele era sempre la prova della decadenza del popolo. Finché le grandi istituzioni nazionali erano in vigore e la dispensazione mosaica era conservata intatta secondo l’intenzione di Dio, non era necessario nulla di straordinario, e perciò non si udiva la voce d’un profeta. Ma quando le istituzioni, emanate da Dio stesso, cessavano d’essere osservate nella loro originaria potenza, allora si faceva sentire il bisogno di qualche comunicazione dello Spirito per mezzo dei profeti.

 

Un ministero come quello di Elia il Tishbita non era necessario nei giorni di gloria e di grandezza di Salomone; allora tutto era in ordine, in buono stato; il re era sul trono e portava lo scettro per la salvaguardia degli interessi civili d’Israele; i sacerdoti, nel tempio, adempivano le funzioni religiose; i leviti e i cantori erano al loro posto. Tutto si svolgeva con un ordine che rendeva superflua la voce d’un profeta.

 

Ma presto la scena cambiò; la corrente del male si levò con tale forza che spazzò via i fondamenti stessi del sistema politico e religioso d’Israele. Il regno fu diviso. Coll’andar del tempo, uomini empi salirono sul trono di Davide; e, soprattutto sul trono che l’apostata Geroboamo aveva innalzato, si videro uomini sacrificare gli interessi del popolo di Dio alle loro vergognose concupiscenze. Invece di un re come Salomone che aveva amministrato la giustizia secondo Dio, si vide il malvagio Achab, con sua moglie Izebel, occupare il trono di Samaria.

 

L’Eterno non poteva sopportare più a lungo un tale stato di cose; non poteva permettere che questa marea di iniquità continuasse a salire. Perciò scoccò una freccia per trafiggere la coscienza d’Israele, e per ricondurre il suo popolo alla posizione di una beata dipendenza da Lui.

 

Questa freccia era Elia il Tishbita, l’intrepido e incorruttibile testimone di Dio, che si tenne alla breccia in un momento in cui tutti sembravano essersi allontanati dal campo di battaglia, incapaci di resistere al torrente in piena.

 

2.Le fonti bibliche

 

Il profeta Elia appare nella Sacra Scrittura come l’uomo dell’assoluto di Dio. Il suo nome in ebraico significa “Dio mio è Jahvè”.

Di lui non abbiamo una descrizione precisa; sappiamo soltanto che proveniva da Tisbe (I Re 17,1) una città al di là del Giordano.

Esercita il suo ministero nel Regno del Nord, nel secolo IX a.C., è vestito di peli e una cintura di cuoio gli cinge i fianchi (2 Re 1,8).

L’attività del profeta è narrata nella Sacra Scrittura nei due libri dei Re in cui troviamo il “Ciclo di Elia” (1 Re 17- 2 Re 1,18). Ancora nell’Antico Testamento il Libro del Siracide ne intesse le lodi (48,1-11) esaltando le sue gesta compiute nel nome e per la gloria di Dio.

Altri testi come 1 Mac 2,58, e la celebre profezia di Malachia (3,1.23-24) sottolineano l’importanza del profeta in riferimento ai tempi messianici di cui sarebbe stato il precursore.

Nel Nuovo Testamento i riferimenti al profeta sono diversi.

In particolare troviamo l’attività del Cristo prefigurata da quella del profeta (cfr Lc 4,25-26) e il rapporto con il Messia è espresso chiaramente nel celebre evento della Trasfigurazione sul Tabor (Mt 17,1-12; Mc 9,2-13; Lc 9,28-36).

 

Ma è soprattutto l’evangelista Luca a presentare Gesù come nuovo Elia, utilizzando fonti veterotestamentarie che lo riguardano in una sorta di parallelismo (cfr Lc 4,25-26 – 1 Re 17,9; Lc 7,12.15 – 1 Re 17,17-24; Lc 9,42 – 1 Re 17,23; Lc 9.51. 54.57.61-62 – 2 Re 1,10-12; Lc 22,43-45 – 1 Re 19,5-7).

Va sottolineato il riferimento del profeta a Giovanni il Battista (Lc 1,1-20), che condurrà una vita secondo lo stile penitenziale di Elia (Mt 3,4; 11,14; 17,11-13).

 

3. La storia narrata dalla Scrittura

 

La storia di Elia è tutta narrata nei testi biblici.

Egli è il profeta del Signore, appare improvvisamente in scena in un contesto di forzato e violento “tradimento religioso”.

Armato della Parola di Dio fin dalla prima riga della narrazione a lui dedicata (I Re 17,1), si presenta come accusatore della strumentalizzazione religiosa (I Re 17,18; II Re 1,16) e del potere (I Re 21,20-24) da parte del Re Acab e della moglie Gezabele.

Si impegna a reintrodurre i veri valori religiosi della tradizione, soprattutto Jahvè come unico Dio per Israele (I Re 18,21-24; 36-39).

Si scaglia contro i culti alle divinità cananee, introdotti in Israele a motivo del matrimonio d’interesse tra il re e la figlia del re di Tiro e Sidone, Gezabele.

Elia viene inviato dal Signore per annunciare al re Acab il castigo imminente per il suo comportamento empio (I Re 21,21-24), prorogato in seguito al suo pentimento, ma esteso alla moglie e ai figli (1 Re 21,29; 2 Re 9,7-10; 26;36).

Gezabele si vendica di ciò massacrando i profeti di Jahvè (1 Re 18,4-13; 19,20). Allora il profeta Elia, preannuncia prima una siccità di tre anni e sei mesi, durante la quale egli si rifugia presso il torrente Kerit, in Transgiordania, dove viene nutrito dai corvi (1 Re 17,2-6), e poi per comando del Signore, giunge a Sarepta, a sud di Sidone, dove viene mantenuto da una vedova alla quale egli moltiplica miracolosamente olio e farina e risuscita il figlio (1 Re 17,7-24).

