parola di dio

La parola di Dio e il commento di Domenica 10 maggio 2009

V Domenica di Pasqua

 

10 Maggio 2009

 

Amare con i fatti e nella verità

 

di padre Antonio Rungi

Rungi-Marcianise2008-1.jpgCelebriamo oggi la quinta domenica del periodo liturgico di Pasqua, che pone al centro della nostra riflessione la vasta gamma dei frutti della conversione, della risurrezione e del mistero pasquale che in questo tempo stiamo celebrando nella liturgia. La parola di Dio, infatti, si concentra molto sul tema dell’operosità dei credenti invitando tutti i cristiani ad amare con i fatti e non solo a parole, come spesso capita in tante realtà vicino a noi e a noi note. La fede se non si traduce in opere è morta. La risurrezione di Cristo che non trasforma il nostro cuore e la nostra azione rimane solo un mistero da contemplare o meditare, se alcun risvolto pratico sulla vita quotidiana. Partendo dalle lettera di San Giacomo Apostolo si comprende esattamente tutto quello che è necessario fare per rendere credibile e visibile la nostra fede nel risorto: Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. Approfondendo il brano della seconda lettura di oggi comprendiamo precisamente che solo una corrispondenza piena tra il dire e fare ci rende agli occhi degli altri veri, autentici e credibili. Evidentemente anche al tempo degli apostoli tra coloro che si riconoscevano nella fede di Cristo, molti erano i predicatore, ma pochi gli operatori del bene, con il rischio evidente di non essere fedeli alla parola di Dio e non vivere compiutamente i comandamenti del Signore, in primo luogo quello della carità. Quanto siamo carenti anche oggi, nelle varie situazioni personali, familiari, comunitarie in questo campo lo evinciamo dal contesto generale della nostra società, sempre più immersa nell’egoismo e nell’edonismo. Abbiamo un forte debito nei confronti di quel precetto dell’Amore verso Dio e verso i nostri simili di cui spesso non prendiamo coscienza. Ci legittimiamo comportamenti egoistici, al di fuori di ogni logica del vangelo della carità. Il Vangelo di oggi ci pone davanti alla figura del Cristo, come Colui che è la sorgente della nostra grazia, della nostra linfa vitale, di quanto sia più essenziale alla nostra vita. Egli è la Vite e il Padre è l’Agricoltore. In questo campo spirituale, in questo terreno della grazia, in questo vasto territorio di Dio e del dialogo di Dio con l’umanità, due sono i riferimenti perché tutto progredisca: Cristo e Dio. Essere ancorati a Cristo e vivere immersi nella sua grazia santificante, allontanando da noi ogni ipotesi e prospettiva di peccato, significa portare i veri frutti della propria salvezza ed essere strumenti di salvezza per gli altri. Si continua l’opera di Cristo. Non a caso la Chiesa è chiamata anche la vigna del Signore. Ancorati alla vigna principale ogni tralcio agganciato ad essa produce molto e saporito frutto. Ma se se ne distanza, rischia di morire essiccato, perché non circola più all’interno del tralcio la linfa necessaria per vivere e produrre. In questo ancorarsi a Dio continuamente c’è anche la legittima attesa che quanto chiediamo a Lui possa essere esaudito in qualche modo, anche se le nostre richieste non corrispondo in pieno con i progetti e i pensieri di Dio. “In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». Con un preciso riferimento al vangelo di oggi  la preghiera iniziale della messa ci introduce nel senso della celebrazione della domenica, la Pasqua settimanale, il giorno del Signore per eccellenza: “O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. La sintesi o lo schema di riferimento per la nostra vita di preghiera e per la nostra attività pastorale è ben espresso in questa orazione che meglio di ogni altra preghiera oggi ci dice esattamente quale scelta di vita siamo chiamati a fare se vogliamo far sì che la Parola di Dio non venga seminata invano nella nostra vita e in quella del mondo. L’esempio di un impegno missionario a largo raggio ci viene oggi dal testo degli Atti degli Apostoli in cui vediamo all’opera Paolo e Barnaba. Dopo la conversione di Paolo di Tarso, come sappiamo, la sua vita cambia radicalmente al punto tale che tutto il suo vivere è per Cristo e la morte per lui in nome di Cristo è un guadagno, già pensando a ciò che lo attendeva nella gloria del cielo. Ma è importante sottolineare in questo brano degli Atti degli Apostoli quante difficoltà la Chiesa nascente dovette fronteggiare per recuperare pace al suo interno e al suo esterno, impegnando le energie dei diretti discepoli del Signore e di quanti erano divenuti discepoli ed apostoli successivamente, come Paolo. Un certo scetticismo regnava tra loro, soprattutto come nel caso di Paolo si sapeva precisamente la sua origine e le cose che aveva fatto prima. Barnaba diventa strumento, mediatore per far conoscere Paolo nella sua nuova veste di convertito e di convinto assertore della divinità di Cristo e della sua missione portata a compimento nella morte e risurrezione. Paolo viene accreditato come apostolo vero e certo di fede, su cui si poteva investire e contare per la diffusione del vangelo della salvezza soprattutto alle genti, a quei popoli lontani dalla fede di Israele. A conferma di questo viene presentato agli apostoli riuniti a Gerusalemme ciò che avevano fatto fino  quel momento nel campo dell’evangelizzazione. “In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero”. Dall’insieme del brano si evince anche quanto sia stato difficile per Paolo la sua adesione al Vangelo sia per essere accettato tra i discepoli di Cristo  e sia tra coloro che non credono, che lo vogliono uccidere. Prudentemente la Chiesa lo fa ritornare a Tarso per non esporlo ulteriormente a qualche omicidio o attentato. A conferma questo, allora come oggi, che per parlare di Dio ci vuole coraggio e non bisogna aver paura di quanti hanno poter di uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima, il cuore e la libertà di espressione e di fede. I tanti martiri dei primi secoli del cristianesimo, tra cui lo stesso San Paolo, ci dicono esattamente qualche testimonianza di fede siamo chiamati a dare in caso di necessità. Chiediamo al Signore che questo coraggio dell’evangelizzare e testimoniare la fede cresca ogni giorno di più nella nostra vita.

 

Il commento della parola di Dio di Domenica

III Domenica di Pasqua

26 Aprile 2009

Con Cristo non si può essere turbati ed aver paura!

