parola di dio

La solennità di Tutti i Santi

Rungi-Marcianise2008-1.jpgTrentesima domenica del tempo ordinario

Solennità di Tutti i Santi

1 Novembre 2009

 

I diversi aspetti e la varietà della santità

 

di padre Antonio Rungi

 

Celebriamo oggi la Solennità di Tutti i Santi, in questa prima domenica di novembre, che apre il mese dei morti. Domani, infatti, ricorderemo nell’annuale commemorazione di tutti i fedeli defunti, quanti hanno lasciato questo mondo e godono o sono in attesa di godere della visione beatifica di Dio.  La solennità odierna  ci porta nel cuore stesso del mistero della salvezza eterna verso la quale siamo tutti incamminati per strade e percorsi diversi. Siamo, infatti, tutti chiamati alla santità e tutti possono diventare santi, cioè realizzare la beatitudine nel tempo e nell’eternità.

Oggi la chiesa pone alla nostra attenzione i santi conosciuti e quelli meno conosciuti, quelli ignoti, in poche parole coloro che godono della visione beatifica di Dio. Tutti coloro che hanno vissuto nella legge di Dio, nel timore di Dio e si sono sforzati per diventare sempre più perfetti nell’amore verso Dio e verso i fratelli. E non sono pochi, perché l’evangelista Giovanni, nell’Apocalisse afferma che vide “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”. E’ la conferma biblico-teologica che la salvezza è rivolta davvero a tutti e tutti partecipano del banchetto del cielo. Certo chi ha avuto il dono di testimoniare la fede fino al martirio, fino allo spargimento del sangue per amore di Cristo, viene indicato come modello per eccellenza agli altri. D’altronde i martiri sono i testimoni della fede e quanti vogliono raggiungere la santità non possono non seguire la strada del martirio quotidiano. Ecco perché nel testo dell’Apocalisse della prima lettura di oggi si sottolinea in particolare la presenza dei martiri nella schiera dei beati. “Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

La vita cristiana richiede una purificazione continua, un cammino di perfezionamento nell’essere e nell’agire, che abbia di mira la Gerusalemme celeste, senza trascurare la Gerusalemme terrestre, cioè il mondo in cui siamo chiamati a realizzare la nostra vocazione ed applicare concretamente i carismi ricevuti. Santi non si nasce, ma si diventa, a partire da quel giorno del Battesimo, in cui siamo stati avviati a quel percorso di santità con il dono della grazia battesimale, con l’eliminazione del peccato originale e la nuova condizione di figli di Dio, per mezzo di quella stessa grazia battesimale che ci ha fatto passare dallo stato naturale a quello soprannaturale. L’atto fondante della nostra opzione per la santità è proprio quel dono del Battesimo che ci immette in quella linfa vitale che è la grazia santificante. Vivere nello stato di grazia significa allontanarsi dal peccato e seguire la via di Dio. Non è facile, ma con la vita di preghiera, la frequenza ai sacramenti, con la lotta contro le tentazioni della carne, degli occhi e la concupiscenza di ogni genere si può progredire nella santità e vivere in grazia.

Questa condizione speciale in cui siamo la sottolinea la prima lettera di san Giovanni apostolo, secondo lettura della liturgia odierna. “Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”.

La fede nella vita eterna ci dice una cosa importante: “quando Dio si manifesterà, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. La speranza nella vita eterna ci mette in uno stato di purificazione, per essere puri come Dio è puro. Si tratta di quel cammino di spiritualità, in quanto Dio è puro spirito e la santità è sinonimo di spiritualità, ma anche umanità, sensibilità, carità, impegno per la pace, per la giustizia.

I santi sono coloro che hanno la mente rivolta al cielo, ma camminano con i piedi per terra, cioè realizzano qualcosa concretamente, non limitandosi ad annunciare, ma ad operare. I beati e la beatitudine di cui parla il Vangelo di Matteo nel celebre discorso della Montagna, tenuto da Gesù davanti alle persone che lo seguivano è un insegnamento di ampia portata educativa, sul quel cammino di santità sul quale siamo immessi, ma non sempre seguiamo speditamente. A volte siamo noi stessi a rallentare questo cammino, anzi a fermarci, a bloccarci di continuo, perché ci facciamo distrarre da percorsi alternativi, come quando ci troviamo in un ingorgo e cerchiano vie di fuga. La santità richiede coerenza e costanza, fedeltà a Dio, coraggio nelle proprie azioni, forte propensione a guardare oltre e a non fermarsi al primo intoppo. Ecco perché questo testo sulle beatitudini è stato inserito nella liturgia della solennità di tutti i santi, in quanto in esso sono individuate le molteplici categorie di persone che sento davvero l’urgenza nel loro cuore di mettersi alla sequela del Cristo Maestro. Qui infatti troviamo espresso l’alto magistero di Cristo, il vero pedagogo, il maestro divino che parla ad esseri umani, con il linguaggio dell’amore, del perdono, della pace, della giustizia, della solidarietà. In poche parole il codice ed il linguaggio della vera santità concretizzata in scelte radicali di vita per amore di Dio e dei fratelli, secondo quando riusciamo a intendere dal Vangelo di Matteo: “In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli»

Nel pensare alla grande moltitudine di quelli che hanno raggiunto la gloria del cielo, vivendo gli insegnamenti del vangelo, ci si apre il cuore alla speranza. E’ vero che molti sono i chiamati e pochi gli eletti, ma è altrettanto vero che la misericordia di Dio è infinita e che il Signore non vuole che nessuno dei suoi figli vada perduto.

Ci affidiamo, quindi, alla protezione di tutti i santi e particolarmente dei nostri protettori, delle anime sante che abbiamo incontrato e conosciute nella nostra vita, perché si facciamo interpreti delle nostre attese e desideri di santità presso il trono dell’Altissimo, ma anche di una vita serena e tranquilla in questo mondo, nell’attesa di incontrare il Signore nella gloria del Santo Paradiso.

Molti di noi ricordo un vecchio proverbio che era anche una forma augurale che le persone di una certa età esprimevano in senso di affetto di fronte ai bambini appena nati o in fase si sviluppo: “Cresci santo e vecchietto”, cioè buono e per una lunga vita.

E’ augurio che rivolgo a ciascuno di voi in questa giornata di festa per tutti. Oggi è l’onomastico di tutti, perché noi cattolici in questo giorno ricordiamo i nostri santi patroni e protettori che dovremmo imitare nella vita e nella santità.

Sia questa la nostra preghiera che sgorga dal nostro cuore proiettato nella vita oltre la vita, a quella vita in vita, che ha solo un grande e promettente nome: il Paradiso.

“Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia. Amen.

Commento alla parola di Dio di domani

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Trentesima domenica del tempo ordinario

 

25 ottobre 2009

 

