DOMENICA

P.RUNGI. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO – DOMENICA 16 GENNAIO 2022

RUNGI-VERDE

II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO –ANNO C

DOMENICA 16 GENNAIO 2022

Gesù a Cana compie il suo primo miracolo: l’acqua è cambiata in vino.

Commento di padre Antonio Rungi

Dopo il periodo dell’Avvento e di Natale ritorniamo nella liturgia al tempo definito ordinario. Oggi, 16 gennaio 2022, infatti, celebriamo la seconda domenica di questo tempo dell’anno liturgico –Ciclo C – e al centro della nostra riflessione ci sono tre testi biblici che ascolteremo partecipando alla santa messa.

La prima lettura tratta dal profeta Isaia ci chiede di parlare con coraggio su alcune questioni importanti come quella della giustizia. “Per amore del mio popolo –scrive profeta Isaia- non tacerò”. Non sarà omertoso sulle ingiustizie, sulla malvagità, sull’immoralità.

Quindi per amore del popolo bisogna avere il coraggio di denunciare, soprattutto coloro che hanno la responsabilità di guida a tutti i livelli e che non operano in modo giusto e corretto. Bisogna dire la verità ed indirizzare verso il bene il popolo di Dio e l’umanità. Coprire il male, le ingiustizie, tutto ciò che è negativo significa compromettersi con il maligno. Da qui la necessità di denunciare tutto ciò che non è retto agli occhi di Dio e che per amore della verità bisogna far uscire fuori per estirparlo in modo definitivo.

La seconda lettura, tratta dalla prima lettera di San Paolo Apostolo ai Corinzi, parla di carismi, cioè dei doni che il Signore ha fatto a ciascuno di noi, mediante i quali è possibile costruire una chiesa nell’unità, nell’armonia e nella effettiva collaborazione tutti i membri della stessa.  Doni che, come ben sappiamo, ci vengono dall’alto e che dobbiamo mettere a servizio degli altri, senza alcuna presunzione di essere insostituibili e indispensabili.  I nostri carismi sono in funzione del corpo mistico di Cristo, per cui dobbiamo dedicarci con tutte le nostre forze a servizio a del bene comune, portando il nostro contributo. In questo modo diamo una mano alla crescita della chiesa, dell’umanità e della socialità. D’altra parte, i carismi sono sempre finalizzati al bene e non certamente al male. Non a caso sono doni dello Spirito Santo e come tali mettono insieme le varie qualità personali per l’armonia di intenti, di progetti e di finalità da raggiungere mediante la professione dell’unica fede.

Passando al Vangelo di questa domenica, tratto da san Giovanni, esso ci informa di come, quando e come è avvenuto il primo miracolo di Gesù. Infatti Giovanni evangelista porta a nostra conoscenza quanto è successo alle nozze di Cana, dove una coppia appena sposata sta festeggiando insieme agli invitati, tra cui c’era Gesù, Maria e i discepoli del divino Maestro. Durante questo banchetto nuziale, proprio nel momento più importante del pranzo, viene a mancare il vino ai commensali.

Siamo in un pranzo di nozze e il banchetto nuziale è stato sempre interpretato come il banchetto eterno a cui partecipiamo in questo mondo con il ricevere la santa Comunione e quello eterno con l’ingresso nel regno dei cieli, con lo sperimentare la gioia e l’armonia e per tutta l’eternità. Da qui il valore eucaristico della trasformazione dell’acqua in vino.

Un ruolo importante ha la Madonna in questo miracolo. Ella intuisce con la sensibilità di donna e madre che quella coppia di sposi è in difficoltà già all’inizio del suo cammino matrimoniale. Maria vuole evitare ad essi una brutta figura, dato che i commensali sono immersi nella consumazione dei cibi e delle bevande. Ella si rivolge a Gesù e gli fa osservare che il vino è finito e gli sposi devono essere aiutati in quel momento di difficoltà. Ma Gesù invece di provvedere subito replica a sua madre con queste parole: “Donna che ci posso fare? Non è ancora giunta la mia ora”. Se volessimo esaminare questa espressione potrebbe essere intesa come una presa di distanza di Gesù dalla richiesta della Madre. In realtà non è così. In questa risposta domanda  c’è tutto un significato particolare che attiene al mistero e della rivelazione di Cristo all’umanità e soprattutto al mistero pasquale che verrà portato a compimento nella morte e risurrezione di Gesù.

Egli, infatti, con queste parole vuol dire che non è giunto ancora il momento della sua glorificazione.

Il primo miracolo di Gesù è chiaro invito a trasformarci in lui nel mistero della pasqua, che è passaggio alla vita nuova secondo lo spirito.

Non a caso la Madonna, più che mai certa che Gesù doveva e poteva intervenire per salvare quella famiglia, dice agli inservienti fate quello che egli vi dirà.

E infatti gli inservienti prendono sei giare, che stavano lì per le abluzioni, le riempirono d’acqua e le portano a Gesù. Dopo un attimo quell’acqua diventa vino e il miracolo della trasformazione, della modifica sostanziale diventa effettiva.

Il maestro di tavola non sapeva affatto quello che era successo, assaggiando il vino si congratula con gli sposi che, a loro volta, non erano a conoscenza di quando era successo per opera di Gesù, e quando si sentono fare i complimenti per l’ottimo vino servito alla fine del pranzo sono contenti. D’altra parte si sa e da sempre che tutti servono vino più scadente o annacquato alla fine dei pranzi, invece qui succede il contrario.

Cosicché il miracolo chiesto da Maria è ottenuto completamente e Gesù accontenta la richiesta della mamma, ben sapendo che non poteva mai dire di no a Colei che con il suo sì aveva permesso il suo ingresso, con la natura umana, nella storia dell’umanità.

Con il racconto di questo miracolo abbiamo la certezza che Maria Santissima è sempre attenta ai nostri bisogni e si fa portatrice delle nostre istanze presso il suo Figlio, ottenendo sempre da Lui ciò che è veramente necessario per noi. Sia questa la nostra preghiera oggi: “O Maria Madre dell’attenzione, Madre del discernimento dei bisogni dei tuoi devoti, presenta a Gesù le cose più intime del nostro cuore, della nostra vita, perché Egli possa concederci tutto ciò che è necessario per il nostro e altrui bene materiale e spirituale, come ha fatto alle nozze di Cana aiutando, a loro insaputa, due giovani sposi in difficoltà. Amen.

LA RIFLESSIONE DI PADRE RUNGI PER L’EPIFANIA 2022

padre antonio-presentazione

Epifania del Signore

6 Gennaio 2022

L’arrivo dei Magi alla grotta di Betlemme

Commento di padre Antonio Rungi

Oggi ricordiamo nella liturgia l’arrivo dei Magi a Betlemme e come viene menzionato nel vangelo di Matteo della messa del giorno dell’Epifania “alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».

Chi erano i magi? Tutti abbiamo da piccoli avuto la spiegazione di questi personaggi biblici che non erano altro che sacerdoti orientali, osservatori delle costellazioni, dei veri scienziati e scrutatori dei cieli, che sono classificati come astronomi e filosofi Appartenenti alla casta sacerdotale persiana erano sapienti venuti dall’Oriente.” I Re Magi, venivano – come alcune fonti storiche accreditate ci attestano – dalla Persia. Altrettanto certo vi è un legame molto stretto fra le due culture e religioni: l’ebraismo e lo zoroastrismo. Tra l’altro, va ricordato che all’epoca era presente in Persia una forte comunità ebraica, derivante dalla Diaspora Babilonese.

D’altra parte non possiamo dimenticare che la lingua più parlata in Palestina, a seguito proprio della diaspora e del rientro di un folto numero di ebrei (396 a.C), era l’aramaico, lingua di origine persiana, parlata dallo stesso Gesù.

In merito a questi misteriosi personaggi, abbiamo una testimonianza d’eccezione, quella del navigatore ed esploratore Marco Polo che nel 1270 viaggiando nella zona della Persia relazionava in merito a tale fatto: “In Persia c’è una città che si chiama Saba, dalla quale partirono i tre Re che andarono ad adorare Dio quando nacque. In questa città sono seppelliti i tre Magi in una bella sepoltura, e sono rimasti ancora tutti interi, con barba e con i capelli. Uno si chiamava Beltasar, l’altro Gaspar, il terzo Melquior. Marco Polo domandò più volte agli abitanti di quella città di quei tre re: nessuno gli seppe dire nulla, se non che erano seppelliti lì da molto tempo”.