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la terza domenica del periodo liturgico di Pasqua. Tempo durante il quale siamo invitati a riflettere bene sul mistero della Redenzione portato al compimento da Gesù Cristo nella sua Pasqua di Morte e Risurrezione. Il Vangelo di oggi ci presenta una nuova apparizione di Gesù agli Apostoli, alla presenza dei Discepoli di Emmaus che rientrati dal villaggio stavano raccontando quello che avevano visto e l’esperienza fatta con Gesù, apparso a loro come viandante e poi riconosciuto nello spezzare il pane. La nuova apparizione di Gesù è finalizzata a dare coraggio e sostegno ai Apostoli, che non ancora avevano compreso esattamente che egli era davvero risorto, tanto che Gesù nuovamente si presenta con i segni della passione. Tutto questo a conferma che era lo stesso Cristo Crocifisso ad avere assunto un corpo glorificato dopo la momentanea discesa negli inferi. Aver fede ed accettare Cristo significa accettarlo sulla Croce e quale vincitore della morte. Egli è infatti è venuto a portare la pace agli uomini afflitti da tante paure e tante angosce, quelle che non danno tregua alla mente ed ai pensieri dell’essere vivente. Quante paure e preoccupazioni per la nostra salute, per la nostra vita, per la società, il mondo, per quanto ci attende, per il futuro nostro e degli altri e paura della stessa eternità. Gesù ci dice che dove sta lui non c’è motivo di temere. La sua presenza non deve essere di contorno o di abbellimento, tipo di quelle immagini sacre che riempiono le pareti delle nostre case e delle nostre chiese, ma non le corde del nostro cuore. Egli deve essere presente in modo vivo ed operativo nella vita di quanti si professano suoi discepoli e costituiscono la sua famiglia. Gesù dirada ogni paura e porta pace davvero all’umanità intera, quando il suo messaggio e la sua missione vengono accettati e condivisi soprattutto da quanti sono battezzati e si professano cristiani. Di questa presenza viva, reale, in corpo, sangue e divinità sappiamo con la certezza della fede e della dottrina che l’abbiamo nel sacramento dell’altare. La Pasqua di Cristo è prima di tutto ripartire dal banchetto eucaristico come esperienza di una vita nuova nel Cristo che si offre a noi come nostro cibo e bevanda e come farmaco di immortalità. “In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».
Gesù porta gioia e serenità e questa gioia, anche se non è egli stesso a comunicarcela con parole suadenti e confortanti come fu per i discepoli dopo la risurrezione, egli comunque ce le trasmette in altro modo, per altri versi e in altre forme che ben conosciamo e sono i sacramenti della penitenza e della comunione. Quando la nostra coscienza è a posto, quando siamo in grazia di Dio noi assaporiamo la vera gioia e non dobbiamo più temere di nulla e di nessuno. Dio con noi è la forza della nostra vita e la sorgente della nostra gioia terrena ed eterna. Quanto cammino dobbiamo ancora fare per raggiungere questo grado di serenità che nessun psicologo o altra persona più darci in un modo pieno, certo e duraturo come la persona di Cristo, che noi accogliamo nell’eucaristia. Non a caso anche questa apparizione ci presenta Gesù con gli apostoli che si mette a tavola e mangia del pesce con loro, segno evidente dell’eucaristia. I primi cristiani, soprattutto quelli che dovettero fare i conti con le persecuzioni, nelle catacombe lasciano i segni indelebili della celebrazione dell’eucaristia in questi luoghi sotterranei e isolati proprio lasciando i segni del pane e del vino impressi nelle pareti delle catacombe o di altri luoghi fortuiti di riunione della comunità orante. L’eucaristia è espressione di una comunione profonda con Cristo e con gli altri. In questa prospettiva eucaristica si comprende cosa ci voglia dire il brano degli Atti degli Apostoli che è la prima lettura di oggi: Pietro invita al pentimento e alla conversione davanti al mistero della morte e risurrezione di Cristo. La Messa che è memoriale, cioè attualizzazione della Pasqua di Cristo, è la celebrazione delle celebrazioni in cui la comunità si ritrova nella pace e nella fraternità a condividere il pane della parola e il pane della vita, Cristo eucaristia. Noi dobbiamo metterci da parte di coloro che non rinnegano o condannano Cristo a morte, ma lo invocano in aiuto e soccorso: Vieni Signore Gesù, il mondo ha bisogno di te, ha bisogno di pace, di giustizia e di vera solidarietà. “In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati». Anche a, noi presunti giusti è rivolta nuovamente questa parola di conversione di allontanamento dal peccato e da ogni miseria umana. Noi non siamo migliori degli altri, molte volte forse siamo più cattivi di quanti per ignoranza non conoscono Cristo e non seguono la sua dottrina. La conversione è prima di tutti per coloro che presumevano al tempo di Gesù chi doveva e poteva essere davvero il Messia. La fine della morte in Croce di Gesù a causa dei Giudei e dei loro capi fu proprio perché non riconobbero in Gesù il Messia, il Figlio di Dio, l’autore della vita. Su questa stessa lunghezza d’onda si colloca poi il brando della seconda lettura di oggi, tratta dalla prima lettera di san Giovanni apostolo, nella quale c’è un chiaro invito a non peccare, ad allontanarsi da uno stile di vita espressione di morte e di alienazione, per recuperare una dignità di vita basata sull’osservanza dei comandamenti divini Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto”.
Il cristiano fedele alle proprie scelte battesimali e alla propria religione sa come deve fare e come lo deve fare. Molte volte pur conoscendo ciò che è bene facciamo il male a noi stessi e agli altri, non ci lasciando guidare dallo Spirito Santo e dalla carità, ma dalle passioni e dagli interessi terreni, egoistici e materiali. Con il Salmo 4 ricordo e ripeto a me stesso e a voi quanto troviamo scritto in questa preghiera della fiducia e della speranza cristiana: “Sappiatelo: il Signore fa prodigi per il suo fedele; il Signore mi ascolta quando lo invoco. Molti dicono: «Chi ci farà vedere il bene, se da noi, Signore, è fuggita la luce del tuo volto?».In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare”.
Sia questa la nostra preghiera comunitaria che vogliamo porre a fondamento della celebrazione eucaristica di questa domenica, ma soprattutto a fondamento di tutta la nostra vita di fede: “O Padre, che nella gloriosa morte del tuo Figlio, vittima di espiazione per i nostri peccati, hai posto il fondamento della riconciliazione e della pace, apri il nostro cuore alla vera conversione e fa’ di noi i testimoni dell’umanità nuova, pacificata nel tuo amore”. Amen.