La cecità delle nostre idee, la luce della fede in Cristo

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXX Domenica del tempo ordinario e la parola di Dio ci mette di fronte alla guarigione del cieco, che come tematica ci richiama alla nostra attenzione la cecità delle nostre idee e la luce che viene dalla fede in Cristo. L’incontro con Gesù da parte di Timeo lo guarisce nel corpo riacquistando la vista, ma soprattutto nell’anima perché scatta in lui il dono meraviglioso della fede. Una fede espresso con l’implorazione, con la insistenza, con il grido forte del disperato, della richiesta della misericordia e dell’aiuto divino. La coscienza che la malattia fisica fosse conseguenza del peccato, è evidente nella sacra scrittura. Ma come sappiamo non c’è uno stretto rapporto tra malattia del corpo e lo stato di peccato. Basta considerare che molte sante persone, che conosciamo o che sono stati proposti come modelli di vita e dichiarati santi, nella loro vita non vivevano in peccato eppure sono stati toccati da tante infermità che hanno accettato per amore di Dio e fissando lo sguardo nel Crocifisso e abbracciandosi la croce; altri invece che vivono in una evidente e pubblica condizione di peccato e che sono ottimamente in salute. Qui entriamo in quel mistero della incomprensione della sofferenza umana che privilegia alcuni e lascia liberi altri. Timeo, il cieco del vangelo avverte su di sé il pesa del peccato e chiede la conversione del cuore e della guarigione dell’anima. Egli ottiene l’uno e l’altro dono, tanto che una volta guarito non va viene, ma si mette alla sua sequela. Non fa come tanti cristiani o credenti che ottenuti la grazia e l’aiuto di Dio si dimenticano con facilità del dono ricevuto, ritornando ad uno stile di vita di indifferenza o apatia interiore. Quest’uomo guarito si mette alla sequela di Cristo e il dono ricevuto lo trasforma in missione e discepolato. Come è difficile lasciare dietro di se le esperienze negative per iniziare un nuovo cammino. Il cieco è esempio che è possibile iniziare una vita diversa dal passato non più fatta di cecità sulla propria vita e su quella degli altri, ma fatta di apertura alla fede, alla verità, alla luce. Non dobbiamo diventare giudici severi degli altri prendendo il posto di Dio nel valutare la vita, la condizione e la interiorità dei nostri fratelli, noi dobbiamo accogliere solo il grido di aiuto quando ci viene richiesto e se possibile rispondere a questo grido non con l’orgoglio di chi sa o pensa di sapere di più o di essere nel giusto, ma di chi si mette alla ricerca e alla sequela come il cieco guarito. Solo Cristo è la nostra vera guida e luce. Tutti gli altri possono rifletterlo più o meno in modo adeguato, ma nessuno si deve sostituire all’azione sanante e santificatrice della grazia del perdono e della conversione che viene dal Signore. In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Bisogna prende coscienza anche tra i credenti o quanti hanno la responsabilità pastorale che l’unico Salvatore e Cristo e nessun può negare alle persone che chiedono di incontrare Cristo nella confessione, nella comunione mettendo paletti ed ostacoli di ogni genere, facendo pesare sugli altri la responsabilità morali e avendo poca attenzione ad un cuore in cerca di perdono e avvicinamento al Signore. Molti sono i ciechi spirituali dei nostri tempi che hanno bisogno di incontrare il Signore. Aiutiamoli ad avvicinarsi a Lui e non ad ostacolarli, come la gente che riprova il cieco, mentre gli chiede di Gesù alzando la voce.

Stesso bisogno di Dio viene espresso nel libro del profeta Geremìa, testo della prima lettura di oggi, in cui il popolo pone la sua fiducia e speranza nel Signore Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».

Quanto è importante leggere oggi queste parole del profeta “Dio è Padre” non giudice solo. Egli ci conforta e ci consola. La sofferenza non può essere l’unica compagna della nostra vita. Perché partiamo spesso con essa e poi arriva la gioia e la consolazione, il momento della tranquillità e della serenità interiore.

Gesù è davvero l’eterno, sommo sacerdote che guarisce le nostre ferite del cuore e del corpo. In lui possiamo e dobbiamo riporre ogni legittima aspettativa di salvezza terrena ed eterna. Nonostante le nostre fragilità egli ci aiuta in questo itinerario verso la salvezza, meta ultima del nostro cammino nel tempo. Il suo sacrificio sulla Croce per noi è compassione per noi, è comprensione della nostra debolezza, è purificazione dei nostri peccati è soprattutto riconciliazione e misericordia. “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».

A questo sommo ed eterno sacerdote devono ispirarsi tutti i sacerdote che, purtroppo, non sempre sanno compatire e capire chi si trova nella sofferenza, nel dolore, nel peccato, nella fragilità, perché molti sono nella ignoranza e nell’errore e devono essere guidati alla comprensione del vero ed eterno Dio, rivelato in Cristo. Non si tratta di mettersi sul piedistallo della sapienza umana e acquisita sui libri, ma dal piedistallo della Croce, come Cristo, perché nel sacrificio redentore del Cristo noi comprendiamo il vero senso del suo essere sacerdote e del nostro sacerdozio comune e ministeriale. Nell’amore e nell’oblazione della sua vita, Gesù ci dà lo strumento essenziale ed indispensabile per vivere ed esercitare il nostro sacerdozio, soprattutto se è quella speciale vocazione al servizio nella Chiesa e per la Chiesa, a modo di Cristo Capo.

Sia questa la nostra umile preghiera di questa giornata di festa che apre il nostro cuore alla speranza e alla gioia nel Signore. Quella gioia che solo un volto illuminato dalla luce di Cristo può assaporare anche nei momenti più bui della sua vita: “O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell’oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa’ che tutti gli uomini riconoscano in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te”. Amen

 

Il commento alla parola di Dio di Domenica

15102009(002).jpgVentinovesima domenica del tempo ordinario

 

18 ottobre 2009

 

La via maestra dell’umiltà e della fiducia in Dio

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXIX Domenica del tempo ordinario e la parola di Dio ci mette di fronte alla via maestra dell’umiltà e del servizio. Il cristiano, sul modello del Cristo che da ricco si fece povero, è chiamato a vivere la radicale scelta dell’ultimo posto, nel servizio umile e disinteressato. Il modello etico a cui ispirare la propria condotta di vita non potrà essere un uomo qualsiasi assetato di potere e dei primi posti, come era al tempo di Cristo e come è stato sempre, soprattutto a nosti tempi. Di dittatori di ogni genere la storia ne conta tantissimi, quelli che hanno seminato solo morte e distruzione, quelli che hanno messo in moto uno stile di prepotenza e di arroganza dal quale per liberarsene l’umanità ha avuto necessità di fare guerre e rivoluzioni. Se la logica del mondo segue i parametri del potere, la logica della Croce e del Vangelo segue le regole del servizio e del distacco dalle cose. Il vero credente e discepolo del Cristo non si fa affascinare dai bagliori delle potenze economiche, militari, mass-mediali, non va alla ricerca della ribalta, ma se per caso dovesse trovarsi involontariamente in tali situazioni non deve fare altro, in ragione della sua posizione favorevole e vantaggiosa, di servire, di farsi schiavo per gli altri, di rinunciare alle proprie vedute delle cose, per dare spazio alle vedute degli altri, a non rivendicare diritti e primazie, ma a sentirsi in dovere di scegliere l’ultima posizione della gerarchia e della valutazione umana. Per il cristiano conta l’essere primi al traguardo della vita, cioè nella condizione, in base alla vita svolta di servizio e generosità verso gli altri, di trovarsi degni di essere accolti nella gloria del cielo. Correre verso questo traguardo, significa dare spazio a Dio nella nostra vita e non cercare spazio per noi stessi, magari togliendo lo spazio anche a forza di gomitate a chi ha diritto di occuparne almeno una parte. Proprio perché vogliamo a tutti i costi primeggiare spesso ci troviamo di fronte ai primi che sono primi davvero in senso di testimonianza di santità a non essere considerati ed esclusi, mentre gli ultimi, quelli che sono l’opposto della virtù, del bene ad occupare posti che non meritano, anche perché sono di scandalo e non di esempio. Il testo del Vangelo di oggi è molto esplicito e chiaro, non necessita di commenti, ma solo di concreta attuazione nella vita quotidiana, dovunque ci troviamo ad agire. E’ chiaro che la superbia e l’arroganza non si coniugano per nulla con l’insegnamento di Cristo, che è venuto a servire e non per essere servito, si è fatto letteralmente schiavo per liberare noi dalla schiavitù del peccato. Considerare questo per un cristiano di oggi è andare all’origine stessa dei fondamenti della sua fede. Una fede non sola di dogmi, ma soprattutto di vita il cui modello principale è il Cristo Crocifisso. “In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Al mistero della Croce e del Crocifisso fanno direttamente riferimento i due altri testi biblici di oggi, la prima e la seconda lettura, tratti rispettivamente dal Libro del Profeta Isaia e dalla Lettera, di scuola paolina, agli Ebrei. Due brani di ampio spessore dottrinale e dogmatico. “Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità”. Come non leggere in questo brano il mistero della Croce di Gesù. Si prefigura qui l’uomo del dolore, ma anche il redentore, colui che porterà la salvezza, porterà la luce all’umanità, quella luce della grazia mediante la quale noi possiamo rivolgerci a Dio e chiamarlo Padre e ottenere da Lui la pace e la riconciliazione. La prefigurazione del Cristo Redentore dell’umanità, che Isaia ci delinea in questo brano, pur riferendosi ad altre realtà del suo tempo e della sua personale esperienza di profeta del Signore, ci aiuta a capire come fin dal tempo di Israele il discorso della salvezza è posto al centro della propria esperienza di popolo di Dio, un popolo di salvati, un polo eletto, un popolo unico, perché caro a Dio, Padre di tutti. In Cristo non una salvezza ridotta ad un solo popolo, ma estesa all’umanità intera. Ecco il senso di quella discendenza numerosa che scaturirà della Croce del Signore, ovvero tutti coloro che seguendo Cristo, patendo e soffrendo con Lui, per Lui ed in Lui, troveranno la forza per guardare nell’orizzonte della luce che salva, la luce della croce e del Calvario. E proprio sul sacrificio di Cristo in Croce che si sofferma per nostro personale insegnamento il breve brano della lettera agli Ebrei: “Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”. In questo Dio Crocifisso dobbiamo mettere tutta la nostra fiducia e riporre ogni nostra speranza. Egli sa prendere parte alle nostre sofferenze e non chiude il suo cuore davanti alle nostre richieste di perdono e misericordia per i peccati commessi. Bisogna accostarsi con fiducia a questo trono non del giudizio, ma della misericordia. Per troppo tempo abbiamo nascosto o non considerato adeguatamente il volto misericordioso di Dio Padre, facendo risaltare più il Dio Giudice, il Dio che condanna, che punisce, il Dio terribile. In realtà il Dio che Cristo ci ha rivelato è il Dio Amore, carità, pazienza, compassione, misericordia, gioia che fa festa per ogni peccatore che si converte, che vuole la salvezza di tutti, che va alla ricerca della pecorella smarrita e che ha perso l’orientamento morale ed etico e si è smarrita nel dedalo delle tentazioni della carne e delle passioni umane. Anche questi sono figli di Dio, sicuramente più bisognosi del suo aiuto e della sua dolcezza e tenerezza di Padre. Ecco perché bisogna accostarci con fiducia alla misericordia, mai disperare della salvezza eterna, anche se la nostra vita è stata contrassegnata da tanti peccati e tante fragilità. Dio non vuole la nostra morte spirituale definitiva, ma che ci convertiamo e viviamo. Ed ogni tempo è opportuno perché questo avvenga se siamo docili alla grazia di Dio, allo Spirito Santo e se ci facciamo guidare da persone sagge e sante e non da esaltati e fanatici che distorcono il senso della vera fede cattolica. Sia questa la nostra preghiera domenicale, che ci introduce nella celebrazione eucaristica, ma soprattutto ci immette in quel clima di fiducia nel Signore che mai deve venir meno anche se abbiamo toccato il fondo della nostra debolezza e immoralità: “Dio della pace e del perdono, tu ci hai dato in Cristo il sommo sacerdote che è entrato nel santuario dei cieli in forza dell’unico sacrificio di espiazione; concedi a tutti noi di trovare grazia davanti a te, perché possiamo condividere fino in fondo il calice della tua volontà e partecipare pienamente alla morte redentrice del tuo Figlio”. Amen.