Sempre relativamente ai Magi, è ricordato che nel XII secolo, dopo la guerra condotta da Federico Barbarossa contro il comune di Milano, il cancelliere imperiale Rainaldo di Dassel decise di sottrarre alla città lombarda il suo tesoro più prezioso: i corpi santi dei tre Magi. Le spoglie mortali erano conservate in un sarcofago nella basilica di Sant’Eustorgio e l’arcivescovo li fece trasferire nella cattedrale di Colonia, dove tuttora si trovano.

I corpi dei Magi erano giunti a Milano nel lontano 345, quando Sant’Eustorgio li portò con sé da Costantinopoli. Solo nel 1903 vi ritornarono, anche se non “completamente”. Furono restituite le reliquie di due fibule, una tibia e una vertebra. Queste sono collocate accanto alla loro presunta tomba, posta nel transetto della basilica romanica di Sant’Eustorgio, e più precisamente nella cosiddetta “cappella dei Magi”.

Per risalire ai nomi dei Re Magi, bisogna ricorrere a uno dei vangeli apocrifi, quello dell’Infanzia Armeno, che ci dice: “I re magi erano tre fratelli: il primo Melkon, regnava sui persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli arabi. Essendosi uniti insieme per ordine di Dio, arrivarono nel momento in cui la vergine diveniva madre”.

Sempre nel Vangelo apocrififo detto Arabo dell’Infanzia, si legge testualmente: “Dei Magi vennero a Gerusalemme, come aveva predetto Zaratustra, portando con sé dei doni”.

Tra l’altro, bisogna dire che i loro nomi non sono casuali: Melchiorre sarebbe il più anziano e il suo nome stesso deriverebbe da Melech, che significa Re; Baldassarre deriverebbe da Balthazar, mitico re babilonese, quasi a suggerire la sua regione di provenienza; Gaspare, per i greci Galgalath, significa signore di Saba.

Culture che s’intrecciano, biografie che si uniscono, tutte nella contemplazione di Gesù Bambino.

Ritornando al testo del Vangelo, quello riconosciuto e ispirato, scritto dall’evangelista Matteo che oggi accompagna la celebrazione della parola di Dio nella solennità dell’Epifania, sappiamo che questi tre saggi, sapienti appena giunti a Gerusalemme si rivolsero al Re Erode, il quale quello che aveva riferito della nascita del Re dei Giudei “restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo”. Venuto a conoscenza della nascita del suo successore e per lui usurpatore, si informò accuratamente. Gli studiosi della scrittura citavano i testi dei profeti che avevano da secoli annunciato il futuro Messia di Israele, indicando il villaggio della nascita di Lui: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta. Pur essendo una piccola realtà abitativa, circa 1000 abitanti al tempo di Gesù, essa viene esaltata dai profeti, per il fatto che proprio in essa inizierà una storia che cambierà le sorti dell’umanità: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele». Chiaro riferimento alla nascita di Gesù Bambino.

Il successivo intervento da parte di Erode il Grande, fu quello di chiedere, segretamente, ai Magi, il tempo preciso in cui avevano visto sorgere la stella che li conduceva a Betlemme. Per accertarsi della veridicità dell’informazione li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».

Una strana richiesta quella di Erode. Aveva tutto il potere e tutti gli strumenti di bloccare i Magi in Gerusalemme, accertarsi direttamente su quanto da essi avevano narrato, ed invece autorizza quel pellegrinaggio dei Magi verso Betlemme, che da Gerusalemme distava e dista circa 10 Km, percorribili oggi in mezz’ora di viaggio, mentre al tempo dei Magi con cammelli e dromedari ci voleva qualche oretta di viaggio in assoluta tranquillità.

Tutto questo racconto fa pensare chiaramente al mistero della manifestazione di Gesù Cristo a tutto il mondo, quale salvatore e redentore, senza esclusioni di persone, culture, religioni, razze e provenienze.

Non a caso si dice Pasqua-Epifania e in questo giorno nella liturgia si legge l’annuncio della Pasqua, che quest’anno 2022 si celebra domenica 17 aprile e indica la struttura temporale di tutto l’anno liturgico con le varie ricorrenze e celebrazioni più importanti per la cristianità.

Riornando al testo del Vangelo, i Magi avuto il permesso di circolare, il visto d’ingresso, con passaporto verbale della loro identità o forse anche con qualche documento scritto, partirono alla volta di Betlemme. “Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”.

Sta tutto in questo racconto la celebrazione dell’Epifania del Signore che chiaramente, al dà della storia, della leggenda, dice una cosa molto importante ai credenti e cristiani di oggi e di sempre.

La parola “Epifania”, dal greco antico, ἐπιφαίνω, epifàino (“mi rendo manifesto”), significa, infatti, “mostrare”, e come verbo riflessivo significa “mostrarsi”.

Per noi cristiani è la solennità che vede protagonisti – oltre, ovviamente la Sacra Famiglia – i Re Magi, questi misteriosi “personaggi”, venuti dall’Oriente.

E’ il solo Vangelo di Matteo a raccontarci di questo evento messianico. Questo, si limita a parlare di “alcuni” Magi, senza precisarne il numero.

Gli unici “numeri” citati sono quelli in riferimento ai doni per il Bambino Gesù: oro, incenso e mirra.

Leggiamo infatti nel vangelo dell’Epifania che “nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».

Se vogliamo sintetizzare in poche parole la festa di oggi, il suo significato religioso, spirituale e soteriologico, lo possiamo trovare nella preghiera della colletta della messa di questo giorno, nella quale preghiera con queste parole: “O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo Figlio unigenito, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la bellezza della tua gloria”.

L’Epifania è contemplazione di Cristo Salvatore, mediante la fede; è testimonianza di Cristo mediante l’amore, espresso dai doni dei Magi; è speranza nella salvezza finale che per tutti si realizzerà a conclusione del nostro pellegrinaggio terreno.

Come i Magi dall’Oriente, ognuno di noi deve uscire dalle presunte sicurezze e certezze, come ci ha fatto capire la pandemia, per incamminarci sulla strada di Dio, condotti come i Re Magi da una stella sicura e certa che mai scomparirà, anche se siamo in pieno giorno o immersi nelle notti più buie della nostra esistenza, fatta di sofferenza e peccati. E questa stella cometa si chiama Cristo. Incontrarlo davvero nel profondo del nostro cuore è la vera salvezza terrena ed eterna per ciascuno di noi e per il mondo intero, che brancola ancora oggi nel buio e non solo a causa della pandemia, ma per altri e più gravi problemi che allontano l’umanità da Dio e dal vero ed eterno Paradiso.