Ma la prova più significativa che testimonia che Jahvè è il vero ed unico Dio si ha nel confronto tra Elia e i quattrocentocinquanta profeti di Baal, divinità cananea, sul monte Carmelo (1 Re 18, 20-39).

Sul santo monte, il profeta offre il suo sacrificio al Signore, il quale risponde dal cielo bruciando l’olocausto, mentre le grida, le danze e le mutilazioni dei profeti di Baal non ottengono alcun risultato (1 Re 18,40).

Dal vertice del Carmelo, il santo profeta Elia, assisterà alla fine della siccità con il prodigio della nuvoletta, che simile ad una mano d’uomo sale dal mare, quale termine del periodo di forte siccità nel paese (1 Re 18,41-45): “41 Poi Elia disse ad Acab: «Risali, mangia e bevi, poiché già si ode un rumore di grande pioggia». 42 Acab risalì per mangiare e bere; ma Elia salì in vetta al Carmelo; e, gettatosi a terra, si mise la faccia tra le ginocchia, 43 e disse al suo servo: «Ora va’ su, e guarda dalla parte del mare!» Quegli andò su, guardò, e disse: «Non c’è nulla». Elia gli disse: «Ritornaci sette volte!» 44 E la settima volta, il servo disse: «Ecco una nuvoletta grossa come la palma della mano, che sale dal mare». Allora Elia ordinò: «Sali e di’ ad Acab: “Attacca i cavalli al carro e scendi, perché la pioggia non ti fermi”». 45 In un momento il cielo si oscurò di nuvole, il vento si scatenò, e cadde una gran pioggia. Acab montò sul suo carro, e se ne andò a Izreel”.

Dopo questi fatti, per evitare le ire dell’empia regina Gezabele, Elia fugge e attraverso un cammino di quaranta giorni nel deserto (1 Re 19,1-8), giunge al monte di Dio, l’Horeb.

Lì in una teofania (1 Re 19,9-14), riceve una triplice missione: investire Hazaèl come re di Damasco, Ieu come re d’Israele ed Eliseo come profeta al suo posto (1 Re 19,15-17).

Nella vicenda dell’uccisione di Na-bot, fatto assassinare dal re sotto istigazione della mo-glie Gezabele per impossessarsi della sua vigna, il profeta interverrà energicamente per smascherare il piano nefasto e l’omicidio attuato dal monarca (1 Re 21,1-27).

Dopo ciò il re Acab muore (852 a.C.) nel corso di una battaglia (1 Re 22,1-40) e il figlio, che gli succede nel governo del regno, riceve una profezia di morte per bocca del profeta Elia per aver consultato un dio pagano a motivo di una grave infermità che aveva contratto (2 Re 1,2.6-7).

 Giunto al termine della sua missione profetica, Elia seguito da Eliseo che aveva chiamato dai campi (1 Re 19,19-21) e da un gruppo di profeti del Signore, si reca al Giordano con tappa a Betel e a Gerico.

 Dopo aver attraversato il fiume Giordano all’asciutto insieme ad Eliseo che prontamente gli succede nel ministero profetico, Elia viene assunto in cielo su un carro di fuoco scomparendo di mezzo al turbine, mentre due terzi del suo spirito si posano su Eliseo secondo la sua richiesta (2 Re 2,1-15).

 Quest’ultimo, continuerà le gesta del padre svolgendo il suo ministero profetico a favore del popolo d’Israele.

 

4. Il profeta del silenzio, dell’interiorità e della coscienza.

 

Non siamo più abituati al silenzio. Un noto passo della Scrittura racconta l’incontro di Elia con Dio sul monte Oreb avvenuto non nel frastuono, ma nel silenzio e nella quiete: “11 Dio gli disse: «Va’ fuori e fermati sul monte, davanti al SIGNORE». E il SIGNORE passò. Un vento forte, impetuoso, schiantava i monti e spezzava le rocce davanti al SIGNORE, ma il SIGNORE non era nel vento. E, dopo il vento, un terremoto; ma il SIGNORE non era nel terremoto. 12 E, dopo il terremoto, un fuoco; ma il SIGNORE non era nel fuoco. E, dopo il fuoco, un mormorio di vento leggero. 13 Quando Elia lo udì, si coprì la faccia con il mantello, andò fuori, e si fermò all’ingresso della spelonca; e una voce giunse fino a lui, e disse: «Che fai qui, Elia?» (1Re 19,11-13).

 

La Sacra Scrittura al cap. 19 del primo libro dei Re presenta Elia che fugge verso l’Oreb, dove incontra Dio e riceve la missione che dovrà compiere. Nel Regno del Nord – siamo intorno all’ 850 a.C. – il re Acab e sua moglie Gezabele avevano introdotto il culto di Baal. L’autore sacro ci racconta al cap. 18 come Elia sul monte Carmelo sconfigge e distrugge i profeti di Baal. Naturalmente si sente fiero e protagonista perché ha riportato la verità. Gezabele si infuria e promette che Elia sarà ucciso entro una giornata. Elia si impaurisce e fugge nel deserto.

 

Elia aveva fatto tutto per Dio, ma non aveva ancora capito che era Dio a voler fare tutto per lui. E c’è voluta una crisi, c’è voluta una prova, c’è voluto un momento duro perché questo uomo, pieno di zelo per il Signore, si fermasse e interrompesse la sua “guerra santa”. Allora Dio lo conduce nel deserto e lì Elia apre il suo cuore, parla a Dio: “Basta Signore, prendi la mia vita, perché non sono migliore dei miei padri”. (1Re 19,4)

 

Inizia a ripensare a sé. Dice la Scrittura che il sonno lo coglie; ma più che un sonno è una fuga, è un desiderio di morte. È voler lasciare la missione per cui si era sentito chiamato da Dio. È successo anche agli apostoli, nell’orto degli ulivi, quando Gesù si preparava alla Passione: non son stati capaci di vegliare, si sono addormentati. Si reagisce a volte così, quando si avverte il fallimento. Elia pensa che sia per lui l’inizio della fine. Pensa realmente alla morte.