Il commento alla Parola di Dio- Domenica 27 settembre 2009

Ventiseesima domenica del tempo ordinario

 

27 settembre 2009

 

Attenti a non scandalizzare con il nostro modo di fare.

 

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXVI Domenica del tempo ordinario e tema portante della Parola di Dio di questa domenica è lo scandalo, fortemente riprovato da Cristo nel testo del Vangelo di Marco che oggi ascoltiamo. Gli apostoli fanno osservare al Signore che ci sono alcune persone che “scacciano i demoni” e che non appartengono al gruppo dei discepoli. Gesù giustamente fa osservare che ogni opera di bene, da qualsiasi parte venga è sempre bene accettata, perché la sorgente della bontà e dell’amore è Dio stesso. Chi opera il bene è comunque e sempre dalla parte di Cristo e di Dio. Partendo da questo discorso che Gesù sviluppa nel brano di ogni un altro argomento che è di grande attualità anche ai nostri giorni, ed è quello di dare scandalo in base ai nostri comportamenti non consoni alla scelta di vita cristiana che abbiamo fatto. Il richiamo ai veri organi del nostro corpo, arti e attività connesse alla nostra vita biologica sono esempi per dire come effettivamente il male morale del peccato, dello scandalo sia superiore alla privazione di un bene essenziale e corporale che riduce la nostra integrità fisica. Le immoralità sono più privanti di una mancanza di arto o della stessa vista, soprattutto se il nostro comportamento immorale incide nella vita degli altri ed offende la vita altrui. Gli scandali in campo morale non si possono tollerare, né tacere, né tantomeno accettati. E’ bene in questi casi che si stronchi subito tutto ciò che ci fa deviare nella nostra vita cristiana per recuperare una serenità spirituale ed interiore. Questo è un principio etico di carattere generale, ma diventa obbligante ulteriormente se ci troviamo ad agire in un contesto di grande semplicità, innocenza, bontà, pulizia morale. In un contesto di corruzione generalizzata difficile che si possa rimanere scandalizzati dal comportamento di qualcuno. Questo invece avviene in quei contesti dove si pensa ed agisce rettamente o le persone non sono preparate alle delusioni ed ai comportamenti chiaramente lesivi della dignità degli altri. Lo scandalo ancora esiste, anche se sempre che oggi non ci scandalizziamo più di nulla e tutto sembra essere giustificato, anche le cose più immorali ed anticristiane. Significativo è il testo del Vangelo di oggi, un vera lezione di vita e di comportamento etico in ragione a delle precise scelte di vita. In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

Queste assurdità, questi paradossi hanno una loro efficacia per farci capire la gravità di certi nostri comportamenti e atteggiamenti sociali e morali. Gesù ci fa capire che su questo argomento la tolleranza di Dio è zero, anzi è Dio che chiede una vera purificazione del cuore e del corpo, l’unica che può ridare dignità ad un essere umano caduto in grave peccato di scandalo. Conversione è sinonimo di annuncio, di bene da trasmettere in ragione della nuova condizione di vita e di grazia di cui siamo entrati i possesso. Per cui se siamo nelle condizioni di poter operare il bene ed aiutare gli altri a recuperare uno stato di grazia, facciamo tutti i passi necessari per poter arrivare a questo fondamentale obiettivo di ridare speranza e pace ai cuori affranti dal dolore fisico e morale. La prima lettura di oggi ci dice esattamente tutto questo. Dal Libro dei Numeri veniamo invitati a fare il bene in ogni situazione senza gelosie: “In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». La  persona convertita, quella piena dello spirito del Signore è chi si pone al servizio della parola, ovvero profetizza, nel senso che la sua vita è trasparenza di una vita di profonda ed interiore relazione con il Signore. Capire questo significa entrare nel testo di oggi e comprendere la scelta dei Settanta discepoli e la scelta di ulteriori altri due. E’ lo Spirito Santo che guida la chiesa e lo fa con i sui doni e carismi individuali che sono al servizio di tutti. I disegni di Dio non vanno ostacolati se riguarda la nostra o l’altrui vita, ma nel discernimento costante vanno sostenuti ed incoraggiati. Il bene chiunque e dovunque lo fa o lo riceve è sempre bene accetta a Dio. Ritorna anche oggi come ulteriore testo biblico da approfondire la lettera di San Giacomo Apostolo che portava avanti il suo progetto di amore e carità, in un contesto di evidenti necessità di assistenza ed aiuto. Il monito è morto duro e forte e deve far riflettere coloro che hanno improntato la loro vita solo alla soddisfazione dei piaceri della carne, della gola e di ogni altra delizia materiale dimenticandosi che c’è un giudizio di Dio e che c’è un’eternità alla quale andiamo incontro volenti o nolenti. In  ragione di questa dovremmo essere tutti più attenti a non gozzovigliare, né a lasciarsi andare nelle cose che piacciono, ma tenere un atteggiamento penitenziale in ragione anche a chi non ha nulla, mentre noi abbiamo di tutto e di più e non distribuiamo neppure il superfluo che  abbiamo o addirittura siamo stati ingiusti o abbiamo fatto soffrire le persone buone. “Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente.  Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza”. Quante situazioni di evidente immoralità e ingiustizia in questo nostro mondo. Si predica e si dice tanto nel lottare ogni forma di discriminazione e di povertà nel mondo e poi nella realtà si fa poco o nulla per combattere questo evidente stato di cose. Il Signore ci dia la forza ed il coraggio nella missione che tutti siamo chiamati a portare avanti a realizzare con il nostro piccolo o grande contributo il sogno di un mondo migliore, più giusto e a misura d’uomo. Sia questa la nostra preghiera al Signore nella domenica in cui la parola ci invita ad una profonda rivoluzione del nostro cuore e della nostra vita: “O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia, perché, camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna”. Amen

 

Il commento alla parola di Dio- Domenica 20 settembre 2009

Venticinquesima domenica del tempo ordinario

 

20 settembre 2009

 

I piccoli e i veri grandi secondo Gesù

 

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXV Domenica del tempo ordinario e al centro della nostra preghiera e riflessione c’è il testo del Vangelo ritorna sul discorso della passione, morte e risurrezione del Signore che Gesù Maestro. Il mistero pasquale è ancora al centro della parola di Dio di questa domenica di settembre. Ma il discorso introduttivo di Gesù alla sua imminente passione non fa scattare l’interesse del Gruppo dei Dodici che tra loro stanno discutendo di altre cose, umanamente più concrete e redditizie, cioè chi era il più grande tra di loro, cioè il più importante e il primo. C’è qui un’evidente aspirazione al comando alla primazia dell’uno nei confronti degli altri del gruppo. Una cosa che evidentemente contrasta con l’autentico messaggio di Cristo, che è umile, si è fatto servo, assumendo la natura. Egli propone la via dell’abbassamento e dell’umiltà e i discepoli propongono la logica del potere e della supremazia, in netta opposizione allo stile del Maestro Gesù Cristo.