SECONDA DOMENICA DOPO NATALE – 2 GENNAIO 2022

IMG-20181002-WA0040

II Domenica dopo Natale

Domenica 2 gennaio 2022

In Cristo Verbo incarnato, noi tutti siamo diventati luce per gli altri

Commento di padre Antonio Rungi

Al secondo giorno del nuovo anno 2022, siamo in pieno tempo natalizio, con il costante richiamo della parola di Dio al mistero del Verbo incarnato che celebriamo con data fissa il 25 dicembre di ogni anno. Oggi la parola di Dio di questa seconda domenica dopo Natale, ci invita a riflette sul tema della sapienza incarnata, che è Cristo, la parola di Dio, fatta carne nel grembo verginale di Maria per indicarci così il modo di intendere e vivere la vita nella prospettiva e nella dimensione di Dio che si è fatto bambino. Un bambino che come tutti i bambini del mondo, in carne ed ossa, appena nato non dice una parola, ma la sua vita dice tutto a partire da momento in cui viene alla luce, anzi viene concepito nel grembo di Maria Santissima. La prima lettura di oggi, tratta dal libro della Sapienza ci indica esattamente questo percorso ed itinerario di fede e di speranza nel Verbo fatto carme. La sapienza fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria. Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria, in mezzo al suo popolo viene esaltata, nella santa assemblea viene ammirata, nella moltitudine degli eletti trova la sua lode e tra i benedetti è benedetta, mentre dice: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti”. Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno. Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion. Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso dimora». Il mistero del Natale è racchiuso in queste parole profetiche del libro sapienziale per eccellenza che oggi ci viene proposto come testo di riflessione iniziale della parola di Dio. Alla prima lettura fa eco il testo del vangelo di oggi che come quello della messa del giorno di Natale è il prologo del Vangelo di San Giovanni. Si ritorna oggi a ripercorrere tutto l’iter del Figlio di Dio, seconda persona della santissima Trinità, l’unica delle tre dell’Unico Dio, che ha assunto la natura umana e quindi ci ha rivelato la natura stessa di Dio. Il prologo di san Giovanni è sicuramente uno dei testi evangelici e biblici più letto, meditato, studiato ed applicato alla vita Trinitaria e alla vita cristiana, perché in questo testo scritto dell’evangelista teologo c’è tutto il cuore e l’esperienza del discepolo prediletto del Signore che ha potuto così fissare nel suo vangelo gli attributi di Dio che Cristo ha rivelato e che sono: eternità, onnipotenza, luce, creatore redentore, salvatore, perfetto uomo e perfetto Dio. Questa Dio che è tutto e in tutto non è lontano da noi, ma è vicino a noi, al punto tale che il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Una abitazione temporanea nel tempo previsto di portare a compimento l’opera redentiva, ma una abitazione stabilizzata in eterno nel suo Regno che non ha tempo, non ha limiti, non si restringe negli spazi ristretti del mondo e del contingente, ma che è aperto all’infinito e all’amore senza fine. Queste verità di fede hanno un evidente risvolto nella vita di ogni cristiano che nella sua libera adesione a Cristo deve pure comprendere qual è il contenuto della sua fede e come ci si deve rapportare ad esso in termini di coerenza e fedeltà. Nel testo del prologo la figura di Giovanni Battista citata in modo così esemplare ci può aiutare a comprendere in che modo noi dobbiamo rapportarsi al Messia, al Salvatore senza falsificare la sua identità ma riconoscendo per quello che Egli effettivamente è: la luce vera che illumina ogni uomo e a questa luce bisogna dare testimonianza con la propria vita. Ecco perché San Paolo nel brano della lettera agli Efesini di oggi ci invita a capire la nostra vocazione ed agire di conseguenza in base alla nostra identità di credenti in Cristo. Lui un sincero convertito, integerrimo assertore delle verità della fede cristiana ci ricorda “che Dio ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”.

La nostra carta di identità, il nostro biglietto di presentazione e se vogliamo in nostro green-pass della religione o il certificato verde della nostra speranza in Cristo sta in questo brano cristologia pura e semplice. Partendo da questa identità spirituale ed ontologica di ogni cristiano, giustamente san Paolo,  avendo avuto notizia della  fede dei cristiani di Efeso nel Signore Gesù e dell’amore che essi nutrivano verso tutti i cristiani, qui definiti santi, continuamente rendo grazie per loro ricordandoli tutti nelle sue preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, dia ad ognuno di loro uno spirito di sapienza e di rivelazione, al fine di ottenere una profonda conoscenza di Gesù Cristo. In poche parole conoscere, amare e servire il Signore, in quanto tutti coloro che sono venuti alla fede hanno acquistato un tesoro non in termini materiali, ma spirituali che nessuno potrà mai togliere a chi si immerge nella conoscenza approfondita di Cristo. E conoscere biblicamente significa amare e servire per essere degni della vita senza fine.

 

DOMENICA XXII – 29 AGOSTO 2021- COMMENTO DI PADRE RUNGI

IMG_20200310_002622

Domenica XXII del Tempo ordinario (Anno B)

Domenica 29 agosto 2021

La contaminazione del cuore umano

Commento di padre Antonio Rungi

Spesso ci domandiamo se un cibo è contaminato, se l’acqua che beviamo venga da una sorgente naturale o attraversando terreni e aree alla fine si contamina e noi beviamo acqua inquinata.

Ci preoccupiamo, oggi più che mai rispetto al passato, di questo problema. Noi che viviamo nel mondo del benessere e dell’assicurazione di ogni cibo, bevanda e sostegno alimentare e ci dimentichiamo di chi non ha nulla di tutto questo, compresa la mancanza di libertà.

Il vangelo di questa XXII domenica del tempo ordinario, ultima del mese di agosto 2021, tratto dall’evangelista Marco ci offre l’opportunità di riflettere su un tema molto caro ai farisei e scribi del tempo di Gesù, ovvero sulla questione del puro e dell’impuro.

E si parte nella discussione dal lavarsi le mani ed altro prima di iniziare a mangiare. Parliamo oggi delle celebri abluzioni che presso i giudei erano all’ordine del minuto e del secondo, quasi se fosse una mania.

Quello che ci è capitato in questi mesi anche a noi, in seguito alla pandemia.

Fissati nel lavarci le mani e sanificare ogni cosa, abbiamo vissuto e viviamo nel terrore. Giusto da un punto di vista igienico sanitario, ma non può diventare oggetto di discussione da un punto di vista religioso e morale. Lo diventò invece al tempo di Gesù.

Abbiamo, infatti, ascoltato che si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. E l’argomento messo in campo da loro per contestare l’operato del maestro e del gruppo dei discepoli è subito espresso. Gli osservanti delle norme igieniche avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate, subito fanno osservare a Gesù: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Quali erano queste norme igienico sanitarie? Eccole elencate nel testo del vangelo: lavarsi accuratamente le mani, prima di mangiare; fare le abluzioni quando si tornava dal mercato; infatti a maggior ragione non si poteva mangiare senza aver fatto prima le abluzioni; lavare bicchieri, stoviglie,  oggetti di rame e letti.

Norme di quotidiana vita umana e sociale che diventano oggetto di discussione per attaccare Gesù e i discepoli, alcuni dei quali non praticavano queste cose, pure buone da farsi.

A questo argomento di poco conto, Gesù  replica loro che battevano molto sull’osservanza di queste norme, con parole molto dure: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.

Infatti queste norme di igiene familiare e collettiva non sono norme emanate da Dio come i comandamenti.

E Gesù subito fa risaltare questo stridente contrasto: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». In poche parole, Gesù vuole richiamare alla loro attenzione ciò che davvero conta davanti a Dio.

A questo punto fa una cosa molto normale e semplice, per una persona ormai conosciuta ed accredita come maestro di Israele.

Chiama di nuovo la folla e fa questo discorso, anzi istruisce una vera e propria catechesi sul significato del puro e dell’impuro in una visione cristiana della vita: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza”.

Gesù elenca una serie di comportamenti antireligiosi ed antimorale oltre che antisociali. Sono esattamente 12 e non si tratta di un numero a caso, ma questo numero fa riferimento alla storia del popolo di Israele ed esattamente alle 12 tribù che lo costituiva prima di Cristo.

Dopo l’elencazione del cattiverie, c’è anche la spiegazione da parte di Gesù. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo, in quanto sono frutto della libera decisione dell’uomo di farle e di compierle.

Quando il cuore è contaminato dal male, fa tutto e più di questo; ma quando è sanato dall’amore e dalla grazia di Dio, il cuore dell’uomo opera solo il bene ed agisce per il bene.

In definitiva, non dobbiamo confondere il materiale con lo spirituale e il morale e l’etico. Il mangiare senza lavarsi le mani non è peccato, ma è cosa buona farla, soprattutto in questo tempo di pandemia; ma elaborare nella mente e nel cuore progetti di morte e di distruzione della vita, della dignità e della onorabilità altrui questi si che sono peccati e reati che vanno perseguiti, condannati e fatti scontare con punizioni adeguate.

Di norme di ben altra natura parla la prima lettura di oggi e sono espresse attraverso la voce di Mosè che si rifà a quanto ricevuto direttamente da Dio nel suo dialogo con “Colui che è”.

E si tratta dei dieci comandamenti, delle Tavole delle Legge, della Torah. «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo”.

Norme che ben conosciamo e che sono la base di partenza di ogni fede e religione autentica, perché sono le leggi fondamentali che regolano il rapporto tra l’uomo e Dio, l’essere umano con i suoi simili e con il creato. Non aggiungere altre norme umane quindi e di altro genere, come purtroppo poi si è fatto, appesantendo la legislazione degli stati e della stessa Chiesa e facendo diventare peccati ciò che non lo è affatto.

A sanare questo conflitto tra la legge divina e la legge umana, tra la legge naturale e quella civile, è la parola di Dio, quella detta da Cristo, come ci ricorda  san Giacomo apostolo nella sua lettera di questa domenica: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature”. Premesso questo da un punto di vista teologico ed ontologico, l’Apostolo ci invita ad accogliere “con docilità la Parola che è stata piantata in noi e può portarci alla salvezza”. Dobbiamo essere di quelli che mettono in pratica la Parola, e non soltanto auditori, illudendo noi stessi e gli altri, facendoci passare per quelli che non siamo.

