Archivi Mensili: ottobre 2016

P.RUNGI AUSPICA LA PROROGA DELLA CHIUSURA DEL GIUBILEO FINO A NATALE 2016

ANNO SANTO-01

COMUNICATO STAMPA

P.RUNGI (TEOLOGO MORALE). PROROGA DEL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA FINO A NATALE. RICHIESTA UFFICIALE AL PAPA PER QUESTA PROPOSTA CHE TROVA VASTO CONSENSO NELLA BASE CATTOLICA.

“Da più parte, nella comunità cristiana, si avverte la necessità e l’esigenza spirituale di prorogare fino a Natale 2016 il Giubileo Straordinario della Misericordia ed io personalmente sono favorevolissimo a che questo possa essere concesso dal Papa una proroga di un mese, fino a Natale, cosa che può stabilire di sua iniziativa”, è quanto scrive in una Nota personale, padre Antonio Rungi, teologo morale passionista del Santuario Mariano della Civita, in Itri (Lt).
“Il grande successo di numeri e di partecipazione autentica ai vari eventi giubilari possono giustificare –scrive padre Rungi – una proroga, in quanto è quasi naturale che l’anno si concluda con il Natale. Non a caso il Papa nella Bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia ha afferma che Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Nella «pienezza del tempo » (Gal 4,4), quando tutto era disposto secondo il suo piano di salvezza, Egli mandò suo Figlio nato dalla Vergine Maria per rivelare a noi in modo definitivo il suo amore. Chi vede Lui vede il Padre (cfr Gv 14,9). Gesù di Nazareth con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona rivela la misericordia di Dio”.
“La solennità del Natale –afferma padre Rungi – più che la solennità di Cristo Re dell’Universo, sembra, a mio modesto avviso, quella più adatta ed opportuna per chiudere questo giubileo che ha suscitato nel mondo tanto bisogno di ricevere e dare misericordia. Prorogare per un altro mese solo per la città di Roma, potrebbe essere un aiuto spirituale in più per quanti non hanno avuto modo di fare il giubileo in quest’anno. D’altra parte –conclude padre Rungi – le feste di Natale richiamano in Italia e a Roma tanti pellegrini, tante persone che rientrano in famiglia per le feste di questo periodo e sicuramente sarebbe un’occasione in più per poter attraversare la porta santa in San Pietro e nelle altre basiliche romane per ottenere le indulgenze plenarie. Confido nella sensibilità del Santo Padre, Papa Francesco, e delle istituzioni preposte al controllo e al monitoraggio dell’evento, affinché questa proroga di un mese possa essere accordata e attuata”. E a sostegno della sua iniziativa, padre Antonio Rungi, ha lanciato un sondaggio di opinione tra i cattolici, se sono d’accordo o meno su questa idea. Il web, come in altre cose, ha il suo peso e la sua incidenza.

ITRI- FESTA DI SAN PAOLO DELLA CROCE 2016

CALENDARIO 2015-RUNGI-PAG24

Il tempo il cui visse san Paolo della Croce

Riflessione di padre Antonio Rungi

Triduo di San Paolo della Croce – Venerdì 21 ottobre 2016

• Il vangelo di oggi ci presenta l’appello da parte di Gesù per imparare a leggere i Segni dei Tempi. San Paolo della Croce è stato in tutto un uomo, un religioso, un sacerdote, un missionario ed un santo del suo tempo..

• Luca 12,54-55: Tutti sanno interpretare gli aspetti della terra e del cielo, … “Quando vedete una nuvola salire a ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade.” Gesù verbalizza un’esperienza umana universale. Tutti e tutte, ciascuno nel suo paese e nella sua regione, sappiamo leggere gli aspetti del cielo e della terra. Il corpo stesso capisce quando c’è minaccia di pioggia o quando il tempo comincia a cambiare: “Pioverà”. Gesù si riferisce alla contemplazione della natura essendo una delle fonti più importanti della conoscenza e dell’esperienza che lui stesso aveva di Dio. Fu la contemplazione della natura ciò che aiutò a scoprire aspetti nuovi nella fede e nella storia della sua gente. Per esempio, la pioggia che cade sui buoni e sui cattivi, ed il sole sorge sui giusti e sugli ingiusti, lo aiuteranno a formulare uno dei messaggi più rivoluzionari: “Amate i vostri nemici!” (Mt 5,43-45).

• Luca 12,56-57: …, ma non sanno leggere i segni dei tempi. E Gesù ne trae la conclusione per i suoi contemporanei e per tutti noi: “Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?” Sant’Agostino diceva che la natura, la creazione, è il primo libro che Dio scrive. Per mezzo della natura Dio ci parla. Il peccato imbrogliò le lettere del libro della natura e, per questo, non siamo riusciti a leggere il messaggio di Dio stampato nelle cose della natura e nei fatti della vita. La Bibbia, il secondo libro di Dio, fu scritto non per occupare o sostituire la Vita, ma per aiutarci ad interpretare la natura e la vita e ad imparare di nuovo a scoprire le chiamate di Dio nei fatti della vita. “Perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?” Condividendo tra di noi ciò che vediamo nella natura, potremo scoprire la chiamata di Dio nella vita.

• Luca 12,58-59: Saper trarre la lezione per la vita. “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada procura di accordarti con lui, perché non ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esecutore e questi ti getti in prigione. Ti assicuro, non ne uscirai finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo”. Uno dei punti su cui Gesù insiste maggiormente è la riconciliazione. In quel tempo c’erano molte tensioni e conflitti tra i gruppi radicali con tendenze diverse, senza dialogo: zeloti, esseni, farisei, sadducei, erodiani. Nessuno voleva cedere dinanzi all’altro. Le parole di Gesù sulla riconciliazione che chiedono accoglienza e comprensione illuminano questa situazione. Perché l’unico peccato che Dio non riesce a perdonare è la nostra mancanza di perdono verso gli altri (Mt 6,14). Per questo, consiglia di cercare la riconciliazione prima che sia troppo tardi! Quando giunge l’ora del giudizio, sarà troppo tardi. Quando hai tempo, cerca di cambiar vita, comportamento e modo di pensare e cerca di fare il passo giusto (cf. Mt 5,25-26; Col 3,13; Ef 4,32; Mc 11,25).

Tra Giansenismo e quietismo

Nel tempo in cui è vissuto san Paolo della Croce trionfano il razionalismo, lo scientismo e si comincia a sviluppare il materialismo. Si espande dappertutto uno scetticismo sarcastico e dissacratore, che ha il suo più noto rappresentante in Voltaire, nato nello stesso anno di Paolo.

Il giansenismo è movimento teologico, religioso e politico, che prende nome da Giansenio (forma italianizzata del nome di Cornelius Otto Jansen, 1585-1638), teologo olandese, il cui trattato Augustinus, uscito postumo, fu condannato con un decreto dell’Inquisizione nel 1641, quindi da Urbano VIII (1642) e da Innocenzo X, la cui bolla Cum occasione (1653) condannava come ereticali le sue posizioni sulla grazia e sul libero arbitrio, sul peccato universale e sulla redenzione.

La dottrina

Giansenio estremizzava l’idea di Agostino secondo cui l’uomo, dopo il peccato originale, non è più in grado di volere o compiere il bene con le sole sue forze. La venuta di Cristo avrebbe dato all’uomo la possibilità di salvarsi, ma solo in quanto, dopo di essa, Dio concede la grazia, senza la quale l’uomo non sarebbe in grado di avere neppure il movimento iniziale verso il bene. All’uomo peccatore Dio non è tenuto, in giustizia, a concedere la grazia: questa è data soltanto a coloro che Dio, nella sua volontà imperscrutabile, ha predestinato, indipendentemente e prima di ogni previsione dei meriti. Tale predestinazione non è concessa neppure a tutti i battezzati, ma soltanto a coloro che Dio ha scelto particolarmente. Senza la grazia, l’uomo non può volere e fare altro che male; con essa, invece, non può volere e fare altro che bene. Questo forte accento sulla predestinazione ha fatto accostare il g. al calvinismo. Altri aspetti importanti del g. sono il rigorismo morale, l’episcopalismo e l’importanza fondamentale attribuita alla Bibbia e agli scritti dei Padri della Chiesa.

Il quietismo è un complesso di dottrine a sfondo mistico diffuse nel 17° sec., incentrate sull’affermazione della necessità della preghiera di quiete, di un atteggiamento cioè di totale e puro abbandono contemplativo in cui deve porsi il fedele di fronte a Dio, per adorarlo, amarlo e servirlo, senza alcuna produzione di atti.