 

Ma Dio ha preparato per lui altre strade.  Ci sarà una morte, sì, ma non quella fisica. Ci sarà la morte di se stesso, la morte del suo orgoglio, morirà il suo sentirsi “giusto servitore di Dio”. Dovrà passare attraverso il deserto, purificare il suo cuore e imparare la strada dell’umiltà, perché l’umiltà è la sola strada che conduce a Dio. Dio non si lascia trovare se non da un cuore umile. Dio non forza mai la mano, ma prepara; a volte permette che questa preparazione passi anche attraverso eventi drammatici, come è successo ad Elia, ma anche nella prova più grande non si allontana mai dall’amico.

 

Così, nel deserto, il deserto del suo cuore più che quello di sabbia, Dio manda ad Elia un angelo a nutrirlo. Il comando è perentorio: “Alzati e mangia” (1Re 19,5), non sei qui per morire. Alzati e mangia, alzati, ascolta la mia parola, nutriti della mia parola, e cammina. La professione di fede di Israele “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio” (Dt 6,4) è ciò che è chiesto ad Elia nel tempo di deserto della sua vita. Elia deve ascoltare. Con la forza di quel cibo camminerà 40 giorni, 40 notti fino al monte di Dio, all’Oreb. Ripercorrerà il viaggio di Mosè e del popolo nel deserto, il viaggio della salvezza, verso la terra promessa. Lo rivivrà sulla sua pelle: anche là il popolo era stato nutrito da Dio con la manna; anche là Mosè aveva implorato Dio che scaturisse acqua dalla roccia. Anche là Mosè era salito fino all’Oreb, da solo. E lì, da solo, aveva visto Dio faccia a faccia, mentre la sua gente rimasta a valle, costruiva il vitello d’oro – ancora una divinità pagana – e tradiva il Dio unico di Mosè. Ma intanto Mosè aveva incontrato Dio faccia a faccia. Elia ripercorre la strada di Mosè, la strada della salvezza del popolo di Israele, e si ritrova sul monte, chiuso in una caverna, per passare la notte.

 

La caverna, quasi come un utero dove rinascere un’altra volta. Così avviene nella vita spirituale di ognuno di noi, quando ci si ritira in deserto: si arriva ad un tempo in cui si rinasce. Elia si è rifugiato in una caverna per passare la sua notte. La notte è il tempo in cui non si vede nulla, e si attende la luce dell’alba. È il tempo della ricerca, il tempo dell’attesa.

 

Lì Dio si rivela a Elia.  Gli rivolge la Sua Parola: “Che fai qui Elia?”. Nei deserti della nostra vita, nel buio della notte della nostra fede, la parola di Dio prima o poi, arriva sempre, ci trova sempre e non passa senza che una traccia resti nella mente e nel cuore di ognuno di noi. Se ascoltiamo. La parola di Dio, piano, piano, aiuta Elia a fare luce dentro di sé, a fare la verità, anche di se stesso. E mentre Elia spiega a Dio ciò che è successo, comprende meglio se stesso, si spiega: “Sono qui, Signore. Sono pieno di zelo per Te. Io voglio servirti, io volevo liberare questa terra dagli dei stranieri, Signore, ma tutti Ti hanno abbandonato. Sono rimasto solo, cercano di togliermi la vita”.

 

Elia non si nasconde più la verità, non si nasconde più la sua paura, non pensa più a morire. Finalmente guarda dentro di sé. Guarda se stesso e comincia a leggere la storia di Dio nella sua vita. È pronto finalmente ad incontrare Dio: faccia a faccia. Il Signore lo chiama di nuovo: “Esci, fermati lì, alla mia presenza”. Elia adesso è pronto, attende il Signore nella sua vita; lui che aveva fatto tanto per Dio adesso, fermo, nella notte, nella caverna, in silenzio, finalmente attende l’incontro personale con Dio.

 

Non sa come riconoscere la Presenza;  si rifà alla tradizione del suo tempo e aspetta che Dio gli parli attraverso qualche evento atmosferico: un uragano, un terremoto, un fuoco. Ma Dio parla al cuore, ed Elia avverte la Presenza di Dio “nel sussurro di una brezza leggera”. È una presenza forte, viva, tutta per lui ed Elia si copre il volto con il mantello. Mosè si era tolto i sandali quando aveva avvertito la Presenza nel roveto che ardeva e non bruciava. Quando si incontra Dio ci si copre sempre il volto parchè l’incontro con Lui ci rivela la nostra povertà, la nostra fragilità, il nostro peccato, la nostra inadeguatezza: non siamo mai pronti ad incontrare Dio.

 

Elia lascia tutto, si ritira in un luogo deserto,  silenzioso, lontano da tutti e lì comprende che il Dio di Israele è il suo Dio, comprende che Dio è Dio per lui. Noi dovremmo conoscere “il sussurro di brezza leggera”, dovremmo riconoscere il tocco di Dio, perché l’abbiamo tante volte avvertito nella nostra vita e tante volte l’abbiamo incontrato nei passi del Nuovo Testamento, leggendo la vita di Gesù. Quante volte questo soffio passa da Gesù a qualcuno dei suoi amici, fino al soffio dello Spirito che Gesù risorto dona ai suoi riuniti nel Cenacolo. Eppure anche noi facciamo una gran fatica a cercare spazi di silenzio. Anche noi facciamo fatica a ritirarci da qualche parte, soli, con noi stessi, a cercare l’incontro con Dio. Forse perché abbiamo paura di trovare la miseria che c’è dentro di noi, come aveva paura Elia. Eppure è solo lì che avviene l’incontro.