Di conseguenza, anche per superare una falsa concezione di fede e di religione, San Giacomo afferma con chiarezza espositiva che “religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”.

Sta qui la sintesi del messaggio cristiano: essere vicini ed aiutare gli altri, specialmente gli orfani e le vedove e poi mantenersi puri nel cuore, senza lasciarsi contaminare dal male che il cuore e la mente producono in una visione distorta della storia e della vita, come stiamo constatando in questi giorni e in questo difficile momento della storia dell’umanità.

Sia questa la nostra preghiera e di i veri credenti del mondo che rivolgiamo al Signore con tutto il cuore, mentre nel mondo si alzano venti di guerra e di violenza: “Dio onnipotente, unica fonte di ogni dono perfetto, infondi nei nostri cuori l’amore per il tuo nome, accresci la nostra dedizione a te, fa’ maturare ogni germe di bene e custodiscilo con vigile cura”. Amen.

ITRI (LT). DOMENICA 29 AGOSTO CONFESSION DAY AL SANTUARIO DELLA CIVITA

confession day

ITRI (LT). AL SANTUARIO DELLA CIVITA “CONFESSION DAY” DOMENICA PROSSIMA

di Antonio Rungi

Sarà dedicata prevalentemente all’amministrazione del sacramento della penitenza l’ultima domenica del mese di agosto 2021, al Santuario mariano della Civita. Ù

L’arrivo del pellegrinaggio della comunità itrana, sul cui territorio è sorto il santuario della Civita, intono all’anno mille, porterà in questo luogo centinaia di fedeli che sentiranno, come sempre, la necessità di riconciliarsi con il Signore e con i fratelli. Altri devoti giungeranno da varie altre località del Lazio e della Campania.

Domenica prossima, dalle ore 7,30 del mattino fino alle ore 20 della sera, i padri passionisti, ai quali è affidato il santuario della Civita dal 1985, di proprietà dell’arcidiocesi di Gaeta, come tutti i giorni e soprattutto nelle domeniche e nei tempi forti dell’anno liturgico,  saranno a disposizione dei fedeli che vorranno accostarsi a questo sacramento, a conclusione dell’estate 2021, post lockdown  e nell’imminente ripresa delle attività lavorative e di ritorno ai paesi d’origine. Sono sette i sacerdoti impegnati in questo ministero domenicale che in vari luoghi, adibiti a confessionali, nel rispetto delle norme anticovid, ascoltano i fedeli ed esercitano il ministero della confessione con preparazione competenza, tipica dei missionari della Passione di Cristo.

“Questa speciale giornata dedicata al sacramento e promossa attraverso gli organi di informazione è finalizzata –affermano i padri nel presentare questa giornata – a sensibilizzare i fedeli ad accostarsi con maggiore frequenza e preparazione personale a questo importante sacramento della vita cristiana. A causa della pandemia e in seguito a delle deroghe concesse alla normale amministrazione del sacramento della Confessione, persiste un atteggiamento di distanziamento dalla pratica di questo mezzo di grazia per rappacificarsi con Dio, con gli altri e con la propria coscienza. Come comunità passionista di Itri-Civita, da sempre impegnata su questo fronte dell’apostolato del confessionale, avvertiamo la necessità di sollecitare un maggiore interesse intorno a questo sacramento”.

Da qui, la giornata di domenica 29 agosto 2021, dedicata in particolare alle confessioni. Va tuttavia sottolineato che in tutti i giorni dell’anno e durante la settimana è sempre a disposizione dei fedeli almeno un sacerdote impegnato in prevalenza in questo ministero.

Da 10 anni, questo ministero è assicurato sistematicamente da un sacerdote passionista, che risiede stabilmente al Santuario della Civita.

Fanno da valido supporto gli altri sei sacerdoti passionisti che, specialmente alla domenica, si fanno carico del più consistente lavoro domenicale e festivo al confessionale e si mettono a disposizione dei fedeli per le varie esigenze spirituali, tra cui le benedizioni particolari, gli anniversari vari, le benedizioni delle auto e mezzi trasporto.

Per le confessioni ogni posto diventa buono, in mancanza di spazi adeguati, per amministrare la misericordia di Dio e per chiamare a conversione i peccatori, come si sta verificando, in particolare, n questi mesi estivi del 2021, durante la messa delle ore 19.00, che si celebra all’aperto e alla quale partecipano di norma 300-400 fedeli.

I passionisti che sono a servizio nei confessionali improvvisati hanno davvero molto da lavorare spiritualmente, ma soprattutto riescono a trasmettere ai fedeli che si accostano a questo sacramento la gioia e il sorriso di Dio.

LA LITURGIA DELLA PAROLA DELLA XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

BUON PASTORE - PADRE RUNGI_InPixio

Domenica XI del Tempo ordinario

Domenica 13 giugno 2021

Crescere in santità, senza pretesa di essere i più santi

Commento di padre Antonio Rungi

Dopo il lungo periodo del tempo pasquale e post-pasquale, rientriamo nell’ordinarietà anche per quanto riguarda la liturgia. Celebriamo oggi l’XI domenica del tempo ordinario e il vangelo che abbiamo ascoltato ci introduce nel grande tema, trattato direttamente da Gesù, che è quello del Regno di Dio.

Attraverso parabole, mirate e precise, Gesù insegna alla gente ed ai discepoli il contenuto essenziale della fede da Lui stesso annunciata, testimoniata e trasmessa con i linguaggi più adatti alla comprensione della gente. Questa volta Gesù ci parla del Regno di Dio di come un seme gettato sul terreno e che da piccolo, come era in partenza, diventa poi un grande albero, su cui si possono poggiare e nidificare gli uccelli. Modo di dire per catturare l’interesse della gente su altro e più importante argomento che è il centrale in tutta la narrazione: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?

La domanda posta da Gesù trova una precisa risposta da parte del Maestro: “È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

A cosa voglia alludere Gesù con questa parabola o esempio si comprende alla fine dello stesso discorso, quando l’evangelista Marco afferma che “con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere”.

Quindi Gesù ha principalmente nel suo cuore un intento formativo del gruppo dei discepoli e della gente.

Spiegando e rispiegando le cose, facendo una molteplicità di esempi alla fine un risultato lo avrebbe ottenuto con i suoi discepoli e con quanti ormai sistematicamente si ponevano ad ascoltarlo, affascinati dal suo parlare convincente, rispetto ai maestri del tempio, che non parlavano chiaro e tantomeno meno spiegavano la parola di Dio in modo comprensibile e quindi da poi attuare nella vita.

Gesù proprio perché si doveva far capire dai più piccoli ai più grandi usava un linguaggio accessibile a loro con la speranza che poi potessero imboccare le strade buone e non quelle tortuose che portano alle tenebre e non alla luce. Gesù, quindi, per non far sbagliare i suoi discepoli e seguaci non parlava loro senza parabole, cioè con esempi e riferimenti alla vita pratica e quotidiana accessibile concettualmente dai soggetti preparati culturalmente e quelli meno abituati a masticare di sacra scrittura. Nonostante questo sforzo espositivo per farsi capire, alla fine chi non ci riusciva a capirlo, come gli apostoli, in privato, spiegava loro ogni cosa. Gesù non è solo il maestro pubblico che parla a tutti, ma anche il precettore che si prende cura dei suoi alunni, in questo caso i dodici, e li segue passo passo nella spiegazione dei divini misteri che riguardano la sua persona e che poi capiranno perfettamente dopo la sua morte, risurrezione e ascensione al cielo e soprattutto dopo l’effusione dello spirito santo che apre il cuore e la mente alla comprensione della salvezza di tutti gli uomini delle terra. Ricordiamo quello che abbiamo ascoltato nel testo del vangelo: La senape è il più piccolo di tutti i semi, ma crescendo e sviluppandosi diventa più grande di tutte le piante dell’orto”. Così è del Regno di Dio così è colui che cresce nella santità della vita e da piccolo diventa grande davanti agli occhi di Dio e mai davanti agli occhi del mondo. Perché chi si fa grande davanti agli uomini, è piccolo davanti a Dio e chi invece si abbassa sarà innalzato e si eleverà come gli alberi che svettano verso il cielo.