Per mediare un discorso di umiltà e per ricondurre i discepoli alla logica del vangelo Gesù deve proporre un modello di comportamento, che gli individua nell’essere o diventare bambini, nel senso più autentico del termine. Egli infatti, dice senza mezzi termini «se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E preso un bambino lo pose al centro del loro dibattito, delle loro fatue ed inutili discussioni e propone nel bambino il riferimento educativo e mentale per operare nella logica del vangelo, per accogliere Dio nella propria vita. La prospettiva della semplicità, dell’umiltà, della fragilità è quella che mette la base della relazione con Dio e con i fratelli. Dio si accoglie in un cuore semplice e aperto al dialogo, al confronto, come i bambini che sono aperti alla vita e si affacciano alla vita. «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato». Il testo del Vangelo di Marco che ascoltiamo oggi, certamente è molto più ricco ed articolato e nella sua interezza propone altri importanti richiami alla fede e all’azione. Leggere questo brano e meditarlo ci aiuta a ridimensionare le nostre attese ed aspettative personali e sociali, specie quando ci dobbiamo confrontare con gli altri. La ricorsa ai primi posti è una malattia soprattutto dei nostri giorni e l’orgoglio e la superbia la sperimentiamo, purtroppo, in tante situazioni, anche in quelle che dovrebbero presentare il volto più autentico del messaggio cristiano. In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Strettamente connessa con il brano del Vangelo è la prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, in cui nuovamente ci viene presentato il discorso della figura del Messia, prefigurato qui, come in altri testi dell’AT come persona mite, coraggiosa, vessata con sofferenze e prove, per verificare la sua divinità. In questo brano ritroviamo in anticipo la figura di Cristo, l’esatta immagine del Crocifisso e del redentore, sia nella sua itineranza di maestro e sia soprattutto nel momento della sua morte in croce. “[Dissero gli  empi:] «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta. Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».

Ci ritornano in mente le parole di Cristo dalla Croce: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? La morte di Cristo è l’atto d’amore più grande che il Signore ha compiuto per noi. Sulla croce è tutto solo, con la sua sofferenza, espressione di un amore immenso che solo alla luce di questo unico ed irripetibile evento della salvezza del genere umano può essere letta e accettata nel mondo giusto. Ogni altra spiegazione al dolore e alla sofferenza umana non trova motivo di esistere. Si soffre e si accetta la sofferenza solo per amore. E Dio questo amore lo ha manifestato a noi sulla Croce, la sua croce. Nel segno della croce non si possono fare discorsi dei più grandi e dei più piccoli, ma solo di giustizia e solidarietà. Cristo ha scelto la via del Calvario per dare a noi uomini una grande lezione di vero amore. Purtroppo questa lezione non l’abbiamo ancora appresa, forse abbiamo iniziato come i bambini a fare i primi passi in questa direzione; ma il cammino è lungo e difficile da percorrere se non ci mettiamo in quella dinamica della disponibilità alla volontà di Dio e alla solidarietà.

Ciò ci introduce ad un altro importante discorso: nella croce di Cristo l’umanità è stata pacificata; ma la pace non sta purtroppo né dentro di noi, né fuori di noi, né intorno a noi, né nel mondo intero. E come ai tempi dell’apostolo Giacomo costui teneva ad evidenziare le cose che non andavano e l’origine di ogni male, passione e divisione tra le persone, così oggi ritorna come rimprovero cocente questo messaggio che ci invita a superare le divisioni, le guerre e gelosie. In un mondo in cui domina l’odio, il terrorismo, come abbiamo registrato in questi giorni con la morte di sei nostri militari in Afghanistan, questo messaggio sia di auspicio per un mondo più umano, meno conflittuale e più pacificato. “Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni”.

E’ proprio vero che dove c’è spirito di contesa e gelosia che solo guerra e disordine, E questo in tutti gli ambienti. Quante volte abbiamo sperimentato con nostra personale sofferenza tutto questo, potendo fare ben poco per eliminare dai nostri ambienti di rivalità e concorrenza quella insaziabile sete e fame di potere e di primeggiare. Il frutto dell’odio non più che essere una guerra su tutti i fronti, che non si sana mettendo al posto dei cosiddetti dittatori di turni altri che sono più dittatori di chi li ha preceduti. Il peggio dicevano gli antichi deve sempre ancora venire. E mi sembra che questa nostra umanità invece di andare nella direzione della pace, va verso la guerra globale e globalizzata, con grande danno per tutti, in quanto in regime di pace è più facile potenziare la pace, in un sistema di pensiero e di azioni bellici si potenziano i conflitti e l’assurda pretesa di governare sugli altri in modo autoritario. Il motto dei romani “divide et impera”, dividi e comanda, metti l’uno contro l’altro, fa capolino nelle nostre realtà quotidiane, ma anche a livello generale.

Sia questa la nostra umile preghiera di oggi: “O Dio, Padre di tutti gli uomini, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di un fanciullo la misura del tuo regno; donaci la sapienza che viene dall’alto, perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo che davanti a te il più grande è colui che serve”.

 

La parola di Dio di Domenica 13 settembre

Ventiquattresima domenica del tempo ordinario

 

13 settembre 2009

 

Signore Gesù, Tu sei il nostro Salvatore.

 

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXIV domenica del tempo ordinario e al centro della nostra riflessione c’è il testo del Vangelo di Marco con la celebre confessione della divinità di Cristo da parte di Pietro, capo del collegio degli apostolo, e parimenti l’assegnazione del compito a Pietro da parte di Gesù di guidare la chiesa. Stiamo a Cesarea di Filippo e qui avviene questo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli. Il Maestro, già a conoscenza di tutto, chiede agli apostoli cosa pensi la gente di lui. Nel testo del Vangelo di Marco sono riportate alcune definizioni del Cristo o identificazioni con personaggi biblici ben precisi dell’AT e NT. Ma Gesù vuol sapere esattamente qual è il pensiero degli apostoli nei suoi riguardi, se effettivamente hanno compreso chi fosse. La riposta di Pietro è eloquente: tu sei il consacrato l’Unto del Signore. Il Cristo, il Messia. E’ la confessione della fede di Pietro e del gruppo dei discepoli di Cristo Salvatore. “In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà». Dal testo del vangelo è comprensibile quale conseguenze ne deriva il fatto che uno accetti Cristo come redentore. La conseguenza è la sequela, è l’impegno per un mondo nuovo capace di uscire dall’individualismo e dall’egoismo e di assumersi il peso delle responsabilità, che sono espresse dalla croce. La sequela di Cristo non ammette compromessi, essa chiede una disponibilità totale alla volontà di Dio fino alla croce e alla morte. Siamo capaci di questa sequela? Sappiamo davvero metterci in cammino con Cristo sulla via del Calvario? O piuttosto pensiamo ad un Dio che è solo gioia, benessere, assenza di dolore, un essere superiore capace di soddisfare tutte le nostre esigenze materiali. La croce a cui fa accenno Cristo e che deve essere accettata e porta non può essere strumento di scandalo o di rifiuto, ma di gioia e di liberazione. La via della Croce l’ha seguita prima Lui e dopo di Lui tutti coloro che seriamente vogliono fare un discorso di fede cristiana, di abbandono in Dio. Non si tratta solo nella fede di riconoscere Cristo come l’inviato del Padre, ma di testimoniarlo con una degna condotta di vita cristiana che vuol dire capacità di amare fino al sacrificio supremo.