Quella stessa epoca, tuttavia, fu anche un’epoca di grande passione per la mistica. Basta ricordare la passione e le sofferenze di Pascal e Fénelon o anche il fatto che delle diatribe suscitate dal giansenismo e dal quietismo se ne dovettero interessare re e papi, governi e università.

Il quietismo si connette con le concezioni sulla preghiera che cominciarono a divulgarsi durante la Controriforma per svilupparsi nell’età barocca (prevalenza della preghiera privata e mistica sulla liturgica). Grande influenza ebbero gli scritti dello spagnolo J. Falconi (m. nel 1638), che sosteneva il metodo contemplativo con l’assoluto abbandono alla volontà divina, e del francese F. Malaval, che intendeva come atteggiamento fondamentale l’assoluta ‘nudità’ dello spirito, l’abbandono cioè di ogni immagine sensibile o intelligibile. Massimo esponente del q. fu M. de Molinos che coinvolse in Italia P.M. Petrucci e altri; in Francia i casi più celebri sono quelli di F. La Combe, di Madame J.-M. Guyon, di Fénelon.

Giansenismo e quietismo esprimono la passione di molti per il rigorismo morale e per le vie mistiche del cammino verso Dio. Alfonso de’ Liguori e Paolo della Croce rispondono, in Italia, a queste esigenze nel modo più pacifico e ortodosso e in armonia con il magistero della Chiesa.

I suoi santi maestri

Le opere di san Francesco di Sales furono probabilmente le prime che Paolo Danei conobbe. Da lui apprese la dottrina del “sacro silenzio d’amore che è un parlare tanto grande alle orecchie dello sposo divino” (L I, 462), come pure la dottrina dell’amore “compassivo” che va a Dio attraverso la via unica del Cristo crocifisso.

“Chi guarda solo la consolazione perde di vista il gran Dio delle consolazioni” (L I, 535), ripete Paolo col Sales. Lo spirito mite di Francesco di Sales si riprodusse nella mitezza e misericordia che sempre temperarono l’austerità di Paolo. Lo stesso Francesco di Sales fu probabilmente il veicolo attraverso cui Paolo conobbe gli scritti di Teresa d’Avila. Il nome della santa è l’unico che s’incontra nel Diario di Castellazzo. Fin dall’infanzia fu colpito dalla frase della santa: “0 patire o morire”. Apprese da lei, particolarmente, i criteri di discernimento dell’orazione e soprattutto la grande stima per la vita di orazione. Capì che s’incontrano pericoli anche nelle vie di Dio, ma quando si vede che i frutti sono buoni, bisogna accogliere i doni di orazione, che non sono un bene privato ma fanno crescere tutta la Chiesa.

Altro autore spirituale che per tutta la vita leggerà volentieri è san Giovanni della Croce, che egli chiama “il principe dei mistici”. In Giovanni scoprì la spiritualità della Passione applicata alle vie della contemplazione di Dio. S’incontra veramente Dio quando si rinuncia a tutte le soddisfazioni, anche alle più spirituali. Gesù crocifisso è il testimone perfetto dell’adorazione pura e della contemplazione di Dio solo. Con Giovanni, Paolo approfondisce il discernimento dei cammini spirituali e la diffidenza verso la ricerca di doni straordinari, come visioni, miracoli, locuzioni. Scopre sempre meglio le caratteristiche degli alti gradi di orazione. “Il segno che l’anima deve cessare dai discorsi interiori si ha quando essa gusta di starsene a solo a solo nel seno amoroso del Signore, con una dolce vista di fede, con un silenzio sacro di amore” (L II, 818). “Per mezzo del vostro patire si purifica l’imperfetto e l’anima diviene come un cristallo in cui si riverbera la luce del Sole Divino e resterete tutta in Dio trasformata per amore” (LII,719).

Da Giovanni, Paolo mutua un’espressione e una dottrina che gli saranno tanto care e che esprimono la sua totale apertura a Dio Padre: “stare nel seno del Padre”. Il seno del Padre è l’essenza divina dove Gesù sempre abita e anche noi siamo chiamati ad abitare. A quell’altezza cessa il chiasso delle parole umane e si riposa sempre in un silenzio d’amore. Scriveva nel 1733 ad Agnese Grazi: “Se ne stia alla presenza di Dio, con una pura e semplice attenzione amorosa a quell’immenso Bene, in un sacro silenzio d’amore, riposando con questo santo silenzio tutto il suo spirito nel seno amoroso dell’Eterno Dio” (L I,103).

Il carisma della Passione

La coscienza di dover incentrare l’attenzione del suo spirito nella Passione di Gesù crebbe progressivamente nel giovane Paolo Danei. All’inizio sentì di chiamare i compagni che avrebbe radunato “i poveri di Gesù”. Povertà, distacco dal mondo, solitudine erano gli ideali che più lo attraevano. Erano, per così dire, negazioni di ciò che vedeva come tanto negativo nella vita cristiana, negazioni delle idolatrie del cuore e del peccato. La prima idea positiva che compare al centro della spiritualità di Paolo è il nome di Gesù al centro del “segno” di cui si vede fregiato, sotto la croce bianca. Segue la veste nera di cui si doveva vestire, con la precisazione del suo significato di “perpetuo lutto” per la Passione e morte di Gesù. Questa spiegazione potrebbe far pensare che Paolo concepisse la Passione unicamente nel suo aspetto negativo di conseguenza e riparazione del peccato. Ma innumerevoli testi dimostrano, al contrario, che Paolo fu uno dei mistici che ebbe più chiaro il valore positivo della Passione, come massima espressione dell’amore di Dio.

Il voto della Passione, che Paolo emise già nel 1721, costituirà la sua personale consacrazione alla Passione, che diventerà ben presto l’elemento distintivo della nuova congregazione, in sostituzione dell’ideale negativo della povertà. Alla scoperta di questa vocazione Paolo arrivò attraverso la personale esperienza del fallimento di progetti maturati sotto l’impulso delle ispirazioni di Dio. In quell’occasione Paolo ebbe anche la chiara intuizione che il “radunare compagni” avrebbe avuto come scopo l’interiorizzazione della Passione. Il “segno” si arricchì poi del ricordo della Passione e del simbolo dei chiodi. Il voto della Passione entrò nelle Regole verso il 1730, nel testo che Paolo preparò per l’esame del suo vescovo, il cardinale Altieri. Da allora in poi tutta la spiritualità del santo gravita intorno al tema della Passione.

La volontà di Dio

La prima espressione della spiritualità della Passione in Paolo è data dalla conformità alla volontà di Dio, che comporta un’irremovibile fiducia nel Padre sull’esempio di Gesù. “La santità consiste nell’essere totalmente uniti alla volontà di Dio”, scriveva ad Agnese Grazi (L I,286). E scrivendo a Tommaso Fossi nel 1772, così sintetizzava una dottrina vissuta e predicata per tutta una vita: “L’orazione non consiste in aver consolazioni, lacrime, ecc., né si dà agli uomini forti cibo di fanciulli. È ben vero che il prendere quello che Dio manda e lasciarsi totalmente governare dalla sua infinita Bontà (facendo però noi le nostre parti ed eseguendo in tutto la sua divina volontà) è il meglio” (L I,805).

Che questa conformità non sia passiva rassegnazione, magari razionalizzata alla maniera degli stoici, lo si deduce dal fatto che Paolo distingue tre gradi di adesione alla volontà di Dio: “Gran punto è questo: è gran perfezione il rassegnarsi in tutto al divino volere; maggior perfezione è il vivere abbandonata, con grande indifferenza, nel divino Beneplacito; massima, altissima perfezione è il cibarsi in puro spirito di fede e di amore della divina volontà. Oh dolce Gesù, che gran cosa ci avete insegnato con parole ed opere di eterna vita! Si ricordi che quest’amabile Salvatore disse ai suoi diletti discepoli che il suo cibo era di fare la volontà dell’eterno suo Padre” (L I,491).

È importante vedere come per Paolo la Passione non è soltanto né principalmente una riparazione che Gesù offre alla giustizia offesa del Padre. La Passione parte dal Padre come amore. In questa volontà di beneplacito, Paolo assorbe anche il peccato suo o di altri, che tanto affligge il sofferente, portandolo a pensare che la sofferenza sia soltanto castigo delle colpe.