Sulla crescita naturale delle cose piccole è incentrato il brano della prima lettura di questa domenica, tratta dal profeta Ezechiele, che riportando il pensiero di Dio scrive un testo letterario di grande fascino ambientale e spirituale: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà”. Il simbolismo è chiaro.

Anche se si parla di piante ed alberi, in realtà, quello che riporta il profeta in nome di Dio è solo un forte richiamo agli esseri umani e alla stessa creazione e creature che l’abitano che Dio è il Signore, che umilia l’albero alto e innalzo l’albero basso, fa seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Una vera rivoluzione di modo di pensare per riportare al centro di ogni cosa il tema dell’umiltà e l’abbassamento dell’orgoglio.

San Paolo Apostolo nel brano odierno della sua seconda lettera ai Corinzi ci incoraggia ad sempre pieni di fiducia e, parimenti, ci ricorda che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo. Lo sappiamo tutti, anche se è difficile capirlo ed accettarla questa condizione di esiliati. In questa condizione particolare in cui ci troviamo noi camminiamo nella fede e non nella visione. Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.

Questo desiderio di ritornare a Dio contrasta con la nostra voglia di vivere su questa terra e con quel morboso attaccamento alle cose di questo mondo. Perciò, dobbiamo sforzarci a capire che sia abitando nel corpo sia andando in esilio, bisogna impegnarsi ad essere graditi a Dio. Il motivo è molto semplice e chiaro e ha attinenza con il giudizio personale ed universale. Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando eravamo nel corpo, sia in bene che in male. Il giudizio di Dio non ci deve terrorizzare, ma spingere verso una vita santa e di conversione al bene, distanziandoci sempre di più dal male.

Ricordiamo quello che ascoltiamo nel Salmo 91 di oggi: “Il giusto fiorirà come palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio. Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigogliosi, per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità.

 

 

LA DOMENICA DEL BUON PASTORE. RIFLESSIONE DI PADRE ANTONIO RUNGI

Quarta domenica di Pasqua

091dc07705584b6f472a78d0c94a6122_XL

Domenica 25 aprile 2021

Le credenziali di accesso del Buon Pastore al cuore dell’uomo

Commento di padre Antonio Rungi

La quarta domenica di Pasqua è definita quella del Buon Pastore, in quanto il testo del Vangelo di Giovanni ci presenta questa significativa immagine con la quale Gesù si presenta ai suoi. Egli è colui che si prende cura, guida e difende il suo gregge e che deve proteggere da ogni forma di aggressione e disgregazione.

San Giovanni nel focalizzare la sua riflessione su tale immagine parte dalla constatazione di fatto di come viveva gli ebrei in Palestina. Era in prevalenza pastori. Furono, infatti, i pastori che per primi arrivano alla grotta di Betlemme per accogliere nella gioia il Salvatore appena nato e ne divennero i primi missionari in quel contesto di attesa e di speranza per tutto il popolo ebraico.

Gesù si appropria di questa immagine, di comune ed abituale conoscenza presso la gente, per far capire il senso della sua missione. Egli si definisce il buon pastore.

Quell “io sono il buon pastore” ci rimanda all’identità stessa di Dio, che è colui che è.  Gesù spesso usa questa espressione, sia durante ministero pubblico e sia dopo la sua risurrezione: Sono io, non abbiate paura”, afferma in più di qualche circostanza. Quando c’è il pastore le pecore camminano sicure e spedite ai pascoli giusti, nei quali attingere forze ed energie di ogni tipo e nei quali spaziare per vivere l’amore e la carità.

Gesù stesso spiega questo termine, nel discorso che Egli fa di autopresentazione, di accreditamento personale davanti al mondo e a quanti lo vorranno accogliere. Dice che la più cosa più importante possa fare un buon pastore è quella di dare la propria vita per le pecore.

Le credenziali di accesso del buon pastore al cuore dell’uomo sono la capacità di donarsi e dare la vita per il gregge.

Il significato di questo è ben chiaro per noi credenti ed ha stretto rapporto con la realtà ecclesiale in cui siamo immersi attraverso il dono del battesimo.

Essendo la chiesa una comunità di credenti, visibile e spirituale insieme, essa necessita di guide e di condottieri non per fare le guerre e lottare per dominare sugli altri, ma per servire e dare la vita, come ogni vero pastore fa di fronte ai pericoli che incombono sul suo gregge.

E’ evidente il riferimento alla missione profetica di quanti il Signore sceglie per guidare il popolo santo di Dio, redento dal suo sangue preziosissimo. La sua vita donata per noi è esempio di ogni donazione, soprattutto per quanti sono stati chiamati, per vocazione e non per interesse e sistemazione alla guida del popolo di Dio, a vari livelli e con compiti diversi nella Chiesa.

Gesù è il pastore supremo delle nostre anime e in Lui assumono valore, significato e spessore gli altri pastori che a partire dal Sommo Pontefice, a scalare, arrivano alle altre figure pastorali nella Chiesa cattolica; vescovi, sacerdoti, diaconi e fedeli laici impegnati nei vari settori della pastorale parrocchiale e diocesana.

In netta opposizione al buon pastore emerge drammaticamente la figura del mercenario, che pure era nota negli ambienti commerciali ed economici del tempo di Gesù e prima di lui. In contrapposizione al buon pastore c’è, infatti, questo soggetto non affidabile che è il mercenario. Gesù ci tiene ad evidenziare questa contrapposizione e questo contrasto non solo di immagini, ma di vita reale, per dire che il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore”.

E’ un dato di fatto, che se una persona o una cosa non ci appartiene, non la sentiamo nostra, non la viviamo come nostra, ma l’abbandoniamo e non la proteggiamo dai pericoli.

E’ questo il comportamento del mercenario, che letteralmente significa colui che si vende per motivi di soldi. Egli, infatti, è quella persona che presta la propria opera dietro compenso, e al solo fine di essere pagata, senz’altro interesse che quello del guadagno, dietro compenso.

Si riferisce di solito ad attività e prestazioni che dovrebbero essere svolte liberalmente, gratuitamente, o nelle quali il compenso non dovrebbe essere l’interesse principale, per cui il termine, assume una connotazione di massimo disprezzo.

Con queste parole, Gesù vuole proprio biasimare questa figura di mercenario, freddo e calcolatore dei propri interessi, che di fronte all’arrivo di lupi rapaci scappa via e abbandona il gregge.

Alla fine non gli succede nulla, perché è un mestiere pagato e quindi liberamente lo si lascia di fronte al rischio e al pericolo.

Gesù, invece, di fronte a simili soggetti compromessi con il denaro, ribadisce che lui è il buon pastore e che conosce le sue pecore. Da parte loro le pecore conoscono bene il loro pastore. Ed aggiunge nel suo discorso che  “come il Padre conosce Lui e Lui conosce il Padre, così conosce ogni sua pecorella. Una conoscenza che porta al dono supremo di se stesso. La conoscenza non è altro che l’amore pieno e perfetto al quale ogni creatura deve aspirare sul modello di Cristo Buon Pastore. Questo amore e conoscenza non si limitano ad investire quanti ricambiano questo amore, con il dono della fede, e quindi fanno parte del gregge di Cristo, ma si estende a tutti. Nessuno è escluso da questa attenzione da parte del Redentore.

Ecco perché Gesù afferma che Egli ha altre pecore che non provengono dal suo recinto e anche quelle Egli deve guidare ai pascoli della salvezza eterna.

Nello stesso tempo Gesù è fiducioso nell’umanità e con una semplicità comunicativa dice che le altre pecore che non sono del suo ovile ascolteranno la sua voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Questo è in grande desiderio e auspicio di Dio e di quanti credono in Lui.

L’unità dell’umanità sotto l’egida della parola che salva e che è Cristo e nessun altro. L’amore che il Padre manifesta al Figlio trova la conferma nel fatto che Gesù dà la sua vita   per la salvezza del mondo. Chiaro riferimento alla passione, morte e risurrezione che riguardano solo ed esclusivamente Cristo e nel quale assume significato e valore ogni persona umana e soprattutto ogni cristiano. Sentirsi e vivere da fratelli è compito apostolico e missionario di ogni buon pastore, sia esso papa, vescovo, sacerdote, parroco, religioso, suora, laico, politico, amministratore, economista o altra professione o attività umana. Di mercenari la storia ne ha avuto tanti, in tutti gli ambienti. Ora è tempo di essere pastori con il cuore e la sensibilità di Cristo buon pastore, che ci ha resi tutti fratelli nella sua passione, morte in croce e risurrezione.

