La parola di Dio di Domenica 13 settembre

Ventiquattresima domenica del tempo ordinario

 

13 settembre 2009

 

Signore Gesù, Tu sei il nostro Salvatore.

 

di padre Antonio Rungi

Celebriamo oggi la XXIV domenica del tempo ordinario e al centro della nostra riflessione c’è il testo del Vangelo di Marco con la celebre confessione della divinità di Cristo da parte di Pietro, capo del collegio degli apostolo, e parimenti l’assegnazione del compito a Pietro da parte di Gesù di guidare la chiesa. Stiamo a Cesarea di Filippo e qui avviene questo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli. Il Maestro, già a conoscenza di tutto, chiede agli apostoli cosa pensi la gente di lui. Nel testo del Vangelo di Marco sono riportate alcune definizioni del Cristo o identificazioni con personaggi biblici ben precisi dell’AT e NT. Ma Gesù vuol sapere esattamente qual è il pensiero degli apostoli nei suoi riguardi, se effettivamente hanno compreso chi fosse. La riposta di Pietro è eloquente: tu sei il consacrato l’Unto del Signore. Il Cristo, il Messia. E’ la confessione della fede di Pietro e del gruppo dei discepoli di Cristo Salvatore. “In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà». Dal testo del vangelo è comprensibile quale conseguenze ne deriva il fatto che uno accetti Cristo come redentore. La conseguenza è la sequela, è l’impegno per un mondo nuovo capace di uscire dall’individualismo e dall’egoismo e di assumersi il peso delle responsabilità, che sono espresse dalla croce. La sequela di Cristo non ammette compromessi, essa chiede una disponibilità totale alla volontà di Dio fino alla croce e alla morte. Siamo capaci di questa sequela? Sappiamo davvero metterci in cammino con Cristo sulla via del Calvario? O piuttosto pensiamo ad un Dio che è solo gioia, benessere, assenza di dolore, un essere superiore capace di soddisfare tutte le nostre esigenze materiali. La croce a cui fa accenno Cristo e che deve essere accettata e porta non può essere strumento di scandalo o di rifiuto, ma di gioia e di liberazione. La via della Croce l’ha seguita prima Lui e dopo di Lui tutti coloro che seriamente vogliono fare un discorso di fede cristiana, di abbandono in Dio. Non si tratta solo nella fede di riconoscere Cristo come l’inviato del Padre, ma di testimoniarlo con una degna condotta di vita cristiana che vuol dire capacità di amare fino al sacrificio supremo.

La figura del Cristo umiliato e sofferente, il Servo dolente delineato nei suoi scritti dal profeta Isaia la comprendiamo bene alla luce del testo della prima lettura di oggi, in cui si parla appunto delle sofferenze del futuro messia di Israele. Esattamente quello che si è verificato nella vita di Cristo. E ciò è un’ulteriore conferma che Cristo vero uomo e vero Dio è davvero il salvatore annunciato dai profeti anche sotto le vesti dell’uomo dei dolori. “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi  strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”.

Leggere questo testo alla luce dell’evento della Croce assume un significato molto preciso riferito a Cristo Crocifisso. La sofferenza di Cristo non è stata vana, anche se la è stata la cattiveria dell’umanità a schiacciare solo nel corpo la persona di Cristo, ad umiliarlo, a condannarlo a morte e a vederlo morire su un patibolo tra i più abietti del tempo. La dignità del Crocifisso, del Servo sofferente di Jahvé è un forte monito a ciascuno di noi per accettare di buon grado il dolore e la prova, ben sapendo che ogni sofferenza non è vana né per la propria vita, né per quella degli altri. La sofferenza più della gioia ha valore di eternità e di vita oltre la stessa sconfitta e debolezza. Apprendere dal Crocifisso il linguaggio dell’amore e della solidarietà è quanto ci viene detto in modo molto chiaro dall’Apostolo Giacomo nel brano della sua lettera che ascoltiamo come seconda lettura della parola di Dio oggi. Il crocifisso si identifica con i poveri, gli emarginati, i sofferenti e gli umiliati della terra. Chi vuole rimuovere Cristo Crocifisso non solo dai locali pubblici, come sempre più assurdamente viene chiesto in varie parti della nostra Patria, vuol dire che vuole rimuovere dalla sua coscienza la realtà dell’amore, del dolore, dell’oblazione, del sacrificio e della solidarietà. E’ come prendere i poveri e buttarli via da un progetto do società ove solo i ricchi contano e solo chi vive bene ha diritto di cittadinanza. San Giacomo apostolo un scatto di orgoglio per quanti si professano cristiani e dicono di avere fede. Uno scatto di orgoglio che si traduce in opere ed azioni di vera carità e di concretezza nell’operare per gli altri. “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».

E’ evidente che la fede in Cristo chiede un impegno concreto e fattivo per gli altri. Non basata solo proclamare la fede, va vissuta. E la fede senza la carità-speranza è una fede improduttiva per la salvezza eterna, ma anche nel tempo. Solo chi partendo dalla fede agisce per amore degli altri avrà una corrispondenza tra il dire e il fare. Spesso parliamo molto, ma agiamo poco, parliamo bene ed agiamo molto male, contrariamente a quello che diciamo di far fare agli altri. Si mettono i pesi sulle spalle degli altri e noi non siamo in grado di portarne neppure uno tra i più leggeri di questi pesi. Dobbiamo concretamente aiutare chi si trova nel bisogno. E quanti hanno le risorse necessarie se non lo fanno renderanno conto a Dio del loro operare a favore esclusivo di se stessi senza considerare i bisogno fondamentali degli altri come il cibo.

Sia questa la nostra preghiera di oggi che eleviamo al Signore con forti proposito di vero cambiamento interiore ed etico: O Padre, conforto dei poveri e dei sofferenti,
non abbandonarci nella nostra miseria: il tuo Spirito Santo ci aiuti a credere con il cuore, e a confessare con le opere che Gesù è il Cristo, per vivere secondo la sua parola e il suo esempio, certi di salvare la nostra vita solo quando avremo il coraggio di perderla”.


La parola di Dio di Domenica 13 settembreultima modifica: 2009-09-12T09:45:51+02:00da pace2005
Reposta per primo quest’articolo