La figura del Cristo umiliato e sofferente, il Servo dolente delineato nei suoi scritti dal profeta Isaia la comprendiamo bene alla luce del testo della prima lettura di oggi, in cui si parla appunto delle sofferenze del futuro messia di Israele. Esattamente quello che si è verificato nella vita di Cristo. E ciò è un’ulteriore conferma che Cristo vero uomo e vero Dio è davvero il salvatore annunciato dai profeti anche sotto le vesti dell’uomo dei dolori. “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi  strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”.

Leggere questo testo alla luce dell’evento della Croce assume un significato molto preciso riferito a Cristo Crocifisso. La sofferenza di Cristo non è stata vana, anche se la è stata la cattiveria dell’umanità a schiacciare solo nel corpo la persona di Cristo, ad umiliarlo, a condannarlo a morte e a vederlo morire su un patibolo tra i più abietti del tempo. La dignità del Crocifisso, del Servo sofferente di Jahvé è un forte monito a ciascuno di noi per accettare di buon grado il dolore e la prova, ben sapendo che ogni sofferenza non è vana né per la propria vita, né per quella degli altri. La sofferenza più della gioia ha valore di eternità e di vita oltre la stessa sconfitta e debolezza. Apprendere dal Crocifisso il linguaggio dell’amore e della solidarietà è quanto ci viene detto in modo molto chiaro dall’Apostolo Giacomo nel brano della sua lettera che ascoltiamo come seconda lettura della parola di Dio oggi. Il crocifisso si identifica con i poveri, gli emarginati, i sofferenti e gli umiliati della terra. Chi vuole rimuovere Cristo Crocifisso non solo dai locali pubblici, come sempre più assurdamente viene chiesto in varie parti della nostra Patria, vuol dire che vuole rimuovere dalla sua coscienza la realtà dell’amore, del dolore, dell’oblazione, del sacrificio e della solidarietà. E’ come prendere i poveri e buttarli via da un progetto do società ove solo i ricchi contano e solo chi vive bene ha diritto di cittadinanza. San Giacomo apostolo un scatto di orgoglio per quanti si professano cristiani e dicono di avere fede. Uno scatto di orgoglio che si traduce in opere ed azioni di vera carità e di concretezza nell’operare per gli altri. “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

E’ evidente che la fede in Cristo chiede un impegno concreto e fattivo per gli altri. Non basata solo proclamare la fede, va vissuta. E la fede senza la carità-speranza è una fede improduttiva per la salvezza eterna, ma anche nel tempo. Solo chi partendo dalla fede agisce per amore degli altri avrà una corrispondenza tra il dire e il fare. Spesso parliamo molto, ma agiamo poco, parliamo bene ed agiamo molto male, contrariamente a quello che diciamo di far fare agli altri. Si mettono i pesi sulle spalle degli altri e noi non siamo in grado di portarne neppure uno tra i più leggeri di questi pesi. Dobbiamo concretamente aiutare chi si trova nel bisogno. E quanti hanno le risorse necessarie se non lo fanno renderanno conto a Dio del loro operare a favore esclusivo di se stessi senza considerare i bisogno fondamentali degli altri come il cibo.

Sia questa la nostra preghiera di oggi che eleviamo al Signore con forti proposito di vero cambiamento interiore ed etico: O Padre, conforto dei poveri e dei sofferenti,
non abbandonarci nella nostra miseria: il tuo Spirito Santo ci aiuti a credere con il cuore, e a confessare con le opere che Gesù è il Cristo, per vivere secondo la sua parola e il suo esempio, certi di salvare la nostra vita solo quando avremo il coraggio di perderla”.


Il commento alla parola di Dio.

Ventitreesima domenica del tempo ordinario

 

6 settembre 2009

 

Apriamo la nostra mente ed il nostro cuore al Signore

 

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXIII domenica del tempo ordinario ed il Vangelo ci riporta il miracolo della guarigione del sordo-muto operato da Gesù verso il mare della Galilea in pieno territorio della Decapoli. Questo particolare miracolo assunse un significato speciale, sia nei gesti, sia nelle parole e sia nei contenuti. E’ d’altra parte lo stesso schema che il sacerdote usa nell’amministrare il battesimo ai bambini, agli adulti, a conclusione del rito del battesimo, quando ripetendo gli stessi gesti e parole di Gesù, invita al neo-battezzato ad aprirsi con il cuore e la mente alla fede e alla parola. In questo miracolo di Gesù è interessante evidenziare l’atteggiamento di speciale benevolenza di Gesù verso coloro che oggi vengono chiamati i diversamente abili e che spesso incontrano tante difficoltà nel realizzare le loro legittime aspirazioni ad una vita umana e sociale. I limiti della non comunicazione e del non ascolto sono evidenti in molte situazioni della vita quotidiana. Relazionarsi ad un sordo muto non basta conoscere il linguaggio dei segni, ma soprattutto è necessario conoscere il linguaggio dell’amore e della disponibilità. In termini metaforici qui ci troviamo di fronte ad una situazione che la sapienza popolare ha fissato i detti molti significativi e che vale la pena citare in questa riflessione sulla parola di Dio. Non c’è peggiore sordo di chi non vuole sentire e di cieco che non vuole vedere. Evidentemente di fronte ad un cambiamento radicale della nostra vita che ci viene proposto dalla Parola di Dio, dai consigli delle persone che vogliono il nostro bene, spesso facciamo finta di non ascoltare e di non vedere. Preferiamo il silenzio piuttosto che la comunicazione anche della propria debolezza e dello stato di bisogno. Il muto e sordo del Vangelo esprime questa situazione spirituale ed interiore di molti che credono di credere e credono di essere credibili. Spesso non credo e non sono credibili, perché alla base del loro modo di pensare e di agire non c’è Dio, ma se stessi, c’è quell’io espressione dell’orgoglio e della superbia umana che rende sordi agli altri e non mette in reale comunicazione con le persone. Immaginiamo quanto questo sia deleterio e profondamente distruttivo quando l’incomunicabilità avviene con l’Altro per eccellenza che è Dio. Venendo meno ogni riferimento religioso, morale, spirituale, etico, l’uomo si assurge a dio di se stesso, entra in questo autismo di chiusura nel circuito della propria personalità, non sempre aperta o capace di apertura. La maggiore difficoltà del mondo di oggi è proprio questa incomunicabilità. Sembra una cosa paradossale, ma è la verità. Più mezzi e strumenti tecnici abbiamo a disposizione, quali computer, cellulari, sociali network e meno comunichiamo davvero e in profondità. Le nostre comunicazioni sono ostacolate non solo dagli strumenti, spesso mal funzionanti, ma dal vero difetto della comunicazione che sta dentro di noi: la paura di aprirsi agli altri, perché non sai cosa trovi e chi davvero l’altro. E se le sorprese oggi non sono rare nell’ambito del mondo reale, con tante fratture e rotture di rapporti affettivi e sociali, nel mondo del virtuale sono ricorrenti e rischiose. C’è un dialogo tra sordi, tra non vedenti, perché la virtualità della comunicazione non favorisce la vera e sicura conoscenza dell’altro. Ecco perché che dal virtuale è necessario passare alla realtà e confrontarsi con essa. Questo confronto non può avvenire per un credente se una base comune di fede, di valori su cui convergere. Il testo del vangelo di oggi è molto chiaro nei passaggi essenziali che portano al discorso della fede e della risposta individuale a Dio che chiama alla comunicazione con lui. Il sordo muto guarito, è guarito non solo nel fisico, ma soprattutto nell’intimo, perché ha incontrato Cristo e con Lui ha instaurato un dialogo, basato sull’ascolto e sulla comunicazione. D’ora in poi quell’uomo potrà ascoltare la parola del Signore e trasmetterla con la vita e la comunicazione globale agli altri. Penso che oggi siamo tutti un po’ sordi alla parola di Dio e poco disposti a rischiare di persona per comunicare e trasmettere questa parola di vita e verità. Preferiamo il silenzio, la chiusura in noi stessi o al massimo nel gruppo ristretto degli amici e dell’associazionismo di tipo religioso. La parola di Dio deve essere proclamata da tutti, con la competenza necessaria e soprattutto con una forte esperienza spirituale alla base. Non si tratta di fare i professori della parola di essere i testimoni della parola. E per parlare degnamente è necessario ascoltare ripetutamente. “In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».  In poche parole dovremmo provare la stessa gioia ed avere lo stesso coraggio del sordomuto guarito e di quanti sperimentano ogni giorno il miracolo della parola che avviene dentro di loro di comunicare agli altri l’esperienza di un incontro che ti cambia la vita. come quella di Gesù. Questa prospettiva messianica di salvezza, come apertura a Dio nella totalità della persona è preannunciato nel testo del profeta Isaia che oggi ascoltiamo come prima lettura della parola di Dio. Qui viene lanciato un chiaro messaggio di speranza e di fiducia in Dio, che solo uomini e donne di vera fede accolgono e rendono operativo nella loro vita e nella vita del loro tempo. I tempi difficili di oggi non sono molto diversi dai tempi problematici nel periodo in cui visse il grande profeta dell’A.T. “Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua”. Solo un ordine morale basato sulla fiducia illimitata in Dio può creare davvero prospettive di vita e di sviluppo per l’umana società, anche di oggi. Chi pensa di poter fare a meno di Dio ha scritto la sua sentenza: la morte di tutto ciò che da vero senso alla vita dell’uomo e di conseguenza della società. Un mondo senza Dio è un mondo alla deriva morale e di relazioni umane e internazionali. Perciò giustamente San Giacomo nella seconda lettura di oggi, tratta dalla sua unica lettera che fa parte dei testi canonici e quindi della Bibbia, ci scrive cose interessanti da un punto di vista religioso, umano, sociale, di diritto, sulle quali è opportuno riflettere con grande attenzione e assumere da esse la lezione per la vita di relazione che siamo chiamati ad alimentare nella famiglia, nella parrocchia, nel mondo del lavoro, ovunque siamo ed operiamo: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?”.