E’ lo stesso evangelista Giovanni a ribadirlo nel testo della seconda lettura di questa domenica, tratta dalla sua prima lettera: “Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui”. Il Figlio amato dal Padre è il grande dono di Dio all’umanità. Cristo ci ha portato alla condizione di essere figli di Dio, fin d’ora. Questa assoluta verità di fede ci fa guardare oltre il presente e ce lo fa attendere nella fede, nella speranza e nella carità. Infatti “ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

L’attesa della venuta del Signore del secondo e definitivo avvento svelerà ogni cosa di quello che oggi noi non possiamo sapere, limitati come siamo nel entrare nei misteri di Dio e della fede.

Ci sia di conforto e di incoraggiamento quanto leggiamo oggi nel brano della prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, in cui san Pietro si confronta con coloro che vogliono ostacolare la loro azione di annuncio e di diffusione del Vangelo, che avviene mediante non solo la parola, ma anche con i miracoli che il Signore Risorto e asceso al cielo continua ad operare tramite i suoi discepoli: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato”. Pietro così da un lato mette in evidenza l’opera di Cristo che continua nella Chiesa e nel mondo e dall’altro pone di fronte alle loro responsabilità coloro che sono stati artefici della condanna a morte di Gesù. E con forza, Pietro, colmo di Spirito Santo, afferma che “Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo”. Espressione per dire l’essenzialità e la indispensabilità di Cristo per ogni costruzione spirituale e storica anche per Israele, partendo proprio dalla pietra angolare del celebre tempio della città santa. E ribadisce quello che orami era il nucleo portante e centrale del kerigma apostolico: “In nessun altro c’è salvezza”, se non in Gesù Cristo. “Non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

Di tutto questo noi uomini del XXI secolo ne dobbiamo essere certi e come cristiani rendere visibile il mistero della redenzione di Cristo mediante la santità e la bontà della nostra vita.

APPELLO DEL TEOLOGO RUNGI. IL 26 APRILE ALLE 12 UN MINUTO DI SILENZIO PER TUTTE LE VITTIME DEL COVID-19

IMG_20200310_002622

ITRI (LT). IL PASSIONISTA, PADRE ANTONIO RUNGI, PER IL 26 APRILE 2021, A MEZZOGIORNO PROPONE UN MINUTO DI SILENZIO E PREGHIERA PER TUTTI I MORTI DI COVID-19

In vista delle prossime aperture, già da lunedì 26 aprile 2021, padre Antonio Rungi, teologo passionista, delegato arcivescovile per la vita consacrata dell’arcidiocesi di Gaeta, propone a tutti gli italiani un minuto di silenzio alle ore 12 per ricordare tutti i morti di Covid-19. “Si tratta di un’iniziativa di carattere simbolica e di sensibilità umana e cristiana verso coloro che hanno perso la vita in questo anno e che non possono essere dimenticati”, afferma padre Rungi, nella sua articolata riflessione etica e sociale, alla vigilia delle riaperture di tante attività sul territorio italiano.
La nota completa del teologo spazia su altri temi di grande attualità, su cui egli invita “a riflettere, soprattutto ad organizzare il futuro, con la consapevolezza di quanto si è vissuto e si sta continuando a vivere”.
Ecco il testo completo della riflessione di questa domenica 18 aprile 2021.
“Dal prossimo 26 aprile 2021, si dice che l’Italia apre i battenti dopo la serrata a causa del Covid-19. Una riapertura parziale visto che non saremo nell’assoluta libertà di muoverci, di non usare protezioni, né di incontrare chiunque. Riprendono quelle attività economiche e produttive finalizzate a non affossare ulteriormente l’economia del nostro Paese, da sempre segnato dalla mancanza di lavoro e di prospettive future.
Tutto giusto, tutto opportuno, ma rimane il problema della pandemia, che continua a fare strage in ogni parte d’Italia e del mondo. I morti continuano ad esserci ogni giorno, i malati di Covid continuano ad essere ricoverati in ospedale o rimanere a casa. I contagi persistono e non si sono azzerati, a conferma che dall’emergenza sanitaria non siamo ancora usciti e quindi ci vuole prudenza e saggezza nel nostro agire.
Tutte le campagne di vaccinazioni, tutta la nostra speranza di uscire fuori da questa tempesta sanitaria con la vaccinazione globale si scontra con la realtà, coni dati quotidiani e le costatazioni di 13 mesi di grandi sofferenze per tutti, non ancora superate.
I circa 117.000 morti, ad oggi, tra cui medici, infermieri, forze dell’ordine, volontari, vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose, fedeli laici, non possono passare sotto silenzio o essere dimenticati facilmente, perché preme l’esigenza di una ripresa della vita che deve dimenticare subito il passato e soprattutto la morte, che ha lasciato segni profondi nei pensieri, nella vita e nel cuore di tutti gli italiani. Noi siamo facili a dimenticare, perché l’oblio ci aiuta a vivere, ma non è così. I morti di coronavirus appartengono a tutti gli italiani e a tutto il mondo, perché sono il volto della sofferenza, del dolore e del buio, in questo anno terribile della pandemia. Pertanto, per il 26 aprile 2021 quando si ritornerà quasi del tutto alla vita normale in Italia, mentre altrove già questo è avvenuto, propongo che il nostro primo pensiero sia quello di ricordare tutti i morti di quest’anno, soprattutto coloro che hanno data la vita per salvare vite. Ricordarli a mezzogiorno del 26 aprile 2021, con un minuto di silenzio e di preghiera, in tutti i luoghi ed istituzioni, in base al proprio credo religioso, ricordare tutti i martiri del coronavirus. Questi nostri fratelli e sorelle non possono essere accantonati nel ricordo del passato, in quanto il passato non è quello remoto, ma quello prossimo e più vicino a noi, è il passato messo alle spalle da pochi minuti e secondi, né tantomeno possono essere rimossi dalla nostra coscienza, perché dobbiamo pensare al futuro e non più al passato.
E’ vero che siamo nel tempo di Pasqua e questo significa risurrezione, ma il Risorto porta con sé i segni della passione, della sofferenza e della croce.
Con Cristo la vita trionfa sulla morte, la speranza sulla disperazione, la fiducia sulla sfiducia, la gioia sulla tristezza, la ritrovata armonia degli incontri rispetto all’assurda solitudine di questo anno, ma in una sola cosa non potrà esserci passaggio al meglio ed al definitivo, soprattutto in questo tempo di pandemia, se abbiamo vissuto, sperimentato e testimoniato in questi 13 mesi l’amore verso il prossimo, specialmente nei confronti di chi era più debole e fragile sul territorio italiano, dove viviamo, ma anche dimostrando sensibilità verso tutta l’umanità, perché l’amore non ha confini,  non ha bisogno di perfezionarsi, e se è vero, autentico, generoso, e se è totale esso si esprime donando la vita come Cristo ha fatto per ciascuno di noi sulla croce.
L’esperienza della pandemia, che non è finita, e che non è alle nostre spalle, è semplicemente accantonata e messa temporaneamente in standby per motivi economici e di opportunità non può farci dimenticare quello che è successo in questi 13 mesi e che se non siamo accorti e prudenti in futuro, saggi ed intelligenti, potrà succederci di peggio. L’incoscienza, l’imprudenza e la superbia sono sempre all’angolo di ogni strada delle nostre città e della presunzione di quanti non considerano i limiti della mente, della ragione e della scienza.
Dio ci liberi da altri morti da pandemia e da altre sofferenze che con sé ha portato e porta questo terribile morbo, che ha ammorbato il mondo intero e dal quale usciremo vincitori solo se camminiamo a lavoriamo insieme per il bene dell’intera nazione italiana e  di tutta la comunità mondiale, e non solo di una parte di essa, non sempre, poi, quella più in necessità ed urgenza di essere curata, protetta e difesa da ogni morbo e non solo dal Covid-19, ma di tutta l’umanità bisognosa di sentirsi accumunata in un piano di salvezza globale e non solo per la pandemia, ma anche per il resto delle necessità di tutti gli esseri umani. Buona domenica a tutti.