Scriveva a Marianna Girelli: “Conviene prendere le percosse che vengono dall’alto e soffrirle pacificamente, con amorosa mansuetudine, dalla mano dolcissima del gran Padre celeste. Così passa il temporale che minaccia tempesta e si fa come il vignaiolo o ortolano che quando viene la tempesta si ritira nella capanna fino a quando sia passata e sta in pace. Così noi, in mezzo a tante tempeste che ci minacciano i nostri ed i peccati del mondo, stiamocene ritirati nell’aurea capanna della divina volontà, compiacendoci e facendo festa che si adempia in tutto il sovrano divino Beneplacito. Perda di vista, signora Marianna, ogni cosa creata; tenga l’intelletto ben purgato e netto da ogni immagine e se ne fugga, in mezzo a tanti guai che sono nel mondo, nel seno del celeste Padre per Gesù Cristo Signore nostro, ed ivi si perda tutta nell’immensa Divinità come si perde una goccia d’acqua nel grande oceano: così non vivrà più una vita sua, ma vita deifica e santa” (L III,753). In questo senso egli perfeziona due meravigliose espressioni che aveva avuto care fin da giovane: “Credo che la croce del nostro dolce Gesù avrà poste più profonde radici nel vostro cuore e che canterete: “patire e non morire”; oppure: “o patire o morire”; oppure ancora meglio: “né patire né morire”, ma solamente la totale trasformazione nel divino Beneplacito” (L II,440).

L’incontro col Taulero: il fondo dell’anima

Giovanni Taulero, domenicano tedesco vissuto nel secolo XIV, appartenente al gruppo di teologi mistici della scuola Renana, era un autore discusso. Tuttavia insigni teologi e santi lo avevano validamente difeso. Taulero non è principalmente uno speculativo, ma un santo. La sua ambizione non è quella di insegnare dottrine meravigliose, ma di santificarsi e santificare. La pratica non è mai separata dalla teoria. E non si tratta di una pratica tendente a fare opere apprezzabili dagli uomini, ma tendente a fare spazio all’azione dello Spirito di Dio.

Dal Taulero Paolo ricava soprattutto la dottrina riguardante “il fondo dell’anima”. Entrando nel proprio fondo, l’anima ha la percezione di Dio nella forma più pura che si possa avere. Ivi risuona la sua testimonianza quando ogni altra voce tace. È necessario che tutte le facoltà cessino di operare perché si possa ascoltare Dio in questo fondo, anche se è vero che le azioni delle facoltà ricevono forza da esso. Questa percezione la si può avere, forse, solo per qualche istante, ma quando la si ha, è come se si vivesse già nell’eternità. Nel fondo dell’anima abita Dio con la sua luce increata.

Paolo chiama il fondo assai liberamente “suprema parte dello spirito” (L I,118), “santuario dell’anima” (L I,538), “apice della mente” (L II,731), “fondo o centro dell’anima” (L II,471). Ad esso non possono accostarsi né gli angeli cattivi né quelli buoni, ma l’anima è sola col suo Dio. Così ne scriveva ai suoi religiosi in una circolare del 1750: “Gesù, che è il divino Pastore, vi condurrà come sue care pecorelle al suo ovile. E qual è l’ovile di questo dolce, sovrano Pastore? Sapete qual’è? È il seno del divin Padre; e perché Gesù sta nel seno del Padre, così in questo seno sacrosanto, divino, Egli conduce e fa riposar le sue care pecorelle; e tutto questo sopraceleste, divino lavoro si fa nella casa interiore dell’anima vostra, in pura e nuda fede e santo amore, in vera astrazione da tutto il creato, povertà di spirito e perfetta solitudine interiore; ma questa grazia sì eccelsa si concede solamente a quelli che studiano di essere ogni giorno più umili, semplici e caritativi” (L IV,226).

La lettura del Taulero produceva in Paolo straordinarie risonanze. Sentiva una profonda sintonia con lui, si commoveva anche soltanto al nominarlo, pensando ai suoi insegnamenti.

Il tutto e il niente

Assai prima di conoscere il Taulero, Paolo insiste sulla presentazione della creatura come un niente o “un orribile nulla” e di Dio come “il Tutto”. “Ritorni a buttarsi nel suo niente, -scrive alla Grazi nel 1741 – a conoscere la sua indegnità e da questa cognizione ne ha da nascere una maggior fiducia in Dio” (L I,267). E nel 1740 aveva già scritto alla Bresciani: “Chi vuol trovare il vero tutto che è Dio, bisogna che si butti nel niente. Dio è quello che per essenza è quello che è: “Io sono colui che sono”. Noi siamo quelli che non siamo, perché per quanto scaviamo a fondo non troveremo altro che niente, niente; e chi ha peccato è peggio dello stesso niente, perché il peccato è un orribile nulla, peggio del nulla” (L I,471).

Motivazione dell’invito ad annichilarsi è, per Paolo, sia la condizione di creatura, sia l’esempio della kenosi del Figlio di Dio. Nell’accentuazione confusionaria e permissiva della benevolenza di Dio che caratterizza la nostra epoca non è facile percepire l’elemento dell’infinita distanza fra il Creatore e la creatura che Paolo manifestava anche con la semplice espressione con cui si riferiva a Dio: “Sua Divina Maestà”. Si tratta di una distanza morale che affonda le sue radici nella distanza metafisica. Paolo sintetizza il suo pensiero a proposito di tale distanza con le seguenti espressioni: “Per essere santo ci vuole una “N” e una “T”. Chi cammina più di dentro indovina il significato, ma chi non è ancora entrato in vera profonda solitudine, non sa indovinarne il significato. Ed io soggiungo: la “N” sei tu che sei un orribile “nulla”; la “T” è Dio che è l’infinito “Tutto” per essenza. Lascia dunque sparire la “N” del tuo niente nell’infinito “Tutto” che è Dio ottimo massimo ed ivi perditi tutto nell’abisso dell’immensa Divinità. Oh che nobile lavoro è questo” (L III,447).

A padre Pietro Vico, maestro dei novizi al monte Argentario, scriveva: “Non v’è da temere nessun inganno purché vi sia e si accresca la cognizione del proprio nulla avere, nulla sapere, nulla potere e che, quanto più si scava, si trova anche più l’orribile nulla, per quindi lasciarlo sparire nell’infinito Tutto” (L III,450). E ad Agnese Grazi: “Non v’è cosa che piaccia più a Dio quanto l’annichilirsi e abissarsi nel nulla e questo spaventa il diavolo e lo fa fuggire… Per prepararsi alla battaglia ed essere armata dell’armatura di Dio non v’è mezzo più efficace che l’annichilirsi e annientarsi davanti a Dio, credendo fermamente di non essere atta ad uscirne vittoriosa se Dio non è con lei a combattere, onde deve gettare questo suo nulla in quel vero tutto che è Dio e con alta fiducia combattere da valorosa guerriera, stando certissima d’uscirne vittoriosa” (L I,150).

Nel 1768 scrive alla Calcagnini, con grande tenerezza di espressioni: “Standosene in quel sacro deserto interiore, ivi lasci sparire il suo vero nulla nell’infinito Tutto e riposi in Gesù Cristo nel seno del dolcissimo Padre come bambina, succhiando il latte divino alle mammelle sacratissime dell’infinita sua carità. E se l’amore la fa dormire di quel mistico sonno che è l’eredità che il Sommo Bene dà in questa vita ai suoi diletti, lei dorma pure, che in tal sacro sonno diverrà sapiente della sapienza dei santi” (L III,815).

Morte mistica e divina natività

Paolo della Croce deve al Taulero la nozione di “divina natività”. La nozione di “morte mistica” l’aveva maturata per conto suo fin dal tempo del Diario, anche se in esso non si trova esplicitamente questa espressione. Lui preferiva allora “il totale staccamento da tutto il creato”, comprese le consolazioni spirituali. Scrivendo, nel 1734, alla Grazi, le dice: “Oh mia figlia! Fortunata quell’anima che si stacca dal suo proprio godere, dal proprio sentire, dal proprio intendere! Altissima lezione è questa; Dio gliela farà imparare se lei metterà il suo contento nella croce di Gesù Cristo, nel morire a tutto ciò che non è Dio nella croce del salvatore!” (L I,107).

L’espressione “morte mistica” era assai in uso presso i quietisti. Paolo, però, la usa interpretandola vitalmente all’interno della propria dinamica interiore, rigorosamente ortodossa e responsabilizzante. Dopo il 1748, la dottrina della morte mistica, collegata con quella della divina natività, ritorna continuamente nei suoi scritti. Scrive, ad esempio, a Lucia Burlini nel 1751: “Tutta umiliata e riconcentrata nel vostro niente, nel vostro niente potere, niente avere, niente sapere, ma con alta e filiale confidenza nel Signore, vi avete da perdere tutta nell’abisso dell’infinita carità di Dio che è tutto fuoco d’amore… Ed ivi in quell’immenso fuoco lasciar consumare tutto il vostro imperfetto e rinascere a nuova vita deifica, vita tutta d’amore, vita tutta santa; e questa divina natività la farete nel divin Verbo Cristo Signor nostro… Sicché morta misticamente a tutto ciò che non è Dio, con altissima astrazione da ogni cosa creata, entrate sola sola nel più profondo della sacra solitudine interiore, nel sacro deserto…” (L II,724-725).