 

Quando incontriamo Dio faccia a faccia,  quando nel nostro cuore si realizza questo incontro, non siamo più quelli di prima. Come succede a Elia, siamo pronti a riprendere la strada. Elia riceve subito il mandato da Dio: viene riconfermato. Dio gli dice: “Su, ritorna sui tuoi passi”. Gli svela che non è rimasto il solo a credere in Lui, ma che si è riservato un resto: vai da quel resto di gente che mi sono riservato, torna a essere il loro profeta. L’incontro personale con Dio non ci allontana mai dalla gente, non ci allontana mai dalla nostra missione. Anzi, è solo quando incontriamo Dio che incontriamo veramente noi stessi e che incontriamo veramente la missione.

 

Ogni volta che accogliamo la Parola capita anche a noi di ripercorrere la storia della salvezza, di ritrovare le ribellioni, i tradimenti, le fragilità di chi ci ha preceduto e di trovare anche la nostra vita. E capita anche a noi di ritornare a Dio con tutto il cuore. Questo è ciò che la Parola produce in noi ogni volta che l’accogliamo con il cuore umile che Dio cerca di donare al suo profeta più grande, a Elia. Ho sperimentato tante volte nella mia vita, che devo solo all’incontro con Dio se sono stata vicino alla gente, vicina alle persone che hanno bisogno di me.

Quando si conosce un Amore grande,  non si desidera altro che di comunicarlo a tutti quelli che si incontrano. Mi ripeto che vale la pena cercare del tempo per ritirarci in qualche caverna, per ritirarci un po’ dentro noi stessi, e nel silenzio lasciare che Dio faccia rinascere in noi la sua profezia per il nostro tempo.

 

Teresa Benedetta della Croce e il profeta Elia

 

S. Teresa Benedetta della Croce ha molto amato il profeta Elia. Cito alcuni passi delle sue opere che ne mettono in risalto la figura. Commentando un passo della Regola carmelitana ella scrive: “Meditare nella legge del Signore“ può essere una forma di preghiera quando assumiamo la preghiera nel suo ampio senso abituale.

Ma noi pensiamo al “vigilare nella preghiera” come all’inabissarci in Dio, come è proprio della contemplazione, allora la meditazione ne è solo una via». «Vegliando in preghiera, esprime lo stesso che Elia disse con le parole: “Stare davanti al Volto del Signore”…

La preghiera è guardare in alto al Volto dell’Eterno. Lo possiamo solo quando lo Spirito veglia nelle ultime profondità, sciolti da ogni attività e godimento terreno, che lo attutiscono. Essere vigilanti con il corpo non garantisce quest’essere vigilanti e la quiete, desiderata secondo la natura, non lo impedisce». «Non abbiamo il Salvatore solo nelle narrazioni dei testimoni sulla sua vita. Egli è presente a noi nel Santissimo Sacramento, e le ore di adorazione dinanzi al Massimo Bene, l’ascolto della voce del Dio eucaristico sono: “meditare la Legge del Signore” e “vigilare nella preghiera” nel contempo». «Elia ritornerà come testimone della rivelazione segreta, quando si avvicinerà la fine del mondo, nella lotta contro l’Anticristo per patire la morte dei martiri per il suo Signore». Ella parla del popolo ebraico: La Chiesa era fiorita, ma lontano rimaneva la massa del popolo, lontano dal Signore e da sua Madre, nemico della Croce. Esso erra qua e là e non può trovare riposo, oggetto di scherno e di disprezzo: Tale rimarrà fino all’ultima battaglia. allora prima che la Croce nel cielo appaia, prima ancora che Elia venga a radunare i suoi, il Buon Pastore in silenzio percorrerà le nazioni.

ITRI (LT). PADRE CHERUBINO DE FEO, PASSIONISTA: 54 ANNI DI SACERDOZIO

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Itri (Lt). Padre Cherubino De Feo, domani celebra 54 anni di sacerdozio

di Antonio Rungi 

Padre Cherubino De Feo, sacerdote passionista della comunità del Santuario della Civita, domani 18 marzo 2015, celebra il 54° anniversario della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta per la preghiera e l’imposizione delle mani di monsignor Vittorio Longo, vescovo ausiliare di Napoli, il giorno 18 marzo 1961 nella Chiesa di santa Maria ai Monti dei padri passionisti di Napoli.

Il giorno successivo, 19 marzo 1961, solennità di San Giuseppe, padre Cherubino celebrava la sua prima messa all’altare maggiore del Santuario della Madonna del Rosario a Pompei.

Per ringraziare il Signore per questo singolare dono che padre Cherubino ha ricevuto, sempre domani celebrerà la messa di ringraziamento al santuario di Pompei, dove il sacerdote, soprattutto negli anni passati era di casa. Nutre infatti una speciale devozione alla Vergine Santissima, che ha alimentato nel corso della sua lunga permanenza al santuario della Civita, dove risiede attualmente insieme a suoi confratelli, padre Antonio Rungi (Ex-superiore provinciale dei passionisti della Provincia dell’Addolorata), padre Emiddio Petringa (Superiore e Rettore del Santuario), padre Francesco Vaccelli. Dei 54 anni, ben 46 li ha vissuti ad Itri, come religioso passionista del Convento cittadino, e poi parroco di santa Maria Maggiore. Dal 1986 il suo sacerdozio lo ha vissuto soprattutto a servizio dei numerosi pellegrini che raggiungono il santuario della Civita soprattutto nei giorni festivi e nelle ricorrenze più importanti. Grande appassionato di musica, arte, storia e della cultura in generale è la memoria storica delle vicende locali e più in generale della Provincia religiosa dell’Addolorata, dei padri passionisti del Lazio Sud e Campania, di cui è membro.