CONTEMPLARE, ASCOLTARE E RIPARTIRE. COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DELLA II DOMENICA DI QUARESIMA 2021 A CURA DI PADRE ANTONIO RUNGI

1424449_667721976591797_1278921107_n

II Domenica di Quaresima

Domenica 28 febbraio 2021

Tra l’Oreb e il Tabor c’è solo un cammino da fare: quello della fede e della speranza.

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa seconda domenica di Quaresima ci invita a salire su due monti: il monte di Abramo, l’Oreb e il monte di Gesù, che è il Tabor, dove Egli si trasfigura.

Nella prima lettura, infatti, tratta dal libro della Gènesi si parla del sacrificio di Isacco, figlio di Abramo, avuto per miracolo nella vecchiaia e considerata la sterilità di sua moglie Sara. Questo dono del cielo, dal cielo stesso viene chiesto di sacrificarlo come segno di totale abbondono ai disegni di Dio.

Il testo biblico è sicuramente tra i più drammatici, da certi punti di vista, ma nello stesso tempo è aperto alla speranza e alla piena fiducia in Dio. L’ordine del Signore è chiaro e perentorio nei confronti di Abramo: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».

Abramo stranamente obbedisce senza porre delle domande: Signore perché, dopo che mi ha concesso il dono della paternità?.

Quante mamme e quanti papà vediamo nel volto triste ed angosciato di questo patriarca che sa benissimo che la vita, anche quella di un figlio, non gli appartiene, ma tutto dipende da Colui che dà la vita e che mantiene in vita.

Comunque Abramo fa quello che ha chiesto il Signore e così arrivarono, lui e il figlio, al luogo che Dio gli aveva indicato, il monte Oreb.

Nulla era preparato e tutto c’era da allestire per consumare il sacrificio di un giovane figlio.

E così, Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.

Nei sacrifici umani ritorna spesso il coltello come arma del delitto, dell’assassinio e nel caso specifico di un atto sacrificale.

A questo punto, Dio interviene mediante l’Angelo liberatore che ordina ad Abramo di non stendere la mano contro il ragazzo e non a fargli niente!.

Il motivo di questo gesto di tolleranza da parte di Dio sta nelle parole che seguono: “Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».

C’era, quindi, bisogno di verificare la fede di quest’uomo, padre e patriarca, prima di affidargli un compito molto importante.

E la fede di Abramo vince, perché nel suo cuore avrà pensato che il Signore non avrebbe permesso tutto questo.

Dio voleva constatare il coraggio della fede di questo uomo, totalmente votato ai suoi disegni e al suo volere.

La ricompensa del Signore per questo atto di fiducia non si fa attendere e così Abramo alzando gli occhi, vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.

Il sacrificio a Dio viene comunque assicurato ma si sostituisce la vittima; da una persona umana, giovane, ad un animale che normalmente veniva ucciso per esigenze di caccia e di alimentazione.

Ma il discorso non si conclude con quel gesto sacrificale sostitutivo. Infatti, l’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e gli fa una promessa, un giramento vero e proprio, che ha il fondamento nella parola stessa di Dio che è fedele e dura in eterno: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

Si arriva alla conclusione di tutto il racconto. Da un sacrificio dell’unico figlio, che viene proposto e poi annullato da Dio, alla moltitudine dei figli di Abramo che ben conosciamo chi sono e cioè il popolo eletto.

Abramo così diventa il padre, non biologico di un intero popolo, ma il padre nella fede e come tale trasmette il dono più prezioso ai figli di questo popolo che è la fiducia totale e piena in Dio.

Saliamo adesso sull’altro monte, quello di Gesù, il Tabor e vediamo cosa succede qui.

Il vangelo di Marco ce lo dice sinteticamente: qui Gesù si trasfigura, presenti Elia e Mosè, appararsi a fianco a Lui nella gloria, davanti ai tre discepoli, Pietro, Giovanni e Giacomo, ascesi al sacro monte con il divino Maestro.

Tutto si sarebbero aspettavano i tre, ma non di certo di trovarsi davanti a questo scenario di paradiso che tocca il loro cuore e la loro mente al punto tale da far dire a Pietro: Signore è bello per noi stare qui, facciamo tre tende e ci stabilizziamo nella gioia e nel benessere eterno su questo luogo della vera felicità. Invece, dopo quel momento di estasi, si ritorna alla normalità, alla quotidianità, con all’orizzonte il monte Calvario, il monte della passione e morte in croce, ma anche della risurrezione del Signore.

L’episodio della trasfigurazione che è narrato nei tre vangeli sinottici (Marco 9:2-8, Matteo 17:1-8, Luca 9:28-36), ed è collocato dopo la confessione di Pietro, ci racconta che Gesù, dopo essersi appartato con i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, cambiò aspetto mostrandosi ai tre discepoli con uno straordinario splendore della persona e uno stupefacente candore delle vesti.

In questo contesto si verifica l’apparizione di Mosè ed Elia che conversano con Gesù e si ode una voce, proveniente da una nube, che dichiara la figliolanza divina di Gesù.

Lo splendore di Cristo richiama la sua trascendenza, la presenza di Mosè ed Elia simboleggia la legge e i profeti che hanno annunciato sia la venuta del Messia che la sua passione e glorificazione; la nube si riferisce a teofanie già documentate nell’Antico Testamento.

Una tradizione attestata già nel IV secolo da Cirillo di Gerusalemme e da Girolamo, identifica il luogo dove sarebbe avvenuta la trasfigurazione con il monte Tabor, letteralmente “la montagna”. Si tratta di un colle rotondeggiante e isolato, alto 588 m s.l.m., ossia circa 400 metri sul livello delle valli circostanti, nella Regione della Galilea, in Israele. Nella prima metà del XX secolo qui fu costruita la Basilica della Trasfigurazione e il monastero greco-ortodosso di Sant’Elia.

Il mistero luminoso della trasfigurazione del Signore, quindi, ci riporta all’essenza stessa del nostro rapporto con Dio e ci chiede di fare, soprattutto in questo tempo di quaresima e di pandemia, tre cose importanti: contemplare, ascoltare e ripartire. 

Contemplare significa riflettere sulla vita di Gesù. Al centro del metodo della contemplazione vi sono i sensi umani: vedere, udire, sentire.

Lo scopo della contemplazione è far crescere la conoscenza intima di Gesù Cristo, per amarlo di più e seguirlo più da vicino.

La contemplazione è una preghiera affettiva piuttosto che una riflessione intellettuale.

Meditazione e contemplazione fanno parte della tradizione della spiritualità cristiana che risultano particolarmente utili nel corso della Quaresima che è tempo forte per contemplare e meditare.

Altra cosa da fare è ascoltare Dio che parla a noi attraverso la legge e i profeti. La presenza di Elia e Mosé nella trasfigurazione di Cristo ci indicano i riferimenti più incisivi per ascoltare davvero Dio che parla a noi, soprattutto attraverso la voce di Cristo: questi è il mio figlio l’amato, ascoltatelo. Gesù non ci parla direttamente, non ci viene a fare una lezione o una predica, né ci appare in sogno o visione per dirci quello che dobbiamo fare. Egli ha parlato e continua a parlare a noi attraverso il sacramento della Chiesa, suo mistico corpo, nella quale un ruolo fondamentale ha Pietro, il Papa, che sale con Gesù su Monte Tabor e al quale Gesù stesso affida la sua chiesa. Egli continua a parlare con la voce di Giovanni e Giacomo e degli altri apostoli che personalmente hanno ascoltato il Signore. Non facciamoci parlare dalla voce di un altro apostolo, Giuda iscariota che fu il traditore.

Il terzo atto da compiersi è quello di ripartire, dopo aver contemplato ed ascoltato. E ripartire significa, nella logica della trasfigurazione e del monte Tabor, scendere a valle e camminare per le strade del mondo per annunciare la parola che salva. In questa valle di lagrime e di speranza noi dobbiamo essere gli annunziatori della gioia che ci viene da Dio nella contemplazione del suo Figlio, Gesù Cristo, nato, morto, risorto ed asceso al cielo per la nostra salvezza. Ripartire ce lo chiede anche il tempo della pandemia che stiamo vivendo e tale ripartenza riguarda non solo la vita economica e sociale, ma soprattutto la vita spirituale e cristiana, bloccata da tante limitazioni sanitarie che si sono trasformate in autolimitazioni per allontanarci, senza alcun motivo, dalla frequenza della Chiesa e dei sacramenti.