Per due secoli si è cercato un piccolo trattato sulla morte mistica che Paolo diceva di aver inviato a diverse persone. Nel 1976 ne è stata scoperta una copia nel monastero delle monache passioniste di Bilbao in Spagna. Negli anni seguenti ne furono trovate altre due copie. Il trattatello è intitolato “Morte mistica ovvero olocausto del puro spirito di un’anima religiosa”. Si può dividere in due parti. La prima contiene la dottrina generale sulla morte mistica. La seconda applica tale dottrina alla pratica dei singoli consigli evangelici nella vita religiosa. Gli studi che sono stati fatti rilevano che il testo, così com’è, non sembra stilato da san Paolo della Croce. La sua stesura sembra dovuta a un collaboratore redazionale, che fu probabilmente il padre Giammaria Cioni. La data di composizione più probabile si colloca negli anni 1760-1761, anni di grandi prove per Paolo, a causa del fallimento definitivo della richiesta dei voti solenni e a causa delle malattie di cui soffriva.

La morte mistica è una vera immersione battesimale. Le corrisponde molto bene l’attuale spiritualità del battesimo e quella liturgica del mistero pasquale. Anche la spiritualità dell’immersione e della croce gloriosa, come viene oggi sviluppata dal movimentò neocatecumenale, è fondamentalmente la stessa cosa. Paolo della Croce intuiva queste realtà sulla base dei testi scritturali e delle esperienze dei mistici cristiani che lo avevano preceduto.

 

 

“Vorrei incenerirmi d’amore”

Nel secolo dell’Illuminismo e dei miscredenti, Paolo è uomo di Dio tra gli uomini della ragione. Discernendo con molta perspicacia i mali del tempo, da lui chiamato “lacrimoso e calamitoso”, ne scopre e ne indica il rimedio più efficace nella passione di Gesù. Si consuma per piantare la croce di Cristo nel cuore dei fratelli. Per piantarvi cioè l’amore di Dio, il solo capace di salvare l’uomo. La croce al centro di tutto, come segno e sigillo dell’amore di Dio. “Nella Passione c’è tutto”, dice con forza. E la sua vita gira solo attorno a quel perno, segnata com’è dal mistero della croce. Un venerdì santo il Crocifisso e l’Addolorata gli toccano il petto. Paolo si ritrova scolpiti nel cuore gli strumenti della Passione, il distintivo passionista, i dolori della Madonna. “Oh! Figlia mia che dolore, confiderà a Rosa Calabresi, che dolore provavo, oh! che amore. Un misto di estremo dolore e di eccessivo amore”. Un giorno il Crocifisso stacca le braccia dalla croce e si stringe Paolo al petto. Gli sembra “di stare positivamente in paradiso”. Tale è la veemenza del suo amore verso Dio che per anni soffre di una “strana palpitazione cardiaca” e gli abiti sono bruciati dalla parte del cuore. Con un ferro rovente si imprime sul petto il nome di Gesù. Spasima: “Vorrei incenerirmi d’amore… Non sarebbe meglio che come una farfalletta mi slanciassi tutto nelle amorose fiamme, ed ivi in silenzio d’amore restassi incenerito, sparito, perso in quel divin Tutto?… Le mie viscere sono tanto inaridite che i fiumi non bastano a dissetarmi; se non bevo ai mari, non mi levo la sete. Ma io voglio bere ai mari di fuoco d’amore”. Ha ragione di sentirsi “liquefatto in Dio”. Vuole incendiare il mondo intero d’amore. “Mi resti impressa nel cuore la passione del mio Gesù, che poi tanto e tanto lo desidero, e vorrei imprimerla nel cuore di tutti, che così brucerebbe il mondo di santo amore”. Vive immerso in una continua contemplazione ed in estasi frequenti. Percorre l’Italia dal Piemonte alle Puglie per comunicare a tutti l’incontenibile amore al Crocifisso che gli brucia dentro. Predica oltre 250 missioni (compresi corsi di esercizi spirituali a clero e monache), accompagnate spesso da miracoli e sempre da immensi frutti spirituali. Non sceglie di sua iniziativa pulpiti di prestigio anche se vi è spesso chiamato. Preferisce la povera gente dimenticata ed abbandonata da tutti. Predicazione appassionata la sua, accompagnata da flagellazioni e penitenze. Banditi e peccatori incalliti, vescovi e cardinali si sciolgono in pianto quando lui parla di Gesù crocifisso. “Fa liquefare i cuori quantunque siano di macigno”. E’ dotato di “vivacità e perspicacia di mente singolari, di raro talento ed apertura di mente, di grand’ingegno”. Ma attinge non tanto al bagaglio culturale, del resto non indifferente, quanto alla sua personale esperienza di Dio. Scrive oltre cinquantamila lettere. Peccato che solo una minima parte sia pervenuta fino a noi. Spesso è con la penna in mano davanti a “mucchi di lettere così grossi che spezzerebbero un travertino o un masso di bronzo”. Molte lettere riguardano la direzione spirituale. Numerose le anime da lui dirette rintracciabili non solo tra religiosi e religiose, ma anche tra i laici, nobili, vescovi, prelati della curia romana. Inizia a dirigerle prima ancora di essere ordinato sacerdote e vi dedicherà le sue energie migliori fino alla morte. La predicazione lo mette in contatto con anime che restano affascinate da lui, e che a lui si affidano per meglio rispondere ai richiami della grazia. Anche se esigente, infonde coraggio, fiducia e sicurezza. Insegna a morire a se stessi per rinascere continuamente a vita nuova in Cristo crocifisso e risorto. Esorta a dimenticare se stessi e riposare nel seno del Padre, coltivando l’unione con Lui. “Per essere santo, scrive, ci vuole una N e una T… la N sei tu che sei un nulla; la T è Dio che è l’infinito tutto per essenza. Lascia dunque sparire la N del tuo niente nell’infinito Tutto”. Pur avendo celebrato il matrimonio mistico nella sua giovinezza, vive una straziante aridità per circa 50 anni. Sperimenta prove durissime rare a trovarsi in altri mistici. Scrive nel diario: “Desidero solo di essere crocifisso con Gesù”. Il suo anelito si realizza perfettamente. E il mistico del Crocifisso, diventa mistico crocifisso. Geme: “Cammino per vie spaventose. Il cielo per me sembra sia diventato di bronzo e di fuoco la terra. Sono come un povero naufragante che in notte buia attaccato ad una piccola tavoletta in mezzo alle onde tempestose, aspetta di bere a momenti la morte”. Si sente “un tronco secco abbandonato nella foresta perché fradicio e inutile anche per il fuoco”. Vive in nuda fede, nella “fede oscura”, sorretto da una incrollabile speranza. Si abbandona totalmente alla volontà di Dio “come una barca senza vela”. Raccomanda di cibarsi “alla grande” della divina volontà. Per assurdo troverebbe il paradiso anche nell’inferno se questa fosse la volontà di Dio. “Mio maggiore desiderio, scrive, è quello di consumarmi tutto in quella volontà”. Ha visto bene chi lo ha definito il “principe dei desolati” e “il più grande mistico e scrittore spirituale del settecento”. Vive una aspra penitenza. Nella propria croce Paolo vede una partecipazione alla passione di Gesù. Chiama le sofferenze “scherzi d’amore… finezze d’amore d’un Dio amante… ricami del lavoro amoroso di Dio… preziose margherite e gioie del cuore”. Ama e trova beata la solitudine. Ma sa anche stare in compagnia. E’ sensibile e gentile, soave ed arguto. Lo chiamano “mamma della misericordia”. E’ facile al pianto ed alla commozione sia davanti alla bellezza di un fiore che davanti alle macerie lasciate dal peccato nel cuore dell’uomo. Alla sua congregazione “drappello radunato sotto la croce” Paolo affida la missione di risvegliare nel cuore dell’uomo la “grata memoria” della passione di Gesù, “l’opera più stupenda del divino amore… il miracolo dei miracoli di Dio”. Ai suoi figli lascia il compito di camminare vicino ai crocifissi di ogni tempo e di ogni luogo condividendone angosce e speranze. Quello che i Passionisti, presenti in oltre 50 nazioni, vivono ogni giorno sull’esempio e con il dinamismo di Paolo loro Padre e Fondatore. E non solo i Passionisti. Il movimento suscitato da Paolo si è via via allargato. Alcuni istituti di vita consacrata, molti laici impegnati sono stati contagiati da lui. Si richiamano alla sua ricca spiritualità e lo amano con un tenero amore di figli.