Come sarebbe bello che tra noi uomini e cristiani ci fosse una vera uguaglianza, anche nel rispetto dei ruoli e delle funzioni di ciascuno. La corsa al prestigio, ai primi posti, all’eccellenza, al titolo, alla posizione dominante, all’essere rispettato, temuto, corteggiato è una malattia che investe l’anima e il modo di pensare di molti uomini e donne di tutti i tempi, compresi quelli presenti, più a rischio di visibilità e carrierismo e prestigio sociale, di ricerca di fama ed importanza a livello non più locale ma mondiale.

Via dai noi ogni favoritismo o soggiacenza ai potenti, ma nella logica del Vangelo ogni uomo sia davvero nostro fratello e venga rispettato solo ed esclusivamente per questo. Quanto cammino dobbiamo ancora fare in questo ambito dei rapporti umani e sociali!

Sia questa la nostra umile e sentita preghiera oggi, all’inizio della celebrazione eucaristica, ma che diventi stile di vita in ogni circostanza e situazione della vita: “O Padre, che scegli i piccoli e i poveri per farli ricchi nella fede ed eredi del tuo regno, aiutaci a dire la tua parola di coraggio a tutti gli smarriti di cuore, perché si sciolgano le loro lingue e tanta umanità malata, incapace perfino di pregarti, canti con noi le tue meraviglie”.

Il commento alla parola di Dio

Ventiduesima domenica del tempo ordinario

 

30 agosto 2009

 

La religione dell’apparenza e la religione del cuore.

 

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXII domenica del tempo ordinario e il Vangelo di Marco c’è un discorso molto severo di Cristo nei confronti del popolo di Israele e in particolare verso quanti onorano Dio solo con le labbra, ma non si lasciano prendere dal cuore, cioè dalla profondità della fede e della religione. Tanto è vero che Gesù condanna apertamente quanti tra i suoi conterranei e contemporanei sono molto attenti all’osservanza esterna della legge di Dio e trascurano invece comandamenti molto più importanti, quali la carità, la giustizia, la verità. Esemplari di una religiosità fatta solo di riti, di prescrizioni, di pura osservanza esteriore sono i farisei, ben conosciuti per il loro modo di agire ligio alle norme esteriori, ma pochi inclini all’amore, alla misericordia. Sono passati nella storia del pensiero cristiano e laico come coloro che salvano la faccia, ma nel privato, nella vita profonda del loro essere sono incapaci di gesti di bontà, misericordia, perdono. Non bisogna andare ai tempi di Gesù per ritrovare, in modo accentuato, oggi, le stesse categorie di persone che, in ogni ambito, compreso quello religioso, tendono solo a salvaguardare la faccia, a dare un’immagine perfetta di se stessi a livello esterno, ma che poi non sono capaci di riflettere nel cuore i valori e le cose che davvero contano davanti a Dio e ai fratelli. Il Vangelo di oggi ci impone una severa rilettura del nostro modo di credere, del nostro modo di esprimere e manifestare la fede, molte volte solo esteriorità, apparenze, manifestazioni, liturgie svuotate dal consapevole e sentita partecipazione alla vita della grazia. Una mentalità che affiora sempre più di un uso occasionale della fede, tipo usa e getta, tanto da fare determinate cose religiose (vedi i sacramenti dell’iniziazione cristiana e lo stesso matrimonio) solo per tradizione, solo perché si è fatto sempre così, senza capire a volte l’importanza della scelta che si sta facendo davanti a Dio. I tanti battezzati dove sono? I tanti bambini che hanno ricevuto e rivedono ogni anno la santa comunione, dove sono nelle nostre comunità parrocchiali. I tantissimi giovani che hanno ricevuto il sacramento della cresima, dove vanno, quale itinerario continuano a fare dopo questo sacramento. Le famiglie cristiane fondate sul sacramento del matrimonio dove sono più, quali risposte danno alla cultura della dissacrazione della famiglia e della sua repentina distruzione.  E tanti altri temi sensibili a livello religioso: come la preghiera, la partecipazione alla messa, alla confessione, alla vita della comunità ecclesiale, alle opere di bene, alla condivisione e alla solidarietà. Ecco c’è davvero molto da pensare e riflettere su questo brano della parola di Dio di oggi.
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

Cristo ci invita ad un cambiamento radicale di marcia e di direzione ci invita ad una seria conversione del nostro cuore e della nostra vita. Non possiamo non fare attenzione a quanto troviamo scritto qui dentro, per la nostra personale santificazione e per la salvezza dell’umanità intera. Queste sono parole sante e santificanti. Sta a noi recepirle e metterle in pratica, eliminando tutto il male che sta nel nostro cuore e nella nostra vita. Sono dodici le parole che sono citate in questo testo e che indicano la depravazione morale in cui viene a trovarsi l’uomo quando agisce solo per fini indegni: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Vedo in questo numero dodici in negativo quello che può essere l’imperfezione totale, rispetto al numero 12 in positivo che viene indicato nella storia e nei simboli dell’antico e nuovo popolo d’Israele.

San Giacomo nel brano della seconda lettura di oggi ci riporta alla nostra responsabilità diretta che abbiamo rispetto all’accoglienza della parola di Dio e della sua pratica attuazione. Non possano essere tra quelli che ascolano solo, ma è necessario collocarsi tra quelli che operano in ragione e in risposta della parola ascoltata e meditata. I cristiani delle pie intenzioni ce ne sono tanti, quelli che alle pie intenzioni fanno corrispondere sante azioni ce ne sono pochi. Ecco perché la crisi di fede oggi non è più strisciante, marginale, ma evidente e consistente. . Una riposta concreta la troviamo in questo brano della parola di Dio che ci interpella. “Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature. Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi. Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.

Una religione che proclama soltanto, annuncia, emette sentenze è una religione vuota se a queste cose non corrispondono fatti dei singoli e della comunità. Religione pura, infatti, ci ricorda san Giacomo, che è molto esplicito al riguardo, è senza peli sulla lingua, come si dice nel linguaggio comune, è questa: “visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”.

Non ci resta altro da fare che andare all’origine di questa nostra religione e fede, non solo nel senso biblico e storico, ma nel senso personale e familiare. Se oggi siamo ancora cattolici o diciamo di esserlo bisogna che questo nostro modo di vivere la cattolicità sia espresso con comportamenti consoni alla fede alla quale apparteniamo. Non si può accettare una parte ed escludere l’altra. Ogni regola, ogni legge, ogni consiglio è utile per la nostra santificazione come ricorda il testo della prima lettura odierna, tratto dal Libro del Deuteronòmio. Emerge qui di nuovo la figura del grande condottiero verso la libertà, quel Mosé che il Signore scelse come guida di Israele dalla schiavitù dell’Egitto alla Terra Promessa: “Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo. Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».