Il Commento della Parola di Dio di domenica 29 marzo 2009

Quinta domenica di Quaresima

 

Quinta domenica di Quaresima

29 Marzo 2009

 

Cristo, cicco di grano che muore per dare la vita all’uomo

 

di padre Antonio Rungi

 

Celebriamo oggi la quinta domenica di Quaresima e la parola di Dio ci porta già alla vigilia della passione di Cristo. Sono questi gli ultimi giorni di Quaresima durante i quali siamo stati invitati a percorrere lo stesso itinerario del Cristo, ritirato nel deserto, tentato e resistente ad ogni tentazione, capace di grandi gesti umani di rinuncia e di coraggio, uomo della penitenza, del silenzio e della preghiera. A conclusione di essi, la chiesa ci invita a concentrarci maggiormente sul mistero della Passione e morte di nostro Signore. E lo fa proponendoci un brano della Vangelo di Giovanni, nel quale si parla di Cristo quale cicco di grano, che per legge naturale se non muore, non dà frutto. Gesù morirà sulla croce e dalla sua morte nasce la vera vita per l’umanità. La misericordia di Dio entra con la sua potenza nella storia dell’umanità. Chi comprende che in Gesù scopriamo il volto misericordioso di Dio capisce il senso più vero della Passione. Una Passione, quella del Cristo, che si presenta drammatica all’orizzonte fin da questo primo annuncio. E’ Gesù stesso che si rivolge al Padre chiedendo di salvarlo da quell’ora tremenda del dolore. Un grido di aiuto che spiega tutti i gridi di aiuto che da ogni persona e da ogni parte del mondo si alzano a Dio, quando la sofferenza, più terribile e incomprensibile, soprattutto dei bambini innocenti, tocca persone di ogni ceto sociale e condizione minandone l’integrità fisica, ma soprattutto spirituale. Tutti vorrebbero rifuggire dal dolore, ma il dolore non sempre è rimovibile dalla vita dell’uomo. Un dolore che si comprende alla luce della croce, che è anche glorificazione e primariamente amore. “In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire”.

Il dramma di Cristo sulla Croce è espresso in modo lapidario e con accenti forti nel breve brano della Lettera agli Ebrei: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.

L’obbedienza di Cristo è modello di obbedienza alla volontà di Dio per tutti gli uomini, anche quando questa obbedienza ci invita a salire il Calvario e a metterci ai piedi del Crocifisso non solo per compiangere il suo soffrire, ma per completare quanto manca alla sua passione.

E’ il profeta Geremia che nel brano della prima lettura che ci dà la chiave interpretativa di tutto ciò che la parola di oggi ci invita a meditare sulla speranza, sui tempi nuovi e messianici, in cui Dio stipulerà una nuova alleanza con il suo popolo. E’ l’alleanza del Mote Calvario, non più del monte Sinai. Il passaggio del mar rosso per il popolo di Israele è un lontano ricordo, in quanto un nuovo più importante passaggio l’umanità viene chiamata a compiere, quella dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà. Cristo che muore e risorge come il chicco di grano è la grande speranza, anzi è la certezza che l’uomo non è abbandonato a se stesso, ma Dio è con lui e Dio e per lui. Un Dio che dona il suo Figlio sulla Croce, perché dalla Croce gli uomini riabbiano la gioia di una vita in Dio, nella sua amicizia e nell’amicizia con tutti i suoi fratelli. “Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”.

Nel Salmo responsoriale di oggi, tratto dal Salmo 50, c’è questa elevazione di preghiera a Dio per ottenere la sua misericordia davanti al peccato individuale e soggettivo e al peccato collettivo e oggettivo: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro”.

Di fronte ad un mondo che ha perso il senso di Dio e di conseguenza anche la coscienza del peccato, delle proprie debolezze, il forte richiamo che ci viene dalla parola di Dio oggi alla misericordia è un invito a ripartire da quella esperienza di fede che ci fa sperare nella salvezza, ma non ci fa abusare della misericordia di Dio. E’ tempo di conversione, è tempo di pentimento è tempo, soprattutto, di iniziare una vita nuova vera in Cristo, che per noi ha accettato la Croce come autentica via di liberazione, in quanto via dell’amore e dell’oblazione. Il Signore ci illumini a prendere coscienza dei nostri peccati e per quanto è nelle nostre facoltà di togliere il peccato dalla nostra vita, per vivere nella grazia e nell’amicizia con Dio.

Ecco perché possiamo doverosamente e legittimamente pregare così in questo giorno di festa e di speranza per tutti: Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché possiamo vivere e agire sempre in quella carità, che spinse il tuo Figlio a dare la vita per noi. Amen.

 

LA PAROLA DI DIO DI DOMENICA 22 MARZO 2009

QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA 

 

22 Marzo 2009

 

Chi è di Cristo sceglie la strada della verità e della gioia.

 

di padre Antonio Rungi

 

Celebriamo oggi la quarta domenica di Quaresima definita della gioia, in latino “laetare”. Prende infatti il nome dall’antifona d’ingresso alla celebrazione eucaristica che riporta una citazione del profeta Isaia: Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione. (cf. Is 66,10-11). Ci avviamo verso la Pasqua e la Quaresima è abbastanza avanti nel tempo. Ciò significa che anche la parola di Dio ci orienta al senso più vero dell’annuale celebrazione della Pasqua, che è la festa della gioia per eccellenza, in quanto Cristo Risorto, più dello stesso Cristo Incarnato è motivo di profonda gioia e speranza per l’umanità, espressa in quella Gerusalemme di cui parla il profeta Isaia, che nella sua stessa terminologia indica la città della pace e della gioia. Per un cristiano la gioia di cui deve andare orgoglioso è quella che viene da Dio, da quella fede nel Cristo, Redentore dell’umanità che ha aperto gli spazi di una gioia che va oltre il tempo e la contingenza.

San Giovanni Evangelista nel brano di oggi punta direttamente al cuore del tema del Redentore e ci illumina sul senso del nostro essere di Cristo. “In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Dio manda nel mondo il suo Figlio per salvarci e non per condannarci. Aver fiducia nella misericordia di Dio è credere sul valore della salvezza operata da Cristo sulla Croce. Disperare della salvezza, significa non riconoscere Cristo come salvatore. Certo la Luce che è Cristo non sempre è accolta, anzi il mondo preferisce vivere nelle tenebre e nel peccato, perché scegliere Cristo, significa liberarsi da tutte le zavorre del male e del maligno. Il credente è colui che ripone la piena fiducia nel redentore ed accetta di essere illuminato e guidato da Lui.  Lontani da Cristo è come il popolo ebraico lontano dalla patria con la nostalgia del ritorno, con la sofferenza di un ritorno ritardato per mancanza di disponibilità alla conversione radicale del cuore e della mente per il Signore. . Il Salmo 136 ci fa toccare con mano questa nostalgia di un popolo deportato e lontano dalla propria patria: “Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre. Perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, allegre canzoni, i nostri oppressori: «Cantateci canti di Sion!». Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra. Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia”.