FALVATERRA (FR). MORTO FRATEL CLEMENTE CALABRESE PASSIONISTA

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Falvaterra (Fr). Morto Fratel Clemente Calabrese, passionista

di Antonio Rungi

Dopo una lunga malattia, all’età di 77 anni, di cui 61 vissuti da religioso passionista, si è spento, serenamente, Fra Clemente di Gesù Bambino (al secolo Antonio Calabrese).

Nato il 17 febbraio 1939 da Giovanni Calabrese e da Maria Filomena Santarpia, a Sant’Antonio Abate, nell’Arcidiocesi di Sorrenti-Castellammare d Stabia (Na), Fratel Clemente professò i consigli evangelici e la memoria della passione di Cristo, tra i Passionisti, il 24 febbraio 1955 a Falvaterra, dove ha vissuto l’ultimo periodo della sua malattia e dove, domenica, 23 ottobre 2016, alle ore 15.30 si svolgeranno i funerali e dove verrà seppellito nel cimitero del Ritiro di San Sosio Martire.

Fratel Clemente è stato un religioso laborioso che si è dedicato, con grande umiltà, sensibilità, generosità e senso di appartenenza alla Congregazione. Per lunghi anni è stato Fratel questuante nella zona del Cilento, dove era conosciutissimo e dove raccoglieva le derrate alimentari necessarie per i bisogni  delle comunità in  cui viveva. E’ stato in vari conventi dell’ex-Provincia religiosa dei Passionisti del Basso Lazio e Campania e da diversi anni, prima di Falvaterra, ha vissuto nel convento di Sora, sempre con la sua interiore predisposizione ad essere utile alla Congregazione, di cui andava fiero.

Da diversi anni era affetto da varie malattie, che progressivamente lo hanno portato all’inabilità totale, fino al giorno della sua morte, avvenuta, oggi, 21 ottobre 2016, in mattinata, all’Ospedale “Cristo Re” di Roma.

La famiglia religiosa della Regione dell’Addolorata lo ricorda con affetto e gratitudine per quanto ha fatto con umiltà nell’istituto sempre disponibile alla volontà di Dio e alle decisioni dei superiori.

Domenica XXX del Tempo Ordinario. Commento di padre Antonio Rungi

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Domenica XXX del Tempo Ordinario dell’Anno Liturgico

Domenica 23 ottobre 2016

La preghiera dei falsi giusti e quella sincera dei peccatori

Commento di padre Antonio Rungi

 

La liturgia della parola di Dio di questa XXX domenica del tempo ordinario ritorna sul tema della preghiera, con particolare accentuazione, questa volta, sulla vera dalla falsa preghiera. Se nella parabola di domenica scorsa si evidenziava, da parte di Gesù, la necessità di pregare sempre e di chiedere senza stancarsi, nella parabola di oggi, riguardante il fariseo e il pubblicano, prosecuzione del vangelo di Luca di domenica scorsa, si mette in risalto la preghiera dei salsi giusti, che nel caso specifico è il fariseo, che va a vantarsi davanti al signore della sua condizione di esatto e perfetto in tutto e che ha avanzato, anche fisicamente, nel tempio, quasi ad avvicinarsi e a porsi sullo stesso piano e livello di Dio, se non addirittura di superarlo, in fatto di esattezza e precisione; e, dall’altro lato, un povero pubblicano, riconosciuto da tutti, come al tempo di Gesù, come peccatore pubblico, in quanto riscuoteva le tasse e quindi in qualche modo era corrotto, che stando in fondo al tempio si batteva il petto e chiedeva perdono a Dio dei suoi peccati. Due figure contrapposte: una falsa e menzognera, che si autoesalta e si identifica con la perfezione della moralità e della legalità; l’altra autentica e sincera con se stessa e con Dio, che si riconosce per quello che è, ovvero un peccatore. Due personaggi nella precedente parabola: il giudice disonesto e la vedova che chiede giustizia; due personaggi contrapposti, oggi, il fariseo e il pubblicano per farci capire, dalla bocca stessa di Gesù quale è la strada più giusta da percorrere per arrivare alla verità e alla santità della vita. Non senza un monito finale, la parabola del Vangelo di oggi, si conclude con questa espressione, con le parole di Gesù: “Io vi dico: questi (il pubblicano), a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.

Umiltà ed autoesaltazione non possono andare d’accordo, non possono camminare insieme. Il cristiano, sull’esempio di Gesù è una persona umile, una persona che si misura con le sue reali possibilità, debolezze e fragilità, non mistificando la verità, non apparendo diverso da quello che è effettivamente, cioè un peccatore che ha bisogno di redenzione e salvezza, che trova in modo pieno ed autentico in Gesù Cristo, uno Redentore e Salvatore.

Gesù, in questa parabola vuole farci capire l’importanza della preghiera sincera, quella che nasce dal cuore ed esprime essenzialmente il bisogno di conversione, pentimenti. Non sta giudicando il comportamento e la categoria sociale e religiosa dei farisei, condannandoli, né vuole esaltare la categoria dei pubblicani, facendola assurgere a modelli di preghiera e di conversione, ma semplicemente vuol dirci che nella vita di ogni persona arriva il momento in cui si effettua una verifica della propria esistenza a tu a tu con Dio. E ciò si fa appunta nella preghiera, quando nell’autenticità del nostro essere comprendiamo i nostri limiti, riconosciamo i nostri peccati e chiediamo umilmente perdono per ricominciare a fare cose meno sbagliate e sempre più giuste e sante.

Nella preghiera sincera, che nasce dal nostro cuore, non giudichiamo gli altri, assurgendo noi come esseri perfetti. Purtroppo il fariseo, questo lo fa, nella parabola del vangelo, ma anche nella vita di tutti i giorni. L’ipocrisia domina la scena della sua quotidianità, diventa un attore e un uomo che sa spettacolarizzare anche la preghiera, senza parlare del resto. Infatti, egli come si presenta al cospetto del Dio altissimo nel tempio? Con quali parole prega? Si presenta all’in piedi, diremmo con una prosopopea tale da fare paura allo stesso Signore e con parole dai toni preoccupanti e minacciosi: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Questo modo di dire, non è pregare, ma semplicemente imprecare, che qualcuno ci sia al di sopra di lui, come perfetto e superiore, al Quale si rivolge, con un’iniziale presunta preghiera di ringraziamento, perché non è come gli altri. Dall’altro canto, la preghiera sincera e umile del pubblicano, che già ha i suoi seri problemi morali e interiori, per cui si presenta al cospetto di Dio nel tempio, tenendosi lontano, perché indegno di accostarsi e prega con il profondo convincimento, battendosi il petto, in segno di condizione di peccatore, dicendo parole profonde: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Poche parole, ma vere e rispondenti alla verità interiore dell’essere umano peccatore, per sua natura e condizione, perché alla base della natura umana c’è il peccato originale, che, pur tolgo, con il battesimo, nella realtà le conseguenze di essere si avvertono e sentono in molti comportamenti, individuali e collettivi, dell’essere umano. Dobbiamo fare i conti con questa nostra realtà e bisogna lavorare, all’interno, per costruire una spiritualità, non di apparenza, ma di sostanza.

San Paolo, nel brano della seconda lettura di oggi, nel ricordare il suo cammino di conversione, purificazione e di impegno missionario, alla fine si rende conto che sta alla fine della sua vita e consapevole della realtà futura fa la sua bella professione di fede, ma anche di totale abbandono a Gesù Cristo, per quale ha vissuto e per il quale ha versato il sangue fino al martirio e scrivendo all’amico Timoteo, dice, parole cariche di dolcezza e misericordia:  “Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli”.

Combattere la battaglia della vita, non sempre facile, soprattutto quando sei lasciato solo con te stesso, dopo aver fatto il bene a tutti; ma alla fine trionfa la fede, che è quello che conta; trionfa la verità, la serenità di fronte alla morte e all’eternità. Paolo, davanti al grande mistero della vita, oltre la vita, ha un animo sereno e fiducioso in Dio e guarda le vicende umane, di cui egli e gli altri sono stati protagonisti, con gli occhi del perdono e della tenerezza di un padre.

Ecco perché il testo della prima lettura di oggi, tratto dal libro del Siracide, ci riporta alla natura di Dio come giudice, che sa valutare con giustizia le cose dell’uomo e della storia. Scrive, infatti, il saggio dell’Antico Testamento che “Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità. Per cui, la preghiera dell’umile e del povero trova più facile ascolto ed accoglienza nel cuore di Dio. Egli si muove a compassione ed apprezza l’operato di chi fa del bene a chi si trova in necessità. E le categorie sociali in difficoltà, menzionate nel testo, sono diverse: il povero, l’oppresso, l’orfano e la vedova.