Quelle che Dio ha consegnato a Mosè, i dieci comandamenti, sono norme giuste, che servono a mantenere unito un popolo, a farlo camminare nella moralità e nella verità, sia nel tempo presente e soprattutto in vista di quella Terra promessa che è l’eternità. Dio non ha abbandonato mai il suo popolo. Dio ha fatto sentire ad Israele la sua vicinanza, con indicare la strada giusta da percorrere se vuole salvarsi. Osservare la legge di Dio a partire da quelle dieci norme, è garanzia per tutti di vita e benedizione, di pace e riconciliazione, di onestà e rettitudine, di rispetto di se stessi e degli altri, della difesa del bene comune e del bene personale, della famiglia, della donna, della proprietà, della fedeltà, delle buone e rette intenzioni. In poche parole la vita incentrata su Dio evita la ricorsa che l’uomo fa per raggiungere beni e benesseri che non lo possono appagare perché come dice il grande Agostino, il nostro cuore è inquieto finquando non trova Dio e riposa nel cuore di Dio. Non avrai altro Dio, se non il Dio che ha manifestato il suo amore, inviando a noi il suo Figlio Gesù e sacrificandolo per noi sulla croce.

Sia questa la nostra preghiera che esprima la nostra volontà di ricominciare e ricominciare davvero o di continuare il cammino con maggiore cognizione dei nostri diritti e doveri di fedeli: “Guarda, o Padre, il popolo cristiano radunato nel giorno memoriale della Pasqua, e fa’ che la lode delle nostre labbra risuoni nella profondità del cuore: la tua parola seminata in noi santifichi e rinnovi tutta la nostra vita.

 

Il commento alla parola di Dio di domenica 23 agosto 2009

Ventunesima domenica del tempo ordinario

 

23 agosto 2009

 

La sequela di Cristo impegna per tutta la vita

 

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXI domenica del tempo ordinario e il Vangelo di Giovanni, centro della nostra riflessione e meditazione di oggi ci riporta ai discorsi di Gesù. Questa volta il Signore cerca di capire chi è davvero dalla sua parte, premesso che già è a conoscenza della situazione interiore di ciascuno degli apostoli e dei discepoli, leggendo di fatto nei loro pensieri e nei loro cuori, e domanda se vogliono continuare a stare con Lui o andarsene via, come già alcune avevano fatto. La sua parola, l’essere vicino a lui non è un gioco, non è un divertimento del momento, né una positiva esperienza di una giornata, ma ci vuole fedeltà, costanza, forte impegno. Chiede Gesù a suoi discepoli la totale disponibilità al suo progetto di salvezza, alla sua persona. Chiede, in altri termini, la fede, la fiducia non di un istante, ma per sempre. Il testo del Vangelo, ricco come sempre, di spunti di meditazione per la condizione spirituale di ciascuno di noi, ci fa ipotizzare tre categorie di persone: quelle che seguono Cristo con coraggio, convinti, senza pretendere nulla; quelle che lo seguono in attesa di qualche evento ed ulteriore segnale che potesse volgere a loro favore; quelle che seguito Cristo per un tempo, non ne avvertono più la necessità, se ne vanno via e non vogliono sentire più discorsi. Tre categorie, in sintesi si possono delineare: quella dei credenti, degli pseudo-credenti e di non credenti o apostati. Di fronte alla scelta di Dio e di Cristo nella nostra vita è lecito domandare oggi a noi ciò che Gesù chiede a Pietro, quale capo del collegio degli apostoli e sapere dalla sua viva voce cosa intendono fare per il futuro, visto che diversi discepoli per la parola coraggiosa ed impegnativa di Cristo lo avevano abbandonato. Domanda di rito: volete andare via anche voi? La risposta poteva essere sì, anche noi vogliamo andare via, vogliamo abbandonarti, non abbiamo più interessi, né motivazioni che ci spingono a stare con te. Invece Pietro interviene a titolo personale e del gruppo ed esprime il suo pensiero e la sua prospettiva di vita in compagnia del Maestro: “Signore da chi andremo tu solo hai parole di vita eterna”. Aveva capito che il linguaggio di Cristo era di ben altra consistenza rispetto ai tanti maestri del suo tempo. Egli ha un orizzonte di eternità che prospetta ai suoi fidati amici. Ecco perché che chi aveva in qualche modo già entrato nella dinamica della grazia e del dono della fede, conta su Gesù, investe su di Lui, scommette sulla sua persona non per una vincita di un premio (forse c’era anche questa attesa, a leggere attentamente il vangelo nella sua completezza) ma per un premio che ha sapore di eternità. La parola di Cristo li affascina e senza quella Parola, cioè senza Dio (Gesù Cristo è la Parola di Dio, è il Verbo, la Parola Incarnata) non si può vivere. Non c’è puoi orientamento, non ci sono più certezze, tutto diventa precario, soggettivo, relativo, ognuno va per la sua strada, ognuno pensa ed agisce come crede, è anarchia morale e spirituale, caos che non porterà progressivamente all’ordine, ma aumenterà il disordine. E’ quello che avviene oggi a livello morale e in tanti settori. L’uomo vive come se Dio non esistesse e quindi si legittima da solo ogni assurdo comportamento che offende da dignità di se stesso e degli altri esseri umani e della stessa creazione nel suo complesso. Leggendo il testo del Vangelo di Giovanni, oggi comprendiamo quando al di fuori di un riferimento religioso, di una morale cristiana o naturale l’uomo tende a smarrirsi ed oltre a perdere il senso di Dio, perde anche il senso di se stesso, della vita, delle cose che fa e non ha più vere e rassicuranti prospettive. Magari si inventa e alimenta delle illusioni, costruisce un mondo di favole e di chimere che si sciolgono come neve al sole, per poi motivare che il tutto era stato falsamente impostato o programmato. Il programma di Cristo è ben leggibile nelle sue parole di verità, nella precisione di ciò che intende realizzare. Nel Vangelo troviamo il suo progetto di vita per il mondo e per chi in questo mondo vuole fare la scelta per il Signore. “In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Come sempre ci vuole accostarsi al discorso religioso a Dio, non può farlo solo con la ragione, con la filosofia, con la ricerca scientifica, ma è necessario partire dalla fede. Noi come Pietro dobbiamo riconoscere che Cristo è “Il Santo di Dio”, cioè Dio stesso in persona che è presente nel mondo e che ritornerà da dove è venuto. L’inviato del Padre, il redentore prospetta ai suoi apostoli non solo lo scandalo della croce, ma la gioia della risurrezione e dell’ascensione al cielo. In poche parole, Cristo educa alla fede vera, indirizza verso il nucleo centrale della dottrina che Lui è venuta a far conoscere. Diciamo che svolge, attraverso la sua parola, una forma di catechesi o di evangelizzazione in cui va al cuore dei problemi e non si ferma all’apparenza, né tantomeno per accaparrarsi la simpatia della gente e il consenso manipola la verità, mistica o promette cose che non può mantenere. Cristo è chiaro e trasparente nel linguaggio è luce che illumina è maestro che forma e guida alla verità. Egli chiede fedeltà e coerenza. Come d’altra parte leggiamo, in un contesto completamente diverso, relativamente al Vecchio Testamento nella prima lettura della liturgia della parola di oggi, tratta dal Libro di Giosuè. “In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio». Come sempre nella storia e nella vita di ciascuno di noi o di una nazione che un momento in cui bisogna scegliere: la via di Dio o la via di altri dei. Il bene o il male, la sicurezza o l’incertezza, la fede dei propri avi o quella dell’autonomia individuale. Giosuè nel suo ruolo di guida del popolo di Israele, nella sua responsabilità e compito di sapere cosa pensasse quel popolo che Dio si era scelto e che era stato già contrassegnato da tanti benefici dall’Alto, chiede democraticamente, a modi di referendum, di sondaggio di opinione e di vera espressione di voto, cosa vogliono fare se continuare sua strada dell’Alleanza sinaitica oppure altra religione. Il popolo convinto di essere sulla strada giusta afferma senza mezzi termini: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi!”. Una dichiarazione di intenti che dovrebbe aiutarci a capire che quando si fanno delle scelte, bisogna poi mantenere. Non bisogna svendere la propria fede, i propri principi morali, religiosi per rincorrere altri modelli di vita o di religiosità. La parola data a Dio va mantenuta e rispettata, altrimenti diventiamo canne al vento che cambiano bandiere facilmente, senza trovare pace a nessuna parte. Le scelte fatte con convinzioni vanno mantenute a costo di grossi sacrifici e rinunce.  Ci aiuta in questo discorso il testo della lettera agli Efesini che ascoltiamo oggi come secondo brano biblico della liturgia della parola, con il riferimento alla sacralità del matrimonio e della famiglia. Tema molto attuale e dibattuto ai nostri giorni, falsamente interpretato da chi non vuole entrare nella logica dell’amore, del rispetto, della collaborazione che sottostà ad ogni scelta di vita coniugale e familiare. Di fronte alla crisi delle nostre famiglie, a tanti fallimenti nella vita coniugale, questa parola ci viene in aiuto e ad illuminarci perché possiamo tutti, a diverso titolo e grado, collaborare per il recupero della dignità del matrimonio, della famiglia, della donna, dei figli e dell’uomo. “Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!”. La dignità del matrimonio è evidenziata nell’analogia con la Chiesa e con la sua struttura. All’interno dell’uno e dell’altra deve circolare la carità e l’amore. Le regole sì, le leggi pure, ma alla base di tutto ci deve essere l’amore, la carità, quel sottomettersi l’uno all’altro che è indice di umiltà, volontà di collaborare per il bene della famiglia, senza presunzioni, arroganze, superbie, sopraffazioni. Consiglio a coniugi che vivono insieme, a quelli che sono in fase di separazione e che si sono spostai in chiesa con il sacramento nuziale di valutare attentamente queste parole prima di assumere qualsiasi decisione soprattutto se porta allo sfascio della famiglia e se nella famiglia ci sono bambini e minorenni. La sacralità e la dignità del matrimonio e della famiglia vanno sempre salvaguardate, tranne il caso in cui il sacramento non c’è mai stato, per cui l’atto posto in essere è nullo, ed è nullo perché davvero mancano i presupposti per essere vero.