Da parte sua, l’Apostolo Paolo nel brano della lettera agli Efesini che oggi ascoltiamo come secondo testo della parola di Dio ci dice esattamente cosa significhi per noi uomini credenti il mistero del Cristo Redentore “Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”.

L’apostolo ci riporta al centro della scelta fondamentale della nostra vita, che è la scelta della fede, senza la quale non si dà senso all’esistenza umana. Noi infatti veniamo salvati mediante questa fede, che è accettare Cristo, il suo messaggio e conformarsi a Lui nel modo più totale possibile. Alla fede devono corrispondere le opere buone che sono espressione di un raccordo tra ciò che professiamo e ciò che facciamo, ciò che siamo e ciò che operiamo. Non si può dire di aver fede per poi vivere concretamente come se la fede non ci fosse. Una sintonia tra il pensiero e l’azione è necessario ricuperarla nella vita di ogni giorno, anche se ci chiede sacrifici e sforzi di ogni genere.

Se la fede non la si vive, se non diventa un vissuto, rimane una lettera morta, solo scritta. Lo sapevano bene gli israeliti che lungo la loro storia hanno dovuto costatare sulla loro pelle e sulle loro vicende interne ed esterne come l’aversi allontanata dalla fede dei padri abbia poi determinato una crisi generale. Quanto sono attuali oggi queste cose anche per noi popolo cristiano o umanità che pensa di poter fare a meno di Dio e trovare soluzione dei suoi drammi al di fuori di un riferimento soprannaturale e divino.

Rileggendo il testo del libro delle Cronache, che è la prima lettura di oggi ci rendiamo perfettamente conto cosa abbia significato per Israele, anche storicamente, il suo deviare continuo dalla legge di Dio. “In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

Ancora oggi il Signore parla all’umanità e soprattutto alla sua chiesa profeti che indicano la strada retta che conduce alla libertà Ed anche oggi come allora molti si beffano di tali profeti (penso al Papa, Benedetto XVI, alle tante persone che quotidianamente vivono nell’assoluta fedeltà alla parola di Dio e alla Chiesa) si beffano delle loro parole, li scherniscono, li attaccano, li criticano pesantemente, li offendono, cercano di screditarne l’operato e il messaggio. Con quali risultati? Con uno smarrimento morale, sociale, mondiale, perché senza Dio non si può né sopravvivere nel vivere nella pace e nella gioia che nasce da un cuore disponibile ai progetti di Dio.

Sia questa la nostra preghiera conclusiva sia della celebrazione dell’eucaristia e sia della nostra preghiera personale: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa’ risplendere su di noi la luce del tuo volto, perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero”.

 

 

Coomento alla parola di Dio di domenica

 Quarta dRungi-Marcianise2008-1.jpgomenica del tempo ordinario

1 Febbraio 2009

Il fascino della parola del Divino Maestro

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la quarta domenica del tempo ordinario, ma anche la giornata nazionale della vita. La parola di Dio ricca di tanti motivi di riflessione personale e comunitaria ci aiuti a comprendere esattamente quanti sia importante lasciarsi affascinare dalla Parola di Dio e dalla Parola di Cristo. Oggi, infatti, è proprio l’attività evangelizzatrice del Signore al centro del brano del Vangelo di Marco che ci presenta nella sinagoga di Cafarnao ad insegnare e quanti lo ascoltano rimasero stupiti del suo insegnamento. Quanto questo sia di insegnamento anche per noi cristiani del terzo millennio è importante comprenderlo per non vanificare ciò che il Signore detta al nostro cuore per rispondere alla chiamata alla santità.
“In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea”.
Nel brano evangelico di oggi vanno evidenziati alcuni fondamentali aspetti del nostro rapporto con il Divino Maestro. Ogni maestro usa la parola per trasmettere saperi, contenuti e stili di vita. Parole che resta nel vago e nell’astratto e che non trovano rispondenza, molte volte, nella vita di tutti i giorni. L’insegnamento di Cristo ha una sua efficacia intrinseca ed estrinseca, in quanto Cristo parla come uno che ha autorità e parla nel nome di Dio, essendo Figlio di Dio. Inoltre, la sua parola produce effetti speciali nella vita di chi l’ascolta (la meraviglia), ma anche il dono della guarigione, della liberazione da ogni spirito maligno ed infettante il cuore e la mente degli uomini. Il Vangelo di oggi non a caso ci riportata quanto sia accaduto proprio nella Sinagoga di Cafarnao con un indemoniato, liberato da questo grave peso della possessione diabolica mediante la parola santificatrice e santificatrice di Gesù. Della potenza della Parola di Dio sappiamo molto a partire proprio dalla creazione “Dio disse”, per poi arrivare alla Parola Incarnata al Verbo di Dio fatto carne, Gesù Cristo, unico salvatore del mondo. Incentrare la nostra vita su questa parola vera e certa significa vivere nell’autentica serenità dello spirito e del corpo. In questa direzione va interpretato brano della prima lettura di oggi, tratto dal libro del Deuterònomio. Il Dio che si rivela al popolo eletto e gli parla, attraverso Mosè. All’origine dell’Antica Alleanza  c’è anche in questo caso un atto comunicativo da parte di Dio. Ogni volontà di Dio viene espressa attraverso i suoi profeti, i veri profeti e non quelli che tali non sono, come i falsi profeti dell’Antico Testamento, ma anche di tutti i tempi. Troppe persone presumono di essere interpreti della volontà di Dio nei confronti degli altri e sono incapaci di cogliere la volontà di Dio nei loro riguardi soprattutto quando si tratta di accogliere le prove e le sofferenze della vita. Comprendiamo allora il senso di questo testo di uno dei fondamentali libri della Bibbia. “Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”. Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”». Tanti profeti in questi 2000 anni dell’era cristiani, apparsi e scomparsi come vere e proprie meteore. Presunti grandi della terra, a tutti i livelli, che avevano la pretesa di cambiare e modificare il mondo in ragione delle loro deboli parole e della loro debole forza. Si è imposto un pensiero debole a tutti i livelli, fino a raggiungere l’attuale situazione di una fragilità culturale, mentale, scientifica ed anche religiosa che è evidente l’insicurezza, la precarietà e il relativismo in ogni cosa. Una parola vale l’altra e non si riesce a differenziare dalla parola che è vera a quella che è falsa. Tutto questo è avvenuto perché ci si è allontanata dalla vera parola di verità che è Cristo, il Verbo del Padre. Dalla dottrina sul vero si passa alla dottrina del correttamente etico. E San Paolo  Apostolo che è esperto comunicatore, grande uomo della parola, nelle sue lettere evidenza esattamente questo stretto rapporto tra il credere, il dire e il fare. Lo evidenzia anche nel brano della seconda lettura della parola di Dio di questa quarta domenica del tempo ordinario, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, durante la quale noi cattolici italiani celebriamo anche la trentunesima giornata nazionale della vita, sul tema “La forza della vita nella sofferenza”. San Paolo scrivendo ai suoi fratelli di fede, cerca di sostenere e incoraggiare tutti a vivere senza eccessive preoccupazioni terrene ed umane, che spesso fanno soffrire e tolgono il respiro. “Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni”. Cosa significhi tutto questo, lo possiamo capire facilmente: bisogna vivere avendo a cuore prima di tutto i beni dell’anima e dello spirito, per non restare intrappolati nelle logiche di interessi umani e materiali, che fanno perdere di vista la vera finalità del nostro vivere e del nostro agire. La nostra preghiera di questa giornata di festa e di vita sia quella della comunità dei credenti, radunata oggi per celebrare le lodi del Signore e celebrare l’Eucaristia, punto di partenza e di arrivo di ogni discorsi autenticamente cristiano e aperto alla vita: “O Padre, che nel Cristo tuo Figlio ci hai dato l’unico maestro di sapienza e il liberatore dalle potenze del male, rendici forti nella professione della fede, perché in parole e opere proclamiamo la verità e testimoniamo la beatitudine di coloro che a te si affidano. Amen.