Oggi che oltre a pregare per noi stessi, poveri peccatori, noi siamo invitati a pregare per i veri poveri del mondo, quelli che muoiono di fame, per mancanza dei beni essenziali, che non hanno nulla, non possono curarsi. Il grido del povero si innalza forte dalla terra ed arriva al cielo e dal cielo ridiscende sulla terra, con la speranza che gli uomini e le donne che hanno una sensibilità possono mettersi in opera, perché questa preghiera si traduca in azione e comportamenti umanitari a sostegno dei poveri e bisognosi di questo mondo. La giornata mondiale missionaria che celebriamo in questa domenica, abbia la finalità che Papa Francesco ha attribuito ad essa nell’anno della misericordia. Essa “ci invita a guardare alla missione ad gentes come una grande, immensa opera di misericordia sia spirituale che materiale”. In tal modo, la preghiera ci aiuta ad aprire lo sguardo di fede sul mondo che ancora ha bisogno di Dio e di conoscere Cristo e il suo vangelo di amore e perdono.  Nello stesso tempo, il Papa ci ricorda che “siamo tutti invitati ad “uscire”, come discepoli missionari, ciascuno mettendo a servizio i propri talenti, la propria creatività, la propria saggezza ed esperienza nel portare il messaggio della tenerezza e della compassione di Dio all’intera famiglia umana”.

La nostra non sia una preghiera da farisei, che ostentano iniziative e sensibilità, senza fare in concreto nulla; ma sia una preghiera-azione da pubblicani pentiti e coscienti che c’è un lungo cammino di conversione da fare per rendere giustizia agli oppressi ed assicurare il pane agli affamati.

Sia questa la nostra preghiera sincera, in comunione con tutta la chiesa, missionaria della misericordia: “O Dio, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome”. Amen.

ITRI (LT). FESTA DI SAN PAOLO DELLA CROCE AL CONVENTO DEI PASSIONISTI

SANPAOLODELLA CROCE 2016

ITRI (LT) – FESTA DI SAN PAOLO NELLA CROCE AL CONVENTO DEI PASSIONISTI.

Anche quest’anno, nel convento dei padri passionisti di Itri si svolgerà la festa in onore di San Paolo della Croce, fondatore della Congregazione della Passione di Gesù Cristo. La ricorrenza del 19 ottobre, giorno infrasettimanale, ha suggerito ai padri di spostare la celebrazione esterna della festa, a domenica 23 ottobre 2016. Tuttavia, già il 18 ottobre, alle ore 18.00 si terrà la celebrazione dei vespri solenni e il ricordo della morte di San Paolo della Croce, avvenuta il 18 ottobre 1775 a Roma, ai Santi Giovanni e Paolo. In questa circostanza sarà letto il testamento spirituale e le ultime raccomandazioni lasciate da San Paolo ai suoi religiosi. Il giorno 19 ottobre la festa liturgica sarà celebrata in chiesa con due sante messe. Dal 20 al 22 invece si terrà il solenne triduo predicato, con messa mattutina, alle ore 7,30, come tutti i giorni feriale e la messa vespertina delle ore 18.00. Domenica, poi le messe solenni delle ore 8.00 e delle ore 11.00, con la processione con la statua di san Paolo della Croce, per la zona circostante il Convento, alle ore 17.00 e la messa solenne con panegirico alle ore 18.00. “Nell’anno della misericordia, che volge al termine, – scrive padre Antonio Rungi, vice-superiore della comunità passionista – ci viene proposto come modello di vita misericordiosa San Paolo della Croce, Fondatore dei Passionisti che, nella città di Itri, sono presenti al Convento, dal 1943 e al Santuario della Civita dal 1985. La presenza dei figli spirituali del grande mistico, missionario e apostolo del perdono del XVIII secolo, ci invita a riscoprire – sostiene padre Rungi – la figura di questo santo che nella memoria della Passione di Cristo ha posto l’essenza della sua vocazione e di quella della sua famiglia religiosa”.

Scrive, infatti, san Paolo della Croce: “Gesù non è venuto per i giusti, ma per i peccatori. Oh! Quanto gli siamo cari noi altri poverelli peccatori, ed io più degli altri, perché ho fatto piangere Gesù più di tutti…Abbiate un cuore compassionevole verso i poveri, soccorrendoli amorosamente, e raccomandateli fervorosamente a Dio”.  San Paolo della Croce in questa festa del 2016 ci faccia riscoprire la gioia della misericordia e del perdono in mezzo ad una cultura, nella quale il Crocefisso deve riconquistare il suo posto autorevole come immagine e come messaggio, memori della parola stessa detta da Gesù: “chi vuole essere mio discepolo, prenda la sua croce, ogni giorno. e mi segua; perché non c’è vera salvezza senza la croce di Cristo.

 

Ecco il programma in dettaglio delle celebrazioni.

 

MARTEDI’ 18 OTTOBRE 2016: ORE 17,30: SANTO ROSARIO; ORE 18.00: VESPRI SOLENNI E TRANSITO DI SAN PAOLO DELLA CROCE.

MERCOLEDI’ 19 OTTOBRE 2016: FESTA LITURGICA DI SAN PAOLO DELLA CROCE. ORE 7,30 MESSA—ORE 18.00 MESSA. GIOVEDI’ 20—VENERDI’ 21—SABATO 22 OTTOBRE 2016:  TRIDUO IN PREPARAZIONE ALLA FESTA  DELLA  COMUNITA’ CITTADINA DI ITRI. ORE 17.00: CONFESSIONI; ORE 17,30. ROSARIO MEDITATO CON PENSIERI DI S.PAOLO DELLA CROCE – ORE 18.00: SANTA MESSA CON OMELIA.  DOMENICA 23 OTTOBRE 2016: SANTE MESSE: ORE 8.00—11.00 – PROCESSIONE: ORE 17.00 – MESSA SOLENNE CON PANEGIRICO: ORE 18.00 E ALLE  ORE 20.00: MOMENTO DI FRATERNITA’ E FUOCHI ARTIFICIALI (PIAZZALE DEL CONVENTO).

 

AIROLA. DUE MESI FA MORIVA MIA SORELLA CIRA. TI PORTO NEL CUORE.