Nato a Laureana Cilento (Sa), nella Diocesi di Vallo della Lucania, il 25 febbraio 1936, da Luigi e Matilde Auricchio, padre Cherubino entro presto tra i passionisti, nella scuola apostolica di Calvi Risorta, iniziando così il cammino verso il sacerdozio, che poté concludere, dopo gli studi effettuati in varie parti del Sud d’Italia con l’ordinazione sacerdotale il 18 marzo 1961. Proseguì gli studi a Roma per la sacra eloquenza e poi dai superiori fu destinato a vari mansioni e conventi. Catechista nelle missioni popolari, ha sempre curato l’aggiornamento personale per essere in sintonia con il Magistero della Chiesa e con le esigenze di una nuova evangelizzazione, la cui ispirazione fondamentale e costante l’ha sempre attinta da fondatore dei Passionisti, san Paolo della Croce, che proprio a Fondi, Itri e al Santuario della Civita fu pellegrino nel 1726. E da san Paolo della Croce ha attinto anche la gioia del servizio delle confessioni, che presta costantemente a favori di vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli laici.

A padre Cherubino Di Gesù Bambino (al secolo Nicola De Feo) gli auguri sinceri di tutti i confratelli passionisti del Santuario della Civita, che curano anche il servizio pastorale, spirituale e liturgico del Convento cittadino, dedicato alla Madonna di Loreto.

SCUARI (LT). CATECHESI IN PREPARAZIONE ALLA PASQUA. MOSE’ IL LEGISLATORE

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PARROCCHIA SANT’ALBINA – SCAURI 

CATECHESI IN PREPARAZIONE ALLA PASQUA 2015

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A cura di padre Antonio Rungi, passionista 

1.Introduzione

In preparazione alla Pasqua 2015, all’indomani del grande annuncio di Papa Francesco dell’anno santo della misericordia, ci ritroviamo, in queste tre sere, qui insieme, nella parrocchia di Sant’Albina in Scauri, per tre catechesi, per tre tematiche diverse e per tre personaggi biblici diversi.

Sono tantissimi i personaggi della Bibbia che possono legittimamente essere classificai sotto queste tre categorie (legge, coscienza e amore), ma ho preferito scegliere questi tre personaggi, per uno stretto rapporto con il mistero pasquale, che è anche cammino esodale. Questi tre personaggi sono Mosé, Elia, Pietro.

La scelta non è casuale, ma ha un preciso riferimento al momento della trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor, davanti ai tre discepoli che Egli portò con sé sul monte: Pietro, Giacomo e Giovanni. Durante la trasfigurazione apparvero accanto a Gesù Mosè ed Elia che conversavano con Lui.

Mosé lo rapporto al concetto di legge; Elia al concetto di coscienza e Pietro al concetto dell’amore.

 

Dal vangelo di Matteo, 17,1-9

“Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. 9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

 

2. MOSE’ IL LEGISLATORE

IL RITRATTO DI UN GRANDE UOMO

 

Presentando Cristo, nuovo Mosè, come servo di Dio, il N.T. ha una certa tendenza a sottolineare le somiglianze e le prefigurazioni; ciò avviene più raramente quando si tratta di paragonare i due legislatori. Nei vari brani del NT, tuttavia, si sottolineano piuttosto le opposizioni, soprattutto nel clima di lotta contro i giudeo-cristiani.

D’altra parte, con questa opposizione si vuole dire che Cristo completa e porta a termine l’opera legislativa di Mosè.

Noi ci soffermiamo sulla figura di Mosé. Esistono tanti ritratti di Mosè quanti sono gli autori che gli hanno dedicato uno studio. Per cui, è difficile ritrovare i momenti qualificanti di un’esistenza che una ricca tradizione ci presenta sotto molteplici prospettive.

Se non si considera il nome stesso di Mosè, che è molto probabilmente di origine egizia, si conoscono poche cose sul personaggio e sull’inizio della sua esistenza. Certamente si potrebbe citare qui il capitolo 2 del libro dell’Esodo che rievoca brevemente la sua infanzia e la sua adozione da parte della figlia del Faraone (Es 2,1-10). Un tale racconto non fa che tradurre secondo le categorie di pensiero degli antichi il singolare destino di Mosè e il ruolo della provvidenza divina, oltre al fatto che l’esposizione si modella su racconti dell’infanzia come quello di Sargon di Akkad, re mesopotamico (2334-2279 a.C.) che la madre aveva affidato al fiume in una cesta di vimini.

 

Il seguito del testo biblico (Es 2,11-22) ci mostra un Mosè cresciuto e che prende iniziative a favore dei suoi fratelli di razza, ma questo cambia presto bruscamente. Mosè è costretto a lasciare l’Egitto e a fuggire in Madian, una terra straniera, nella quale si sposa. In violento contrasto con questa sua volontà di insediarsi come capo, il capitolo 3 dell’Esodo narra come, a partire dall’episodio del roveto ardente, Dio scelga Mosè per far uscire il popolo ebreo dall’Egitto, perché Dio ha inteso il grido del suo popolo. Mosè riceve da Dio una missione e nello stesso tempo si interroga per sapere come il popolo accetterà di seguirlo. Di fronte al progetto di Dio, Mosè è dapprima sensibile alle difficoltà e alle obiezioni che gli verranno da parte del popolo.