Sia questa la nostra preghiera che eleviamo al Signore dal profondo del nostro cuore: “O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché fra le vicende del mondo
là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia”.

Signore facci assaporare la gioia di essere uniti, di essere in amici, di superare le incomprensioni, le divisioni, le lotte e questo in ogni luogo, m soprattutto nella famiglia, ove, oggi, maggiormente si avverte la fatica e il peso di continuare nel cammino intrapreso, promettendo amore eterno davanti a te. La vera gioia su questa terra è vivere vicino a Te Signore ed essere in pace con la nostra coscienza e con tutti.

 

Il commento della parola di Dio di domenica

Tredicesima domenica del tempo ordinario

 

28 giugno 2009

 

La bambina riportata in vita

 

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XIII domenica del tempo ordinario e il vangelo ci parla di una bambina riportata in vita da Cristo, chiamato al capezzale della stessa dal suo genitore, afflitto ed angosciato dalle condizioni di salute disperate in cui si trova la sua creatura. Il Vangelo di Marco che ci racconta il fatto è molto preciso, dettagliato e circostanziato nel riportare l’antefatto, il fatto e il post-fatto. Gairo, va da Lui perché salvi la sua figlia che sta morendo; mentre sta informando il Maestro della situazione estremamente delicata giunge la notizia che la bambina è morta. Di questi tempi con cellulari e sistemi moderni di informazione sarebbe arrivata in tempo reale la ferale notizia, come tante ne arrivano tutti giorni e purtroppo solo queste, dimenticandosi anche delle belle e buone notizie che ci sono; invece è necessario un messaggero di morte in questo caso per informare dell’avvenuto. A questo punto non c’era null’altro da fare che esprimere le condoglianze a Gairo e ripromettersi di una visita di umana pietà nella casa del defunto. Invece, Gesù, nonostante che la notizia sia certa e di fonte attendibile si reca ugualmente alla casa della morta per rendersi personalmente conto di quanto sia successo. Nell’andare verso questo luogo di morte e di dolore, Gesù guarisce un’altra persona, una donna affetta da emorragia  da 12 anni e che tra tanta folla, per la fede che ha nel potere taumaturgico del Signore, toccando solo il mantello di Gesù ottiene la guarigione. Dopo questo ulteriore gesto d’amore di Cristo verso una donna sofferente, Gesù arriva alla casa della bambina morta e subito dice che non è morta, ma dorme. Prepara, in poche parole, le persone che sono presenti nel luogo al mistero della risurrezione. Ma come in questi e in altri casi la fede è talmente labile dei presenti che lo deridono, lo prendono in giro. Ma quello che Gesù sta per fare lo sa benissimo a dimostrazione della sua divina potenza, ma soprattutto per educare i suoi discepoli ad accettare la vita oltre la stessa vita, a guardare l’esistenza umana nell’orizzonte dell’eternità. La bambina viene riportata e richiamata alla vita, perché i tanti scettici e dubbiosi lì presenti si ricredano e ammettano che a Dio è tutto possibile; mentre agli uomini tutto è impossibile se Dio non interviene, sostiene ed assiste il suo cammino. La bambina di fatto viene rianimata (qualcuno potrebbe dire che siamo di fronte ad una morte apparente, secondo la scienza dubbiosa ed incerta di ieri, di oggi e di sempre e sminuire il miracolo; oppure di coma temporaneo da cui riemerge la fanciulla) e questo è il dato di fatto, la notizia certa dopo la certezza che la bambina era morta.  Gesù le fa dono della rinascita fisica, ma soprattutto della rinascita spirituale. Dopo averla riportata alla vita raccomanda ai presenti di darle da mangiare. E’ evidente l’invito a dare il necessario alla sua alimentazione corporea, ma anche altrettanto evidente è il riferimento al sostegno spirituale e quindi all’eucaristia di cui necessita la bambina. Questa fanciulla come tutti gli esseri umani ha bisogno di Cristo e del suo pane spirituale, senza il quale si muore di inedia interiore. “In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

Questo Cristo al quale crediamo è il Dio della vita e non della morte. Un Dio che anche in questo miracolo della vita ridata ad una fanciulla ci porta al senso più vero della nostra esistenza terrena e della nostra fede.

Questo aspetto lo evidenzia in modo chiaro il primo brano della parola di Dio di questa domenica, tratto dal Libro della Sapienza. Uno dei testi più belli e significativi dell’A.T. riguardante l’immagine di Dio. “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono”. Noi siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio, Dio ci ha pensato e posto in essere per la vita. La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, fonte di ogni morte e dolore per l’umanità. Ma Cristo ha vinto la morte con la sua risurrezione dai morti e ci ha preparato un posto nel suo regno di luce e di felicità eterna. In prospettiva di questa felicità, dobbiamo impegnarci nella quotidianità a costruire la nostra futura salvezza con le opere di bene. La carità, il servizio disinteressato verso i fratelli, soprattutto se bisognosi e in necessità di qualsiasi genere ci chiede un supplemento di donazione e generosità, che non siamo sempre disposti a dare. Non si tratta di rinunciare a tutto quello che è pure nostro diritto e sono nostre reali necessità economiche, interiori e spirituali, ma di mettere altri nella condizione di sopravvivere, meglio se fosse nella condizione di vivere con dignità di uomo. La carità ci deve sostenere nelle opere di bene come ci ricorda l’apostolo Paolo, oggi, nel testo della seconda lettura della parola di Dio, tratta dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi. “Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».

Sia questa la nostra preghiera di ringraziamento a Dio per tutti i benefici che ci concede in ogni momento della nostra vita: “Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me. Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa”. Non si tratta solo del riferimento alla morte, ma spesso tocchiamo il fondo della fossa con l’abbrutimento morale, con il cedere alle tentazioni e alle passioni della carne, determinando in noi una morte più grave della stessa morte corporale, quella spirituale che estingue in noi il desiderio di Dio e del bene. Chiediamo al Signore che ci liberi dalla tentazione di abbrutimento totale nella nostra esistenza temporale che avrà un termine e certamente avrà un appuntamento con la morte ma anche con il giudizio di Dio. Ecco perché possiamo con semplicità dire e pregare cosi: “O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità”. Amen