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A DUE MESI DI DISTANZA DALLA MORTE DI MIA SORELLA CIRA, IL MIO DOVEROSO RICORDO  NELLO SCRITTO E NELLA PREGHIERA, PER NON DIMENTICARE UNA  PERSONA STRAORDINARIA PER QUELLO CHE E’ STATA ED HA FATTO IN AIROLA O DOVUNQUE E’ STATA. DUE MESI FA, CIRCA 2.000 PERSONE SONO PASSATE DAVANTI AL SUO FERETRO, ESPOSTO NELLA CHIESA DI SAN PASQUALE BAYLON IN AIROLA, PER UN BREVE SALUTO, PER UNA PREGHIERA E PER UN SINCERO PIANTO DI SOFFERENZA PER LA GRAVE PERDITA. TUTTI HANNO VOLUTO SALUTARE LA MAESTRA CIRA, PERCHE’ E’ STATA UNA DELLE MAESTRE PIU’ QUOTATE DI AIROLA, NELLE SCUOLE ELEMENTARI, NELLE QUALI HA INIZIATO A LAVORARE DAL 1967 FINO AL 2013. TUTTA LA CONOSCEVANO COME LA SIGNORINA CIRA, PERCHE’ AVEVA SCELTO DI VIVERE DA CONSACRATA LAICA, SEGUENDO LE ORE DI SAN FRANCESCO E SANTA CHIARA, E IL SIGNORE L’HA CHIAMATA A SE’ PROPRIO ALL’ALBA DELLA FESTA DI SANTA CHIARA, L11 AGOSTO 2016, ALLE ORE 5,00 DEL MATTINO, QUANDO HA SPIRATO SERENAMENTE TRA LE MIE BRACCIA DI SACERDOTE PASSIONISTA, PADRE ANTONIO RUNGI, ACCOMPAGNATA, NEL SUO TRANSITO VERSO L’ETERNITA’ DAL FRATELLO POMPEO, DALLE NIPOTI, DALLE DUE RAGAZZE UCRAINE, GIULIA E NATASHA CHE HA OSPITATO NELLA SUA CASA PER TANTI ANNI, A NATALE E IN ESTATE. DAI RISPETTIVI MARITI E FIDANZATI DELLE TRE SU QUATTRO NIPOTI CHE LE SONO STATE VICINO NEI GIORNI DI OSPEDALE  A CASERTA E NEI TRE GIORNI CHE ERA RITORNATA NELLA SUA CASA PATERNA DI VIA MONTEOLIVETO, DOVE E’ MORTA SERENAMENTE E SANTAMENTE. I FUNERALI DEL GIORNO SUCCESSIIVO, IL 12 AGOSTO, E’ STATO UN MOMENTO INTENSO DI PREGHIERA, DI EMOZIONI, DI GIOIA, DI DOLORE  CON CIRCA 30 SACERDOTI CONCELEBRANTI, PER LA GRAVISSIMA PERDITA, MA ANCHE PER LA CERTEZZA ASSOLUTA CHE UN ANGELO ERA VOLATO IN PARADISO E INIZIAVA DA LI’ A PREGARE PER TUTTI E SPECIALMENTE PER I SUOI CARI, PER I QUALI, IN PARTICOLARE, HA DATO LA VITA, HA RINUNCIATO A TUTTO, SI E’ SACRIFICATA OLTRE OGNI MISURA, BEN FELICE DI DARE NEL NOME DEL SIGNORE TUTTO QUELLO CHE POSSEDEVA. UN ESEMPIO DI VITA CHE NON SI PUO’ ASSOLUTAMENTE DIMENTICARE PER LA COSTANZA NELLA PREGHIERA, NELLE DEVOZIONI POPOLARI, NELLO STILE SEMPLICE, POVERO ED ESSENZIALE DI COME HA VISSUTO LA SUA BELLISSIMA ESISTENZA, PERCHE’ SEGNATA NON DAL TEMPO, MA DALL’ETERNITA’. TUTTO VEDEVA IN QUELLA DIREZIONE E TUTTO FACEVA PER CONQUISTARSI NON TROFEI O POLTRONE SU QUESTA TERRA, MA UN POSTO PRIVILEGIATO IN CIELO, NEL PARADISO, DOVE L’AVEVANO PRECEDUTO, MAMMA TOMMASINA (15 SETTEMBRE 1993) E PAPA’ GIOVANNI (29 GENNAIO 2001). ORA DAL CIELO PREGA PER NOI E VIGILA SU DI NOI, COME FACEVA OGNI GIORNO SENZA DIMENTICARE NESSUNO E RICORDANDOSI DI TUTTI, SPECIALMENTE DI CHI STAVA NEL DOLORE E NELLA SOFFERENZA. QUESTA GIORNATA L’HO DEDICATA A TE, SORELLA CARA E AMATISSIMA, E PER TUTTI I MESI E GLI ANNI FUTURI L’11 DI OGNI MESE  E SOPRATTUTTO L’11 AGOSTO NON SARA’ PIU’ LA FESTA DI SANTA CHIARA, MA DI “SANTA” CIRA, PERCHE’ SEI UNA SANTA, COME TUTTI I SANTI CHE HANNO RAGGIUNTO LA GLORIA DEL PARADISO, ANCHE SE NON SONO STATI ELEVATI AGLI ONORI DEGLI ALTARI, TANTE PERSONE, A PARTIRE DA ME, TUO FRATELLO SACERDOTE, SI AFFIDA A TE OGNI GIORNO. MA INSIEME A ME SONO TANTE LE PERSONE CHE SI RIVOLGONO A TE PER CHIEDERE AIUTO E FARE DA TRAMITE CON GESU’. SENTIAMO LA TUA VICINANZA, PERCHE’ LA TUA PRESENZA SPIRITUALE NON POTRA’ MAI CANCELLARE IL TEMPO CHE PASSA.. PER ME SARA’ SEMPRE UN TEMPO PER RICORDARE E RICORDARE UNA SORELLA UNICA CHE SONO LA NOSTRA FAMIGLIA, UNA CITTADINA ESEMPLARE CHE SOLO LA NOSTRA CITTA’ POTEVA RICEVERE IN DONO E VALORIZZARLA PER QUELLO CHE E’ STATA E SARA’ NEL RICORDO RICONOSCENTE DI TUTTI.

TUO FRATELLO P.ANTONIO RUNGI

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO -DOMENICA 16 OTTOBRE 2016

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DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 16 OTTOBRE 2016

La preghiera non stanca, ma rinfranca

Commento di padre Antonio Rungi

La liturgia di questa XXIX domenica dell’anno liturgico è un chiaro invito a porre al centro della nostra vita di cristiani il dono e l’esigenza della preghiera. I testi biblici che sono alla nostra attenzione e meditazione per questo giorno del Signore ci riportano tutti a questo valore della preghiera che, per tanti, non è compreso, non è sentito, non è espresso nei modi più personali e liturgici che possiamo immaginare o manifestare nelle nostre assemblee. Possiamo affermare, senza ombra di dubbio, secondo quanto dice Gesù che la preghiera non stanca, ma rinfranca.

Nella prima lettura di questa domenica, tratta dal Libro dell’esodo, emerge la figura di Mosé che prega e che intercede presso il Signore per la salvezza di Israele in cammino verso la terra promessa. Dal testo sacro, si comprende come Israele sia arrivata alla convinzione interiore solo stando dalla parte di Dio e vicino a Dio con la preghiera, l’obbedienza e la fedeltà, c’è la radice di tutta la sua forza spirituale e umana, oltre che politica. Infatti,  nella guerra di Amalek contro Israele succede che “quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk”. La potenza della preghiera porta alla vittoria di qualsiasi genere.

Come nella prima lettura, così nel Vangelo di questa Domenica, san  Luca parla di preghiera. Un tema assai caro all’evangelista, dottore. Qui ritroviamo per la seconda volta le parole di Gesù che insegna a pregare.  La prima volta (Lc 11,1-13), introduce il testo del Padre Nostro e mediante paragoni e parabole, ci insegna che dobbiamo pregare sempre, senza mai stancarci.

Questa seconda volta (Lc 18,1-4), Luca ricorre di nuovo a parabole ricavate dalla vita quotidiana per dare istruzioni sulla preghiera: la parabola della vedova e del giudice (18,1-8).

Luca introduce la parabola con la frase seguente: “Raccontò loro una parabola per mostrare che dovevano pregare sempre, senza stancarsi mai”. La raccomandazione di “pregare senza stancarsi” appare molte volte nel Nuovo Testamento (1 Tes 5,17; Rom 12,12; Ef 6,18; ecc). Era una caratteristica della spiritualità delle prime comunità cristiane. Ed anche uno dei punti in cui Luca insiste maggiormente, sia nel Vangelo come negli Atti.

Gesù, in questo simpaticissimo racconto di vita quotidiano,  ci mostra due personaggi, contrapposti per identificazione, ruoli e funzioni: un giudice senza considerazione verso Dio e verso il prossimo, ed una vedova che non desiste dal lottare per i suoi diritti presso il giudice.

Da un lato, quindi, un giudice insensibile, senza religione. Da un altro, la vedova che  non sa a quale porta bussare per ottenere ciò che le è dovuto, vista l’indifferenza di chi doveva riconoscere i suoi diritti. Con la sua insistenza, la vedova alla fine ottiene quello che sta chiedendo legittimamente. Il motivo del cambiamento di atteggiamento del giudice, senza religione, come dire senza coscienza e moralità, è di liberarsi da questa continua seccatura. Motivo ben interessato! Come dire, me la tolgo dai piedi, come spesso capitava ai tempi di Gesù e capita in ogni tempo, quando solo se sei insistente ottiene qualcosa, che ti spetta tra l’altro. Da questo racconto di cronaca quotidiana, è Gesù stesso che trae lo spunto per dirci cose importanti, come in tutte le parabole e i discorsi: Gesù dice: “Avete udito ciò che dice il giudice ingiusto? E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che lo invocano giorno e notte, anche se li fa aspettare?” Ed aggiunge che Dio farà giustizia tra breve. La conclusione del testo del vangelo è di quelli che ci devono far riflettere, in quanto senza fede, ovvero senza vera religiosità, non potrà esserci giustizia, pace solidarietà nel mondo:  “Ma il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” Avremo il coraggio di aspettare, di avere pazienza, anche se Dio tarda a risponderci? E’ necessario avere molta fede per continuare a resistere e ad agire, malgrado il fatto di non vedere il risultato. Chi aspetta risultati immediati, si lascerà prendere dallo sgomento. E purtroppo, questo capita di frequente, soprattutto ai nostri giorni, pesando che la fede possa essere un buon credito per ottenere qualcosa di materiale e di utile su questa terra. In poche parole,  il vangelo di Luca ci presenta un’immagine di Gesù che prega, che vive in contatto permanente con il Padre. L’aspirazione di vita di Gesù è fare la volontà del Padre (Gv 5,19). Luca è l’evangelista che ci dice più cose sulla vita di preghiera di Gesù. Ci presenta Gesù in costante preghiera. Gesù pregava molto ed insisteva, in modo che anche la gente ed i suoi discepoli facessero lo stesso. Ed è nel confronto con Dio dove appare la verità e la persona si incontra con se stessa in tutta la sua realtà ed umiltà.