La parola di Dio di questa domenica sia un motivo in più per riflettere su come stiamo vivendo la nostra fede in questo tempo di prova e sofferenza e se proprio vogliamo farci guidare da essa, penso che sia quanto mai opportuno meditare sulla seconda lettura di oggi, tratta dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!”.

Come è facile capire, se fondiamo ogni nostro agire e soprattutto tutta la nostra vita in Gesù Cristo, chi potrà mai danneggiarci, offendere, umiliare, condannare? Nessuno, perché Cristo ci ha salvati e redenti e gli uomini di questa terra sono dei poveri illusi se pensano di essere i salvatori di questa o quell’altra situazione, compresa quella della pandemia. Senza la fede in Dio non si riesce in nulla, neppure nell’eliminare da questo mondo un semplice ma terribile virus.

La lezione di vita che ci viene dalla parola di Dio di questa domenica è chiara. Sta a noi capirla e come Abramo salire sul monte ed offrire tutto quello che è più importante e prezioso per noi. E Dio non si terrà per se qualsiasi gesto di amore, obbedienza e fiducia in Lui e ci ricompenserà già su questa terra con la pace del nostro cuore e la luce della nostra mente. Ma salire anche con Cristo sul Tabor per gustare la dolcezza e la serenità di stare in contemplazione dell’unico salvatore del mondo.

IL COMMENTO ALLA PAROLA DI DIO DI DOMENICA 18 OTTOBRE 2020

Domenica 18 ottobre 2020

XXIX Domenica del tempo ordinario

Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio

Commento di padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa 29esima domenica del tempo ordinario è sicuramente accattivante sotto tanti aspetti. In particolare è il testo del Vangelo che cattura la maggiore nostra attenzione sui testi sacri che compongono la liturgia della parola di Dio di questa domenica di metà ottobre 2020, messe missionario e di evangelizzazione nel contesto della pandemia, delle messe e celebrazioni a distanza. La pagina del Vangelo è tra le più conosciute e citate, per vari motivi e non escluso quello di carattere politico ed economico. Infatti l’espressione finale usata da Gesù per differenziare il rapporto tra le cose divine e quelle umane, sociali, materiali, politiche ed economiche, ci fa capire come bisogna agire per essere in armonia tra le due prospettive personali, quella della fede e della vita umana e sociale. Dare a Cesare quello che di Cesare e dare a Dio ciò che appartiene a Dio è un modo per affermare la separazione tra i beni spirituali e quelli materiale, meglio ancora tra il potere spirituale e politico che spesso, nella storia dell’umanità e della stessa chiesa, hanno coinciso, al punto tale da creare problemi di varia natura. Ci sono voluti secoli per capire tutto questo e tenendo per buono l’insegnamento del Concilio Vaticano II, la Chiesa deve camminare nel mondo a testa alta servendo la causa della verità, della giustizia della spiritualità, anche se fa uso prudentemente dei mezzi necessari per svolgere il suo ministero. Certamente essa non un potere politico, economico o militare, ma semplicemente ha il potere che Gesù stesso le ha trasmesso quello di andare in tutto il mondo e predicare il vangelo: chi crederà sarà salvo, chi invece rifiuterà Cristo e vangelo non si salverà. Un potere che è servizio e che passa attraverso l’autorità di Pietro al quale Gesù ha dato un compito ben preciso: le chiavi del Regno. Capire meglio questa pagina del Vangelo è comprendere come cristiani chi siamo e come dobbiamo operare nel mondo, nella politica, nel sociale e nell’economia.

 

Analizziamo il brano del vangelo, a mano a mano, come ci viene presentato da Matteo. Iniziamo da fatto che i farisei tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. L’approccio quindi è quello di tirare una trappola al Maestro, non sono mossi da sentimenti di ricerca della verità e dell’onestà intellettuale e spirituale. E cosa fece dopo il gran consiglio? “Mandarono da Gesù i loro discepoli, con gli erodiani, a fargli questa domanda, ovvero un primo interrogatorio. Si parte dal riconoscimento che il Maestro che è veritiero e che insegna la via di Dio secondo verità. Gesù viene riconosciuto come Colui che non ha soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Ed ecco la domanda di rito: Di a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? La domanda era finalizzata a trovarlo in contraddizione con le leggi dello stato e Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo».

Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Riconosciuta l’appartenenza del denaro allo stato, Gesù replicò: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Di fatto, riconoscevano già l’autorità di Cesare. Stavano già dando a Cesare quello che era di Cesare, poiché usavano le sue monete per comprare e vendere e perfino per pagare il tributo al Tempio! Di conseguenza, la domanda era inutile. Perché chiedere una cosa, la cui risposta è già evidente nella pratica?

Loro che per la domanda fingevano di essere servi di Dio, stavano dimenticando la cosa più importante: dimenticavano di dare a Dio ciò che era di Dio!

A Gesù interessa che “diano a Dio quello che è di Dio”, cioè, che restituiscano il popolo che si era allontanato per loro colpa da Dio, perché con i loro insegnamenti bloccavano al popolo l’entrata del Regno (Mt 23,13).

Altri dicono: “Date a Dio quello che è di Dio”, cioè praticate la giustizia e l’onestà secondo le esigenze della Legge di Dio, perché a causa della vostra ipocrisia state negando a Dio quello che gli è dovuto. I discepoli e le discepole, devono rendersi conto di questo! Poiché era l’ipocrisia di questi farisei ed erodiani che stava accecando i loro occhi!.

D’altra parte al tempo di Gesù, il popolo della Palestina pagava moltissime imposte, tasse, tributi, multe, contribuzioni, offriva donativi, decimi. Secondo i calcoli fatti da studiosi, la metà delle entrate familiari erano destinate a pagare le imposte. In poche parole non siamo lontani dalla contribuzione di oggi. E come ai tempi di Gesù c’erano gli evasori, così oggi si verifica la stessa cosa. Non pagando le tasse tutti, si danneggia coloro che le pagano regolarmente e sono onesti. Fare i furbi non significa essere bravi e retti, ma solo evasori e danneggiatori del bene comune. Perciò bisogna pagare i tributi, ma soprattutto bisogna dare lode e gloria a Dio per ogni cosa.

Anche la prima lettura di questa domenica ci invita a riflettere attentamente sulla nostra vocazione battesimale, che essenzialmente quella profetica. Infatti il testo di profeta Isaia, riportando l’esperienza del re di Persia, Ciro il Grande, ne evidenzia la sua missione e il suo ruolo in rapporto al popolo di Dio, ad Israele. Il Signore, tramite il suo portavoce, il profeta Isaia, dice del suo eletto, Ciro: «Io ti preso per la destra, per abbattere davanti a Dio le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a Dio i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso”. Sempre riferito alla missione di questo uomo di Dio, Isaia, in nome e per conto di Dio, aggiunge in ordine a Ciro: “Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca”. Infatti non è uno dei potenti che aveva dimestichezza con il Dio di Israele. E proprio a lui il Signore si rivolge ie in qualche modo lo impegno su un piano di religiosità monoteista: “Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio”. In ragione di questa unicità di Dio, il Signore renderà Ciro pronto all’azione, anche se lo conosce, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me”. Viene qui richiamata la prima fondamentale alleanza tra Dio e il popolo di Israele, sottoscritta da Mosé sul monte Sinai, dove il Signore stesso consegnò a Mosé le tavole della legge, quei dieci comandamenti che ben conosciamo e che aprono proprio con questa verità di fede fondamentale che è il Dio unico.

Ugualmente nel brano della seconda lettura, tratta dal lettera di San Paolo Apostolo ai Filippesi c’è questo forte appello alla rinnovamento personale ed ecclesiale: “Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro”. La vocazione alla vita cristiana è ben evidenziata dall’Apostolo in questo brano, nel quale ammette che sa bene, che tali fratelli amati da Dio, sono stati scelti da Dio stesso.

La scelta ricaduta su di noi da parte del Dio, non è un privilegio per la persona, come anche per Ciro, di cui la prima lettura, ma un servizio, un dovere missionario, al fine della diffusione del Vangelo, tra la gente, non soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione”. Delineati i compiti missionari ed apostolici per tutti i battezzati e i cristiani, a ben ragione possiamo pregare con la stessa orazione della colletta di questa messa domenicale che è energia spirituale per le nostre anime: “Dio onnipotente ed eterno, crea in noi un cuore generoso e fedele, perché possiamo sempre servirti con lealtà e purezza di spirito”. Amen.