Fede e conversione

Terza domenica del tempo ordinario

25 Gennaio 2009

La conversione nasce da una fede autentica

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la terza domenica del tempo ordinario, ma anche la festa della conversione di San Paolo Apostolo che chiude, tra l’altro, l’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Tutti temi che ci riportano ad un argomento unico quello della fede che parte dalla conversione e si sviluppa in una conversione permanente. L’uomo non è mai definitivamente certo delle verità di fede, ma sempre alla ricerca e cammina verso il definitivo possesso di tale verità, che avrà nella pienezza della verità solo quando vedrà Dio faccia a faccia. Tra dubbi incertezze, pause, scetticismo di ogni genere, si costruisce nel tempo una convinzione profonda che Dio non ci abbandona e che è sempre con noi. Lui è davvero l’unica nostra certezza e sicuramente la vita stessa oltre la stessa vita. Di vita in vita come ci ricorda il servo di Dio Giovanni Paolo II. Comprendiamo queste verità, meditandole profondamente nel nostro cuore ed immergendoci in esse, alla luce della parola di Dio di questa terza domenica. Proprio partendo dalla prima lettura tratta dal Libro di Giona, ci concentriamo sul tema della conversione, che passa attraverso varie azioni concrete e visibili: il pentimento nella fede in Dio, il digiuno, il vestire sacco in segno di distacco e penitenza. “Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Àlzati, va’ a Nìnive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Signore.
Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta». I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece”.
Dio si muove a compassione dell’uomo, non ha il cuore duro e indifferente. Egli vuole il bene dell’umanità. Ma è anche l’umanità che deve volere il suo bene. Chi opera il male e fa il malvagio non può trovare accoglienza presso Dio, finquando non si purifica, si converte e cambi vita. Bisogna chiedere a Dio la grazia della conversione non per un momento o per una particolare situazione, ma per sempre al fine di reimpostare la vostra esistenza incentrata sul dono della fede. Capire questo significa leggere con occhi diversi la realtà del nostro tempo. E’ spesso per la durezza del nostro cuore che situazioni di ingiustizia, immoralità, di malvagità non si trasformano in giustizia, moralità e bontà. Il mondo in cui viviamo non è molto diverso da quello del tempo di Giona, ma certamente i fatti di cronaca dei nostri giorni ci danno l’esatto quadro di un mondo malvagio che si commettono ancora oggi tanti efferati crimini, soprattutto nei confronti dei più deboli e dei più piccoli. Anche il testo del vangelo di oggi ci riporta al tema della conversione. In questo caso non è più Giona a rivolgersi a Niniviti, ma è Gesù stesso che si rivolge ai suoi discepoli, alle persone che si pongono alla sua sequela come il primo gruppo degli Apostoli, a cui fa riferimento il brano odierno, ma soprattutto le grandi masse che incominciarono da subito a seguire Gesù, perché affascinata dalla sua parola, prima di essere affascinati dalla sua Persona. Anche qui risuona forte l’appello: il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo, cioè alla buona notizia”. Infatti leggiamo: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui. L’appello alla conversione, ala cambiamento di mentalità e strada, è giustificato dall’imminenza del regno, della vicinanza di un Dio, presente nella storia dell’umanità, tramite il suo unico e principale inviato, Gesù Cristo, che richiede un nuovo stile di vita, il modificare radicalmente il proprio pensare ed agire. La prima risposta di questo cambiamento la registriamo nei suoi apostoli. Essi lasciarono tutto e tutti e seguirono Gesù. Oltre la sequela e la chiamata-risposta di cui parla il Vangelo oggi, c’è un’altra fondamentale conversione che bisogna operare dentro e fuori di noi ed è quella che ci rammenta l’Apostolo Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, in cui ci raccomanda un certo distacco dalle cose e dalle persone, per puntare direttamente al cuore della nostra vera speranza e della nostra vera gioia, che è Cristo Signore, perché passa il mondo e il tempo per collocarci nell’eternità “Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo!”. Comprendere tutto questo significa entrare in un’altra dinamica spirituale, umana, sociale e temporale con il mondo e le cose che possediamo. Saperle valorizzare per la nostra vera felicità terrena e soprattutto per quella eterna. Gli affetti più cari, i vari beni posseduti o avuti in dono non ci possono allentare dal vero e sommo bene che è Dio e la salvezza dell’anima e l’eternità Per noi vale ciò che scriveva sant’ Agostino ne sul Libro “Le Confessioni”, che è un testo autobiografico di conversione: la sua persona, tutto il suo essere fu e rimase inquieto ed irrealizzato finquando non incontrò Dio nella sua vita, finquando non ricevette il battesimo da un altro grande santo del suo tempo, quel Ambrogio Vescovo di Milano, che lo portò sulla retta strada, cambiando vita e vivendo completamente a servizio del Vangelo e della comunità dei credenti. Ma un ruolo importante in questa conversione assunse anche la madre, Santa Monica che nella preghiera continua a Dio non faceva altro che chiedere questo al Signore. A conferma che anche nel dono della fede e della conversione una parte importante hanno i genitori, gli educatori e i pastori. Sia questa la nostra preghiera di oggi: “O Padre, che nel tuo Figlio ci hai dato la pienezza della tua parola e del tuo dono, fa’ che sentiamo l’urgenza di convertirci a te e di aderire con tutta l’anima al Vangelo, perché la nostra vita annunzi anche ai dubbiosi e ai lontani l’unico Salvatore, Gesù Cristo”. Amen.