 

2.1.Capo del popolo e intercessore

 

In realtà, a più riprese, l’autorità di Mosè si scontra con le proteste e le lamentazioni del popolo per tutta la durata del cammino nel deserto. Nonostante l’uscita dall’Egitto che testimonia la potenza del suo Dio, la contestazione sembra aggravarsi, si diffonde. A partire da Es 15,22, il popolo mormora contro Mosè perché non ha acqua da bere e Mosè invoca Dio; poco più tardi Mosè ed Aronne sono accusati di avere trascinato gli Israeliti nel deserto per farli morire di fame (Es 16,3). Un’altra volta, in Es 17, 1-7, Mosè è accusato di far morire il popolo di sete. La situazione è così grave che Mosè invoca Dio e dice anche che il popolo ha intenzione di lapidarlo. Questa contestazione si ritrova anche nel libro dei Numeri che descrive la prosecuzione della marcia nel deserto, interrotta dopo Es 19. In questi racconti, Mosè si fa il portavoce del popolo presso Dio. A più riprese, quando la situazione è particolarmente grave, egli assume il ruolo di intercessore. È il ruolo che esercita in occasione dell’episodio dell’adorazione del vitello d’oro (Es 32). Mosè riceve i rimproveri di Dio e si sforza di placare la collera divina con una preghiera molto argomentata. In primo luogo, egli ricorda a Dio l’evento dell’uscita dall’Egitto in cui si è manifestata la sua potenza, e che Egli non può rinnegare, poi evoca, in caso di una punizione radicale, la reazione degli anziani: che cosa penseranno di questo Dio che fa morire coloro che ha fatto uscire dal paese d’Egitto? Infine si richiama alle promesse fatte da Dio ai patriarchi (Es 32,11-14); e Dio rinuncia a castigare il popolo.

 

Mosè interviene dunque presso Dio in favore del popolo e, pur riconoscendo la colpa del popolo, rimane solidale con coloro che Dio gli ha affidato: egli domanda a Dio di perdonare il peccato del popolo; se Dio non lo farà, esige che Dio lo faccia morire, anche se lui, Mosè, non ha partecipato alla costruzione del vitello d’oro (Es 32,32). Questo ruolo di intercessore – che i racconti gli attribuiscono con grande continuità – Mosè lo trova pesante da sopportare e non esita a dirlo a Dio. L’esempio più chiaro ci è dato quando il popolo nel deserto si lamenta di non avere carne da mangiare e di nutrirsi solamente della manna (Nm 11,49). Mosè sente il pianto del popolo e dichiara a Dio: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io, perché tu mi dica: Portatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo?… Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto…!» (Nm 11,11-15). Sbalorditiva la richiesta di Mosè che non esita a dichiarare che Dio stesso deve occuparsi personalmente di questo popolo! Attraverso le parole e le immagini usate, Dio è agli occhi di Mosè la madre del popolo e spetta a lui nutrirlo. Un intervento così forte di Mosè è raro; non ha paralleli, ma rivela la vivacità del dialogo posto sulle labbra di Mosè.

 

2.2.Mosè, il legislatore

 

Per Mosè, Dio rimane il vero capo del popolo, cosa che non toglie nulla all’autorità che gli è propria e che è grande. La prova migliore è che Mosè è l’uomo dell’Alleanza e l’uomo della Legge. Solo Mosè sale, chiamato da Dio, sulla montagna (Es 19) ed è lui che legge al popolo il rotolo dell’Alleanza e gli comunica tutte le parole dette da Dio (Es 24,3-8); è sempre lui che prende il sangue dei tori per versarne una metà sull’altare che rappresenta Dio e l’altra metà sul popolo dicendo: «Questo è il sangue dell’Alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole». Se si mette da parte il Decalogo, in cui Dio si rivolge direttamente al popolo (Es 20, 1-2), le leggi sono trasmesse da Mosè ai figli di Israele (Es 20,22; Lv 1,1; Nm 36,13; Dt 28,69). Da un capo all’altro della Torà, Mosè è colui che trasmette le parole dell’Alleanza o le parole della Legge. Queste parole concernono tutti i campi dell’esistenza, compreso quello del culto e della sua organizzazione, benché Mosè non sia sacerdote. Questo denota come, in un certo senso, Mosè prevalga su Aronne, il capostipite del sacerdozio israelita. In ogni caso, la tradizione iconografica presenta Mosè come colui che riceve da Dio la Legge.

 

2.3.Mosè, intimo di Dio

 

Al di là di tutto quello che si può dire su Mosè e sul ruolo che assume nella nascita del popolo di Israele, bisogna insistere sui suoi legami con Dio, che la tradizione ha tramandato in maniere diverse. In Es 33,7-11, si scopre un Mosè che entra nella Tenda del convegno per consultarvi Dio. Il testo insiste sul fatto che Dio «parlava con Mosè», gli «parlava faccia a faccia, come un uomo parla con un altro». Quando Miriam ed Aronne criticano Mosè a proposito del suo matrimonio con una donna etiope, il testo non dice nulla della reazione di Mosè, ma fornisce dapprima la riflessione di un redattore: «Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm 12,3). Poi viene la reazione di Dio nella Tenda del convegno alla presenza di Mosè, Aronne e Miriam in un brano che merita di essere riportato per intero: «Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè: egli è l’uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca io parlo con lui, in visione e non con enigmi ed egli guarda l’immagine del Signore. Perché non avete temuto di parlare contro il mio servo Mosè?» (Nm 12,6-8). Che cosa si può aggiungere ad una tale descrizione? Mosè è «l’uomo di Dio» (Dt 33,1) nel senso più completo dell’espressione; egli è più che un profeta, anche se spesso ha ricevuto questo titolo (Os 12,14; Dt 18,18). Alla fine del libro del Deuteronomio, dopo aver ricordato la morte di Mosè, si afferma con forza: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia» (Dt 34,10). Si ha in questa affermazione come la traccia della statura di questo Mosè di cui è difficile fare un ritratto.

 

2.4.Dio, Mosè e il popolo d’Israele

 

In Es 19,4,  del popolo di Israele, con una bellissima immagine, viene detto che è sollevato da Dio come su ali di aquila (Es 19,4 ) e portato al di là del mare, cioè al di là della malvagità e della sofferenza. Israele non è ancora un vero popolo, è un insieme di individui che dopo lunga schiavitù assaporano i primi passi nella libertà, ma si ritrovano incapaci di vivere in essa. Non fu sufficiente trarre il popolo dall’Egitto, fu necessario anche trarre l’Egitto dal cuore del popolo.

Leggiamo nel libro del profeta Osea al cap.11, 1- 9: 1 “Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. 2Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. 3A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. 4Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. 8Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele?

Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. 9Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”.

Il libro della sapienza mette in relazione i flagelli inflitti agli egiziani con i prodigi che sostennero il popolo lungo il suo peregrinare verso il Sinai (cfr. Sap. cap. 17-19). Dio educò il suo popolo a divenire tale a non essere più,  servi del faraone, ma servi del Signore. Diventare padroni di se stessi e quindi uomini liberi, significa per Israele riconoscersi servi del Signore.

Ecco allora che attraverso la sete, la fame, la paura, la nostalgia essi imparano ad abbandonarsi alle cure di Dio alla sua provvidenza, ad essere responsabili del mondo in cui vivono e del tempo di cui dispongono come talenti di Dio da trafficare per dargli rendergli lode e gloria nei secoli.

Attraverso il dono della manna essi imparano a non lavorare in giorno di Sabato e a non accumulare oltre il necessario. Col dono delle quaglie venute dal cielo e con l’acqua scaturita dalla roccia essi sperimentano la provvidenza di Dio. Nella guerra contro Amalek dove Mosè in preghiera aiutato da Aronne e Cur ottiene la vittoria del popolo, essi comprendono che non nei carri né nei cavalli, ma nel nome del Signore va riposta la propria fiducia.

Anche Mosè passo passo col popolo viene plasmato dal Signore. Egli diviene sempre più l’uomo di Dio. Il Signore incide nel suo cuore la legge divina perché la trasmetta ai suoi fratelli. Svolgendo questa funzione egli però rischierà di soccombere, prostrato dalla fatica, ma il Signore, attraverso Jetro suo suocero, gli suggerirà di condividere con gli anziani del popolo la responsabilità. Gli disse Jetro: «Tu sta’ davanti a Dio in nome del popolo e presenta le questioni a Dio. A loro spiegherai i decreti e le leggi; indicherai loro la via per la quale devono camminare e le opere che devono compiere. Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini integri che temono Dio […] e li costituirai capi di migliaia, di cinquantine e di decine. Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà qualche questione importante la sottoporranno a te» (Es 19, 19-22). Nascono così i giudici che guideranno il popolo fino alla nascita della monarchia e lo aiuteranno ad applicare nel quotidiano la legge del Signore, la torah.

Tutto perciò nella vita di Mosè è in funzione del popolo, il quale diviene sempre più protagonista della sua storia d’amore con Dio. A differenza dei patriarchi, ad esempio, il testo sacro non si sofferma sull’esperienza matrimoniale di Mosè, anzi lascia trapelare l’idea che egli rinunciò a una storia d’amore personale in funzione della vera storia d’amore: quella di Dio con il suo popolo. Jetro si presenta a Mosè presso il monte di Dio con la moglie Zipporah e i due figli. Dal nome del secondo figlio, emblematico quanto il primo: Eliezer che significa: Il Dio di mio padre mi è venuto in aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone, capiamo che questo figlio è nato dopo (o durante) gli eventi della liberazione dall’Egitto, ma che comunque Mosè si vide costretto, a causa della sua missione presso il popolo a rimandare la moglie alla casa paterna (Es 18, 1- 12).

 

2.5.Gesù e Mosè a confronto: due legislatori, un solo progetto di salvezza e liberazione

 

Mosè pubblica la sua Legge sul Sinai.  

Una corrente posteriore fa uscire la Legge non dal Sinai, ma da Sion. 

Ma né dal Sinai, né da Sion, Cristo pubblica la sua nuova legge.

Come contratto bilaterale, la Legge esigeva dei testimoni-mediatori. 

La leggenda vi vedrà gli angeli. 

Ma la promessa, contratto unilaterale, non ha che Dio per mediatore-testimone.

Mosè istituisce il riposo del sabato; ma il giudaismo posteriore trasformò questo giorno dedicato alla gioia e al riposo in un giorno di soggezione legalistica dal quale Cristo ci libera “perché egli è più del sabato”.

Il colpevole era lasciato alla vendetta sovente esagerata della vittima.

Mosè autorizza sola una vendetta uguale al danno (taglione). 

Cristo si spinge più oltre, esigendo il perdono e la pazienza.

Mosè raccomandava di non disdire un giuramento; Cristo vuole che la lealtà cristiana non debba neppure più appoggiarsi sul giuramento.

Mosè raccomandava di non uccidere; Cristo chiede di amare anche il proprio nemico: l’omicida è colui che non ama il suo fratello.

Mosè proibiva l’adulteri; Cristo proibisce anche il peccato interiore.

Mosè voleva che la purezza dell’uomo si regolasse su una pretesa purezza del suo nutrimento; Cristo rivela che non c’è purezza se non nel cuore e nell’intenzione. Mosè ordina la circoncisione e la presentazione al tempio dei bambini, in segno della loro appartenenza all’Alleanza. 

Cristo si sottomette a questa legge, ma mostra che la sua vera circoncisione è nell’obbedienza al Padre.

Per dare valore alla Legge, Mosè proclama che essa è sorgente di vita; Cristo al contrario, fa della fede la sorgente di vita.

Mosè fa dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo due comandamenti distinti. 

Cristo ne fa uno solo: l’amore degli altri è il riflesso dell’amore di Dio per noi. 

Per questo deve andare fino all’amore dei nemici.

Mosè conosce qualche caso di protezione del povero; Cristo si preoccupa di farne l’applicazione.

Mosè permetteva il ripudio; Cristo difende la fedeltà coniugale.

Per non aver compreso Mosè, i Giudei non comprendono Cristo.

Agli occhi di Matteo la trasfigurazione  è l’avvenimento in cui Cristo appare come il nuovo Mosè. Cfr. l’irraggiare della sua faccia. Si noterà anche il fatto che Matteo contrariamente a Marco nomina in primo luogo Mosè.

La voce che parla nella nuvola ricorda quella del Sinai.