In sintonia con i testi biblici della prima lettura de l Vangelo, si colloca il testo della seconda lettura di oggi, che è tratta dalla  seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo.  San Paolo, infatti, scrivendo al suo amico Timoteo sostiene, giustamente, una preghiera biblica, in quanto nella preghiera che valorizza la Sacra scrittura si possono trovare le vere ragioni della stessa necessità di pregare e di conseguenza operare, agire, imparare, insegnare agli altri.

La proclamazione della parola di Dio, molto importante nella celebrazione quotidiana, festiva e domenicale della santa messa, è un chiaro messaggio di Dio, presente ed operante in mezzo alla comunità dei credenti, ed è preghiera di ringraziamento che sale a lui mediante la lode e la gloria che riconosciamo al Signore, per tutto quello che ci dona.

Dalla sacra scrittura, l’uomo di Dio, il pastore, come esempio di vita per i credenti, attinge tutto quello che è necessario per il ministero della Parola e la guida spirituale della comunità. Non c’è azione pastorale vera, senza la preghiera che trova le sue radici profonde nei testi sacri: “Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento”.

Domenica è anche la festa di Santa Teresa d’Avila.  La Santa riformatrice dell’Ordine Carmelitano, sottolinea, nei suoi scritti, quanto sia essenziale la preghiera; <<pregare, dice, «significa frequentare con amicizia, poiché frequentiamo a tu per tu Colui che sappiamo che ci ama» (Vita 8, 5). La preghiera è vita e si sviluppa gradualmente di pari passo con la crescita della vita cristiana: comincia con la preghiera vocale, passa per l’interiorizzazione attraverso la meditazione e il raccoglimento, fino a giungere all’unione d’amore con Cristo e con la Santissima Trinità. Ovviamente non si tratta di uno sviluppo in cui salire ai gradini più alti vuol dire lasciare il precedente tipo di preghiera, ma è piuttosto un approfondirsi graduale del rapporto con Dio che avvolge tutta la vita. Per cui, santa Teresa di Gesù è vera maestra di vita cristiana per i fedeli di ogni tempo. Imitiamo Cristo, uomo di preghiera, imitiamo i primi cristiani, comunità orante in continuazione e i santi che hanno raggiunto i gradi più alti della perfezione nell’amore di Dio, valorizzando la preghiera dalla sera alla mattina e immergendosi in essa con gioia e soddisfazione interiore.

Sia questa la nostra preghiera oggi, condivisa con tutti i fratelli nella fede che in questo giorno del Signore partecipano alla santa messa, in ogni parte del mondo, dove maggiormente si avverte la necessità di pregare sempre e per ogni esigenza, soprattutto per la nostra personale conversione e santificazione: “O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la Chiesa raccolta in preghiera; fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti, che gridano giorno e notte verso di te”. Amen.

 

 

 

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA 9 OTTOBRE 2016

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XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

DOMENICA 9 OTTOBRE 2016

SOLO POCHI SANNO RINGRAZIARE IL SIGNORE

Commento di padre Antonio Rungi

Il Vangelo di questa domenica, la XXVIII del tempo ordinario, ci racconta della guarigione di dieci lebbrosi, che Gesù sana mentre attraversa la Samaria e la Galilea. Dei dieci guariti solo uno sente il dovere di ringraziare il Signore per il dono ricevuto. Con questo esempio ci viene ricordata la tendenza generale dei fedeli di ringraziare il Signore solo in parte, mentre la stragrande maggioranza non si ricorda mai di ringraziare Dio per i doni ricevuti. L’ingratitudine è grande! E pur cambiando la società, rimane costante il comportamento di chi, pur avendo ricevuto tanto da Dio, non eleva al cielo il volto per dire semplicemente “Grazie Signore”.

Questo racconto ci fa riflettere su come noi dobbiamo agire nei confronti di Dio, quando Egli si muove, e lo fa sempre, a nostro favore e compassione. Non dimentica e non trascura la sofferenza di nessuno e pur sanando tutti, non tutti sanno dire grazie, ritornare sui propri passi ed elevare a Dio l’inno di ringraziamento e di lode.

Un altro aspetto importante che la parola di Dio ci fa considerare è il tema della lebbra, quella fisica, intesa come malattia emarginante del soggetto, e la lebbra spirituale, quella interiore e che non si vede, e che, purtroppo, infetta più dell’altra e trasmette nel mondo degli uomini il male, come sistema di pensiero e di vita. Non si guarisce da questa lebbra, rappresentata dai nove lebbrosi che non tornano indietro per ringraziare per la guarigione ricevuta. Questa malattia dell’anima, che è il peccato, la corruzione, l’idolatria, il fanatismo, l’egoismo, il male assoluto, non si guarisce neppure se il Signore interviene e dà la guarigione per il momento, che può essere una confessione in una determinata occasione e circostanza della vita, un atto di culto, un pentimento del momento, una preghiera o qualsiasi altra cosa che aiuti, momentaneamente a distanziarsi dal peccato. Per la guarigione totale è necessaria una lunga terapia anti-lebbra spirituale, che è incentrata su medicine dell’anima, che sanano e purificano la mente e il cuore dalle passioni di ogni genere e dai peccati che distruggono il bene più prezioso di una persona credente, quello appunto della sua interiorità e spiritualità. Non senza un perché il testo del vangelo di questa domenica si conclude con una bellissima espressione di stima, apprezzamento ed incoraggiamento di Gesù verso l’unico lebbroso guarito, che torna da Lui: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Chi si libera dal male non è più prostrato nel fisico e n nello spirito, ma si rialza, perché riacquista quella energia interiore che è la grazia e la misericordia di Dio, sulla quale poggiare il successivo, non facile cammino, dopo la caduta, quando il Signore dice, in tanti modi e con tutti gli strumenti, al peccatore pentito e ricostruito nello spirito: vai avanti, con la fede ce la farai e potrai superare tutte le malattie e le lebbre dello spirito, che altrimenti non guarirebbero mai.

Gesù si presenta, quindi, non solo come Colui che guarisce il corpo dai vari malanni, ma Colui che guarisce il cuore dalla più grave malattia della mancanza di amore e di speranza.

Il lebbroso è scartato, è emarginato, deve indicare agli altri, anche nel modo di vestire e di comportarsi del suo stato fisico, per evitare il contagio. E’ un escluso, vive fuori dell’accampamento, deve portare i segni distintivi della sua condizione di malattia ed allertare i cittadini perché non vengano a contagio con lui e si ampli l’epidemia. Si può dire che, con il campanello al collo o in mano, può essere paragonato all’autoambulanza o il 118 dei nostri giorni, oppure il telefono rosso, o al codice rosso come si classificano i malati in fase di gravissima situazione di salute. E’ evidente che chi soffriva di questa malattia emarginante cercava di guarire in tutti i modi, ricorrendo a maghi, a guaritori di ogni genere. Anche nel brano della prima lettura di oggi, troviamo questo bisogno di guarigione in Naaman, il comandante dell’esercito del re di Aram, il quale  “scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato dalla sua lebbra”.

Naaman, dopo la guarigione è riconoscente verso il profeta e vuole desbitarsi in qualche modo, già abituato a pagare dottori e ciarlatani che non potevano nulla nei confronti di quella malattia, allora classificata come incurabile, però si prendevano i lauti compensi per le consulenze e le terapie che prescrivevano senza alcun beneficio per il malato. Ecco, perché, “tornò con tutto il seguito da [Elisèo] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».

Naaman si porta la terra benedetta di quel luogo, dove egli era stato guarito e ne fa uno strumento di purificazione per tutti gli altri.

La fede di questi due malati di lebbra, di cui ci raccontano la prima lettura di oggi e il Vangelo ci aiuta a capire il senso di quanto scrive l’Apostolo Paolo al suo amico Timoteo, nella sua seconda lettera, a questo vescovo di Efeso, comunità cristiana costituita da lui, che ora è in catena per aver annunciato la parola di Cristo. Egli sopporta “ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna”.

E la fede nella risurrezione, è il tema centrale di questo brano, che conclude: “Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”.

Sia questa la nostra umile preghiera che rivolgiamo al Signore nella celebrazione della santissima eucaristia:O Dio, fonte della vita temporale ed eterna, fa’ che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo: ogni fratello in questo giorno santo torni a renderti gloria per il dono della fede, e la Chiesa intera sia testimone della salvezza che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio”. Amen.