Commento per la solennità dell’Epifania

Solennità dell’Epifania

6 Gennaio 2009

Cristo rischiari le tenebre di questa afflitta Terra

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la solennità dell’Epifania, ovvero della manifestazione di Gesù Cristo a tutto il mondo. Con la venuta dei Magi alla Grotta di Betlemme lo spazio e l’orizzonte della redenzione non è limitato più ad Israele e alla Palestina, ma al mondo intero. Il Bambino Gesù è il Salvatore di tutti e Lui possono far riferimento popoli, culture, nazioni, religioni di tutta la terra e trovare in Lui la fonte stessa della verità e della vera felicità. L’Epifania è la festa della fede, simboleggiata nella stella cometa che guida i sapiente dell’Oriente ad andare verso Cristo. In tempi di disorientamento generale come è il nostro tempo, Gesù rappresenta, con il suo messaggio di amore, giustizia, verità e pace l’unico possibile che possa orientare il cammino individuale e dell’intera umanità verso i valori essenziali e le cose che contano davvero in questo mondo. Si tratta solo di riconoscere in Cristo il Re, il Sacerdote, Colui che ha fatto dei diversi popoli un solo grande popolo nell’unità della fede e della verità e che è il salvatore del mondo. L’Apostolo Paolo mette al centro della sua riflessione del brano odierno della sua Lettera agli Efesini proprio la missione di Gesù Cristo. “Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.
Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo. In Gesù Cristo tutti i popoli della terra sono chiamati all’unità nella fede, nella speranza e nella carità. Nessun è escluso preventivamente e pregiudizialmente dalla comunione con Cristo in questo mondo e nell’eternità. In ragione di questa prospettiva messianica, il cristiano fa proprio il messaggio che ci viene dalla parola di Dio di questa solennità e che nella prima lettura ci presenta un dei bravi del profeta Isaia tra i più belli e ricchi di contenuti religiosi, di autentica speranza e di universalità di pace e di bene: “Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te, verrà a te la ricchezza delle genti. Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Màdian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore”.
Bisogna rivestirsi della luce, ovvero della fede-speranza per andare incontro al Signore in questo tempo segnato da tanto buio e da tante tenebre. A rischiare le notti di questi giorni non sono le stelle del cielo o la luna, ma i razzi e le bombe, i traccianti che sorvolano la terra di Gesù ed uccidono persone, bambini. Quanta amarezza nel nostro cuore, anche in questa Epifania del Signore, in questa festa della manifestazione di Dio a tutta l’umanità a questa nuova teofania che dovrebbe affratellare le genti di tutta la terra. E invece proprio nella Terra Santa le tenebre dell’odio e della guerra tra due popoli e nazioni diverse calano sulla questa giornata che cristianamente ci indica la via di Dio accolta anche chi di Dio non sapeva nulla, come i saggi venuti dall’Oriente e guidati alla grotta di Gesù da quella stella cometa che dovrebbe essere il faro di luce per tutti gli esseri umani di tutti i tempi e di tutte le nazioni. Questa bellezza dell’Epifania, questa sua insita luminosità che già ci proietta alla luce della risurrezione di Cristo, tanto da essere definita Pasqua-Epifania, possa trova accoglienza nel cuore di ognuno di noi, meditando profondamente sul testo del vangelo odierno, che ci racconta della venuta dei Magi a Betlemme: “Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. Chi ha incontrato davvero Cristo nella fede e nella vita, come i Magi, cambiano strada per non incrociare sulla loro via coloro che vogliono uccidere la speranza, distruggere la vita, dissacrare ogni cosa che è espressione di una fede grande nel Signore, simboleggiati dal quel Re Erode che pur di uccidere Cristo, appena nato, non esita di fare una strage, quella degli innocenti. Una strage che continua ancora oggi, stranamente proprio in quei luoghi dove è nato, vissuto e morto Gesù, perché a morire sotto le bombe assassine delle parti in guerra sono sempre più numerosi i bambini ed intere famiglie. Oggi che celebriamo la giornata mondiale dell’infanzia missionaria si abbia a cuore ciò che veramente i bambini di tutto il mondo, anche nel nostro mondo occidentale si attendono da questa giornata: Essi vogliono solo pace, amore, unita familiare e del genere umano. Questo è possibile se non si esclude dal proprio orizzonte Gesù Cristo, ma come i Magi ci incamminiamo nella fede e nella speranza di incontrarlo in questo mondo, nell’attesa di incontrarlo nel Regno dei cieli. Perciò possiamo pregare con la stessa orazione che eleveremo al Signore all’inizio della santa messa di questo giorno solenne: O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria. Amen.