“Ascoltatelo” è l’ordine dato al popolo riguardo al nuovo Mosè.

La qualità di legislatore è ora congiunta al mistero pasquale di sofferenza e di morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I SANTUARI DEI PASSIONISTI PER IL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA

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Roma. Anno santo della misericordia. I Passionisti per il giubileo indetto da Papa Francesco. 

di Antonio Rungi 

L’indizione del giubileo della misericordia che Papa Francesco hanno ufficializzato venerdì 13 marzo, in occasione del secondo anniversario della sua elezione a Romano Pontefice è stato accolto dai religiosi passionisti d’Italia e del Mondo come grande segno di speranza per la chiesa e per l’umanità. Già all’indomani di questo annuncio, i passionisti si sono attivati per offrire il necessario supporto sacramentale, in particolare della celebrazione del sacramento della penitenza nelle loro case religiose e soprattutto nei santuari diretti ai figli spirituali di San Paolo della Croce, veri e propri specialisti nel campo della spiritualità e dell’evangelizzazione.

I santuari sono i luoghi privilegiati dell’annuncio della parola di Dio, della preghiera e di sincera volontà di conversione. In essi i pellegrini, nel sacramento della Penitenza sperimentano la gioia dell’incontro con Dio, che offre a loro il perdono nella sua misericordia.

In Italia e nel mondo sono tantissimi i santuari dei passionisti, nei quali i religiosi sono a disposizione per il sacramento della confessione.

Iniziando da Roma, il santuario più conosciuto e frequentato è quello della Scala Santa, nei pressi di San Giovanni in Laterano, affidato ai passionisti, in perpetum, da Pio IX nel 1853. Qui opera una comunità di religiosi a servizio di questo luogo di preghiera di riconciliazione, sede provinciale dei passionisti italiani.

Nel Lazio, un altro importante santuario dei passionisti è quello di Santa Maria Goretti, in Nettuno (Latina), dedicato alla Madonna delle Grazie ed eretto nel 1888. Moltissimi i pellegrini che giungono da ogni parte del mondo per visitare le spoglie mortali di santa Maria Goretti, vergine e martire. Anche qui opera una consistente comunità passionista a servizio del santuario e delle altre opere connesse a questo luogo di riconciliazione e penitenza. I passionisti curano anche il luogo del martirio di Santa Maria Goretti, a Le Ferriere.

In ordine di importanza e frequentazione di pellegrini, sempre nel Lazio i passionisti curano il Santuario della Madonna della Civita, nell’arcidiocesi di Gaeta, che ne è il proprietario, situato nel comune di Itri (Latina). Il santuario della Civita fu affidato ai passionisti esattamente 30 anni fa. Qui è impegnata totalmente per questo luogo di preghiera una comunità religiosa di quattro sacerdoti passionisti.

Nel Lazio sono poi da ricordare i Santuari della Madonna di Pugliano in Paliano (Frosinone), della Madonna di Corniano, in Ceccano (Frosinone), di Santa Maria a Fiume in Ceccano (Frosinone), di San Sossio Martire, in Falvaterra (Frosinone), della Madonna delle Grazie in Pontecorvo (Frosinone), della Madonna di Loreto, in Itri (Latina), della Madonna degli Angeli in Sora (Frosinone).

In Campania, i Passionisti curano alcuni santuari e monasteri, nei quali sono a disposizione per le confessioni di sacerdoti, religiosi e fedeli laici: Santa Maria ai Monti in Napoli; mentre si prestano per le confessioni al Santuario del Volto Santo, ai Ponti Rossi in Napoli, il Santuario e monastero di San Gabriele Arcangelo in Airola (Benevento),

Nel centro Italia, in Abruzzo, i passionisti sono i  responsabili del rinomato santuario di San Gabriele dell’Addolorata, a Isola del Gran Sassio (Teramo), con oltre 2 milioni di pellegrini all’anno e che per il Giubileo della Misericordia, dall’8 dicembre 2015 al 20 novembre 2016, accogliere circa 4 milioni di pellegrini da ogni parte del mondo. Il Santuario di San Gabriele è tra quelli più frequentati in Italia e nel mondo.

Altri importanti santuari, a livello locale e nazionali sono: La Presentazione e San Giuseppe al Mondo Argentario (Grosseto); il santuario di Santa Gemma a Lucca, della Madonna della Stella a Montefalco (Perugia); Santuario della Basella (Bergamo); il Santuario della Madonna Addolorata in Sicilia, a Mascalucia (Catania), il Santuario della Madonna della Catena a Laurignano (Cosenza); il Santuario della Madonna delle Rocce a Molare (Alessandria); il Santuario di San Pancrazio a Pianezza (Torino).

Da Nord a Sud, la nostra Penisola è contrassegnata da santuari diretti ed animati dai passionisti che in questo Anno Santo della Misericordia, in sintonia con Papa Francesco, vogliono sinceramente prestare la loro opera, il loro servizio, generoso, competente e sentito nell’amministrare il sacramento della confessione in questi luoghi dello spirito, dove si tocca con mano quanto sia infinita la misericordia di Dio nei confronti di ogni peccatore, sinceramente pentito e che ha volontà ferma di ricominciare una nuova vita nella luce e nella grazia di Dio.

Papa Francesco, parlando della misericordia, ha indicato anche il primo luogo in cui ciascuno può sperimentare direttamente l’amore di Dio che perdona: la confessione. L’icona del Papa inginocchiato dinanzi al confessore permane come il linguaggio più espressivo per far riscoprire la bellezza di questo sacramento da troppo tempo dimenticato. E poi da così grande sacramento della confessione che i passionisti, in questo giubileo straordinario della misericordia, vogliono ripartire, per portare al fedeli, ai pellegrini, a quanti raggiungeranno i santuario la gioia di essere e vivere da figli di Dio, riconciliati in Cristo, mediante il sacramento della purificazione e della conversione.