P.Rungi. Il commento domenicale della Parola di Dio

Seconda Domenica di Avvento

7 Dicembre 2008

Noi operai nel costruire il vero domani

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la seconda domenica di Avvento, tempo propizio per prepararci all’annuale ricorrenza del Santo Natale e come strumento di accompagnamento spirituale è sicuramente la parola di Dio che in questo tempo forte dell’anno liturgico assume un ruolo ed una funzione molto importante per la nostra vita cristiana. Da essa partiamo per capire il senso più vero della venuta di Dio tra e la stessa festa del Natale del Signore in questo nostro tempo, segnato da tanta sofferenza, ma anche da tanta speranza nel cuore.  Nella preghiera iniziale della celebrazione eucaristica riponiamo, infatti, oggi tutto il senso della nostra preghiera e della nostra personale e comunitaria attesa del Redentore: O Dio, Padre di ogni consolazione, che agli uomini pellegrini nel tempo hai promesso terra e cieli nuovi, parla oggi al cuore del tuo popolo, perché in purezza di fede e santità di vita possa camminare verso il giorno in cui manifesterai pienamente la gloria del tuo nome”. La nostra condizione di viandanti e pellegrini ci immette in quel clima di cammino verso l’infinto e l’eterno, verso quel secondo e definitivo avvento del Signore, perché questo nostra camminare sia nel segno del Redentore dell’umanità. Già nella prima lettura di oggi, tratta dal profeta Isaia ci ritroviamo quasi immersi in quella speranza umana e cristiana che ci viene proprio dall’atteso Salvatore dell’umanità. Il grande profeta dell’Antico Testamento, Isaia, punta direttamente al cuore del grande evento che Israele attendeva da sempre. E lo fa con il richiamare l’impegno personale comunitario, affinché l’attesa non si trasformi in ozio e passività, anzi diventi stimolo per rinnovarsi e rinnovare. Quel invito a preparare la strada del Signore, ad abbassare l’orgoglio e la presunzione, l’arroganza e l’autosufficienza di chi pensa di poter fare a meno di Dio, ci dice esattamente di che cosa ha avuto bisogno il popolo di Israele di che cosa abbia oggi bisogno il nuovo popolo di Dio, ma anche l’intera umanità. La nascita di Cristo e sua morte e risurrezione e per tutti gli uomini e per ogni uomo.«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –.Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato». Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». In questo tempo di attesa e conversione abbiamo bisogno di voci profetiche anche ai nostri giorni, non diversamente dai tempi del profeta Isaia. Voci forti e coraggiose, che sappiano dire la verità fino in fondo e non abbiano paura di nulla e di nessuno pur di far emergere tutto ciò che è vero e giusto, retto e che necessita di essere perseguito comunque e sempre. Questa voce profetica al tempo di Cristo fu Giovanni Battista. Il breve brano del Vangelo di Marco ci fa capire la sua missione e la sua funzione in vista del salvatore. Il precursore ha un suo preciso posto nel piano della salvezza e Gesù stesso ne valorizza appieno la sua funzione. “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Conosciamo cosa ha fatto Giovanni e quale sia stato il suo atteggiamento di fronte al male, al peccato, alle deviazioni, all’immoralità. Egli ha gridato forte ed ha denunciato senza mezzi termini il male esistente nel suo tempo. Non ha gridato solo, ma ha operato e vissuto sulla sua pelle l’esperienza di un impegno e di una fedeltà alla verità e alla moralità. La fine per lui fu la decapitazione, ma non indietreggiò davanti ai potenti ed ha corrotti. La sua vita retta, limpida, penitente, pura e senza macchia già di per sé era una testimonianza ed una denuncia di ciò che non andava e di ciò che era utile fare per preparare la strada al Redentore ed al Messia. La stessa sua denuncia rimane attuale e valida anche ai nostri giorni. Noi tutti abbiamo bisogno di ascoltare questa voce propedeutica all’incontro del Messia, che ci invita a convertirci, a cambiare vita, a rinnovarci, a fare penitenza, ad incentrare su Cristo la nostra esistenza. Giustamente l’Apostolo Pietro, nel brano della seconda lettura, nel breve testo della su seconda lettera ci richiama al senso della vita, del tempo, della storia, degli avvenimenti e ci indirizza verso un orizzonte di eternità, dal qual non possiamo assolutamente prescindere se vogliamo capire il significato più vero della Nascita di Cristo e il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. “Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta. Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia”.  La chiara coscienza e consapevolezza dell’eternità ci spinge spontaneamente ad agire in vista di questo traguardo ultimo di tutta la nostra vita. I cieli nuovi e la terra nuova non sono solo attese della parusia, ma impegno nel costruire ogni giorno quell’umanità nuova basata sull’amore, sulla verità, sulla tolleranza, sulla fraternità. In attesa di quello che sarà alla fine dei giorni del mondo, abbiamo il sacrosanto dovere di impegnarci a realizzare quello che Gesù vuole da noi, mediante scelte di vita evangelica nel segno del rinnovamento e della gioia perenne. Noi siamo i veri operai che lavoriamo in ogni situazione per costruire il nostro domani nel Signore, con il Signore e per il Signore che viene per noi a salvarci e a redimerci dalla nostra condizione di miseria e peccato. Egli “verrà di nuovo nello splendore della gloria, e ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa”. 

Tu nostro Padre e Redentore

Prima Domenica di Avvento

30 Novembre 2008

Tu sei nostro Padre e Redentore

di padre Antonio Rungi

Con la prima domenica di Avvento, inizia il nuovo anno liturgico. Ci accompagnerà nella riflessione e meditazione domenicale la Parola di Dio del Legionario Anno B. I testi revisionati ultimamente da parte della Conferenza Episcopale Italiana ci permettono di entrare nella Parola di Dio con più cognizione terminologica e con più precisione concettuale e pastorale. Iniziando il nuovo anno, non possiamo con valutare il cammino che ci attende da compiere per la nostra personale santificazione in questo nuovo tempo di grazia che il Signore ci dona, sia perché ci prepariamo al Natale, proprio con il tempo di Avvento, e sia perché davvero davanti a noi si aprono nuovi orizzonti di salvezza, in quanto la grazia che il Signore abbondantemente ci donerà in questo nuovo anno servirà per elevarci a Lui, non trascurando di sta accanto ai nostri fratelli, specie quelli più in necessità e toccati dalla fragilità umana. Ecco che la nostra preghiera iniziale, non solo della celebrazione eucaristica di questa prima domenica di Avvento, ma per tutto l’anno liturgico e soprattutto per tutti i rimanenti giorni del nostro pellegrinaggio terreno sia questo: O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli”. La nostra buona volontà di andare incontro a Cristo passa attraverso le azioni buone, quella che possiamo classificare come frutto e dono dello Spirito Santo. Si entra nella dinamica spirituale che il vangelo di oggi indica come vigilanza. Vigilare sul nostro pensiero e sulle nostre azioni, sul nostro intelletto e sulla nostra volontà, in quanto entrambi possono deviare ed entrambi possono indiziarci verso il male. Vigilando si va verso il controllo delle proprie convinzioni ed azioni e ci si rende continuamente conto se rispondono perfettamente o solo sufficientemente alla volontà di Dio e al nostro progetto di salvezza. Il testo del Vangelo di Marco ci aiuta in questo discernimento: “In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.  Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!». E’ evidente che per chi ha cuore la propria e personale crescita interiore non può abbandonarsi ad opere che non siano espressione di quella volontà di incontrarsi continuamente con chi è la fonte della nostra gioia e consolazione, che è Cristo Signore. Egli vive in un atteggiamento di continua attesa, non perché abbia paura, ma semplicemente perché quando il Signore giungerà lo trovi sveglio e cioè ricco di opere di bene. Il sonno, in campo spirituale, denota lo stato di abbandono, parziale o totale, della legge di Dio. Questa tipologia di sonno va evitata ad ogni costo, perché se effettivamente ci lasciamo andare, non sarà facile risvegliarsi, soprattutto se la sveglia chi chiede di recuperare le energie perdute ed il tempo perduto. La vigilanza è perciò attenzione alla moralità dei propri atti, ma è preghiera e dialogo continuo con il Signore, soprattutto nell’eucaristia, ove Egli si offre a noi come cibo e bevanda, come farmaco di immortalità. Si comprende, allora, alla luce di quanto detto, quello che scrive di se stesso l’Apostolo delle Genti, nel breve brano della Prima Lettera ai Corinzi che oggi ascoltiamo come seconda lettura della Parola di Dio di questa prima domenica di Avvento: “Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.
La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!”.
L’Apostolo Paolo è riconoscente al Signore per i doni ricevuti, ma anche della crescita delle fede in Cristo tra i cristiani di Corinto. Due le vie che Paolo indica per entrare nel mistero di Cristo con la piena consapevolezza e adesione: la via della conoscenza e la via dell’annuncio. Conoscere è fare esperienza profonda di Cristo. Da questa esperienza nasce il desiderio e la volontà di dire agli altri e comunicare ai fratelli la grande bontà di Dio. Entra così in gioco il criterio del dire e fare in stretto rapporto tra loro, che in termini di oggi si dice testimonianza. Il cristiano convinto della propria fede vive in attesa dell’incontro continuo con Cristo, facendo sì che la sua condotta sia irreprensibile, cioè senza colpa e peccato alcuno, ma coerente con quando ci viene indicato dal Dio quale via di santità e perfezionamento nella carità. Al riguardo ci risulta di estrema ricchezza spirituale quanto è scritto dal profeta Isaia nella prima lettura di oggi. Una vera preghiera che si snoda attraverso vari impetrazioni, aiuti, assistenza, interventi divini ed attese di ogni genere: “Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti. Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti. Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui. Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità. Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani”. “Tu signore sei nostro Padre e nostro Redentore”, così questa preghiera del grande profeta dell’antico testamento, Isaia. Questa sia la nostra preghiera all’inizio del cammino spirituale in vista del Natale, ma soprattutto è la preghiera che ci accompagnerà tutti i nostri giorni. La certezza di avere un Padre e un Redentore ci conforta nel nostro cammino di vita umana e cristiana, perché non siamo orfani e abbandonati a noi stessi, ma abbiamo la certezza che questo Padre così solerte vigila su di noi e non ci lascia facilmente sbagliare, perché ci richiama continuamente con la sua parola di vita, con gli insegnamenti della chiesa e con la testimonianza credibile di tanti nostri fratelli e sorelle nella fede. Da parte sua, il prefazio di oggi ci rammenta il significato più vero dell’Avvento e quanto siamo chiamati a fare per vivere degnamente questo tempo di preparazione al Natale annuale, ma soprattutto al suo ultimo  definitivo avvento nella storia dell’umanità: Al suo primo Avvento nell’umiltà della nostra natura umana egli portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Verrà di nuovo nello splendore della gloria, e ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa.

Gesù, tu sei nostro Re

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

23 Novembre 2008

O Cristo, nostro amatissimo Re e Signore!

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXXIV Domenica del T.O., ultima dell’anno liturgico, dedicata alla solennità di Gesù Cristo Re dell’Universo.  La parola di Dio ci immerge nel mistero del Cristo, il principio e il fine di ogni cosa, il centro della nostra vita, del creato e dell’universo intero. La regalità di Cristo che oggi celebriamo è regalità si amore e servizio, di donazione, misericordia. La preghiera della comunità che oggi è riunita per rendere grazie al Signore per l’anno liturgico, che è tempo di santità e di perfezione nella carità, che si chiude con questa domenica, diventa la nostra preghiera sincera e sentita: “Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo, fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine”. Ci introduce alla comprensione della solennità odierna la prima lettura tratta dal libro del profeta Ezechièle, nel quale l’uomo di Dio evidenza la presenza di Dio nella storia del suo popolo: una storia accompagnata con amore, misericordia, provvidenza e bontà. Egli è vero pastore, che cura l’interesse del suo gregge e che va in cerca della pecorella smarrita. Nessuna può rimanere isolata dal suo amore e dal suo sguardo di bontà divina, anzi va in cerca proprio di quella ferita e debole, più bisognosa di attenzione e di ogni cura. “Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.
A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri”.
A Gesù Cristo giudice è dedicato il testo del Vangelo di oggi, incentrato sul giudizio universale. Un Giudice che giudica con amore e con comprensione, ma anche secondo regole ben precise che egli stesso ha dettato per la salvezza eterna dei suoi figli. Regola fondamentale è la carità vissuta, attestata e concretizzata in comportamenti ed azioni semplici, come quelli di dare da mangiare, bere, assistere, essere vicino a chi è nel dolore, nella sofferenza, nell’emarginazione. “In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna». Da parte sua l’Apostolo Paolo nel brano della prima lettera ai Corinzi ci porta alla sintesi del vero  significato della solennità odierno. Egli ci parla della vera regalità di Cristo, che egli esercita nel mistero pasquale di morte e risurrezione. Una regalità che verrà ultimata quando, dopo aver egli superata la barriera della morte corporale, farà superare tale barriera a tutta l’umanità nel giudizio universale. La morte infatti sarà per noi l’ultimo “nemico” da abbattere, mentre ora la pensiamo come un transito verso l’eternità, di cui non bisogna aver assolutamente paura, in quanto Cristo ha vinto la morte. “Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Possiamo perciò pregare con sincerità e dire a questo nostro amatissimo Re e Signore dell’universo queste semplici, ma sentite parole che partono dal nostro cuore: “O Padre, che hai inaugurato il tuo Regno di amore con la risurrezione di Cristo, rendici operai appassionati e sinceri, affinché la regalità del tuo Figlio venga riconosciuta in ogni angolo della terra. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore.