Vita

Ritiro spirituale alla Stella Maris di Mondragone- Le due meditazioni

RITIRO SPIRITUALE – SUORE GESU’ REDENTORE

MONDRAGONE – GIOVEDI’ 25 APRILE 2013

PRIMA MEDITAZIONE: MATTINO

<<FEDE E SPERANZA: UN CAMMINO DI FEDELTA’>>

di padre Antonio Rungi, passionista

 

1.Introduzione

 

Questo è il settimo incontro di spiritualità in questo anno della fede che è a metà percorso. Il tema che abbiamo indicato e scelto per questo nostro ritiro spirituale è “Fede e speranza: un cammino di fedeltà”.

Nel giorno in cui celebriamo la festa di San Marco Evangelista siamo chiamati anche noi a rivitalizzare la fede e la speranza alla luce della parola di Dio che ci sostiene nel nostro cammino di credenti e di anime consacrate.

La fede significa essere fedeli a Dio, perché Dio è fedele all’uomo fino a dare la vita, in Cristo, per la salvezza dell’uomo. La speranza da parte sua è anche fedeltà e certezza di una promessa che si compirà e si realizzerà, perché Dio non può ingannare, né di fatto inganna.

La fedeltà è un valore importantissimo a tutti i livelli: da quello prettamente teologico e spirituale a quello morale e comportamentale. Da quello attinente allo stato della vita consacrata a quello della vita coniugale. Ma quale fedeltà viviamo?

Il santo Padre Benedetto XVI in un suo discorso ha fatto l’elogio della fedeltà. Egli sottolinea come oggi più che mai c’è bisogno di questo valore che la società attuale ha smarrito. Viene esaltata molto l’attitudine al cambiamento, la flessibilità per motivi economici e organizzativi anche legittimi. Ma – continua il Papa – la qualità di una relazione umana si vede dalla fedeltà! La Sacra Scrittura ci mostra che Dio è fedele (cf Benedetto XVI, 25 giugno 2011).

 

2.La Fede-speranza

 

         Nell’A.T. la Fede appare come la risposta dell’uomo a Javhè, Dio dell’Alleanza, il Dio che si rivela fedele nei suoi interventi storici salvifici, nella sua Parola e promessa; soltanto da Javhè viene quella Salvezza che l’uomo riceve nella Fede.

Tutti i testi biblici: o presuppongono la Fede religiosa in Javhè , ho tendono a suscitarla, confermarla, approfondirla. Solo nell’atteggiamento di Fede si può cogliere l’intima comunione tra  Javhè e l’uomo, i due attori della storia salvifica.

        Javhè è un Dio verso l’uomo, con fedeltà-misericordia

        L’uomo è un uomo da Dio e verso Dio.

Nella Fede questa relazione-comunione con Dio, da Lui offerta per sua graziosa iniziativa, viene riconosciuta, afferrata, accolta. La Fede implica trovare sicurezza sulle questioni decisive della vita.

La Fede importa obbligazione ad un determinato modo di vivere, in fedele obbedienza al Dio della Fede.

L’atto di Fede viene espresso prevalentemente mediante la forma verbale <poggiarsi su, appoggiarsi a, rendersi saldi appoggiandosi sulla saldezza di un altro>.

Aver Fede in Javhè , significa poggiarsi su Dio, la sua Parola. L’uomo, il debole diventa forte appoggiandosi su Dio, il Forte; sottolinea il rapporto personale dell’uomo a Dio, cioè l’atteggiamento di fiducia e d’abbandono a Lui.

Credere a Dio, allora vuol dire prendere sul serio e veramente Dio come Dio.

Per esplicitare meglio l’atteggiamento  di Fede,  accogliamo il suggerimento del Card. Martini «La fede è un bene così grande che è più facile spiegarla con esempi che con parole”.

Essa è l’atteggiamento di Abramo che risponde “eccomi” al Signore che lo chiama per metterlo ala prova (Gen 22,1). E’ l’atteggiamento di Mosè che risponde “eccomi” a colui che lo chiama dal roveto ardente (Es 3,4). E’ l’atteggiamento di Samuele che dice “Eccomi” al Dio che lo chiama nella notte (Sam 3,4.10) »

Esaminiamo più in particolare questi casi significativi: l’AT incomincia a parlare di fede riferendosi al modello di Abramo, Gen 12, 4 “Allora Abramo partì come gli aveva ordinato il Signore…”; 15, 6: “Abramo credette al Signore[che gli assicurava una discendenza], che glielo accreditò come giustizia”; 22, 18: “Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”.

Conosciamo le circostanze della fede di Abramo: Dio si manifesta al nomade Abramo (la sua famiglia non sembra monoteista: cf Giosuè 24, 2-3; Giuditta 5, 6-9) chiedendogli di lasciare il suo paese, patria, la casa di suo padre, e mettersi in marcia verso un paese ignoto, una terra promessa; Abramo dà fiducia alla Parola  divina, ubbidisce, crede nel suo adempimento.

Credendo a Dio, Abramo prese l’atteggiamento giusto, quello che si confà all’uomo davanti a Dio, alla sua Parola; credette che niente è impossibile a Dio (Gen 18,14). Se la storia della salvezza incomincia con Abramo, già la “preistoria teologica dell’umanità” (Gen 1-11) descrive comportamenti esemplari di Fede: Abele, Henoch, Noè; anzi la storia teologica dell’uomo richiedeva sin dal suo inizio un atto di Fede-obbedienza: ob-audio = dare ascolto a, ubbidire.

Il comportamento disastroso di Adamo fu invece il non-ascoltare, disobbedire (Rom 5,19).

La storia dell’Alleanza conosce un suo momento decisivo nella Fede di Mosè (Es 3-4), il suo rendersi disponibile al dialogo con Javhè, il suo fidarsi ed obbedire; anche il popolo credette a Javhè , accettò come reale la manifestazione di Javhè a Mosè, si fidò della sua promessa e ubbidì iniziando l’esodo, attraversando il Mar rosso. Si mise in cammino verso la terra promessa, accogliendo la rivelazione del Sinai, divenendo il Popolo sacerdotale, il popolo che inizia ad avere il senso del Vero Dio, lo dimostra con l’osservanza dei comandamenti. Durante la marcia nel deserto, rifiutarono più volte di fidarsi di Dio, dimenticarono le opere salvifiche già realizzate, si ribellarono: per questo caddero nel deserto, senza raggiungere la terra promessa.

Anche il passaggio delicato tra la struttura tribale, dei Giudici di Israele, a quella del Regno è realizzata dall’obbedienza esemplare del giovane Samuele, al servizio e scuola di Eli nel tempio di Silo.

Tutta la storia del Popolo dell’alleanza è segnata dall’obbedienza della Fede e dalla ribellione; ricordiamo l’invito di Isaia (7,9) al re Achaz, durante l’assedio del 730 a.C.: 7, 7-9: “Se non avrete Fede, non starete saldi” cioè: “Se non vi appoggerete a Javhè, non avrete alcun sostegno”. Così pure Is 26,16: “Chi se ne fida, non vacillerà”; Is 10,20: “In quei giorni il resto di Israele, …i superstiti… si appoggiarono sul Signore, sul Santo di Israele, con lealtà”.

Notiamo come l’aspetto fiduciale della Fede, il fidarsi del Signore, tende ad identificarsi con la terminologia della speranza: sentirsi sicuri della fedeltà di chi promette, confidare, trovare riparo,  perseverare con pazienza.

Si tratta di novità: nel paganesimo è sconosciuta la speranza religiosa. Si può trovare la stessa terminologia di attesa, fiducia, manca la persona divina che entri nella storia dell’uomo, ogni uomo, tutti gli uomini, prometta comunione con sé, i beni corrispondenti. Israele è frutto della promessa di Javhè, Dio dell’Alleanza, e Signore, creatore di tutto, capace di realizzare ciò che promette.

Troviamo espressioni significative, per es: “Tu sei la mia speranza” del Sal. 70 (71), 5;  “Tu speranza di Israele” di Ger 14, 8 sono proprie della religiosità ebraica.

Determinante per la conservazione della genuina speranza è stata la lotta dei grandi Profeti contro i falsi miraggi di salvezza, fatti di alleanze politiche, di comportamenti pagani.

In tante lotte e pericoli Israele è sempre stato invitato a riporre ogni sua speranza in Javhè : “Da Lui la mia speranza”: Sal 61 (62), 6.

         Quando il futuro sembra chiudersi, Osea, Geremia ed Ezechiele annunciano la prospettiva di un nuovo inizio: Os 2; Ger 31, 31-34; Ez 36-37: la nuova alleanza.

         Data la fedeltà di Dio, l’uomo non sarà deluso dall’attesa suscitata dalla sua parola di promessa. Alla ferma fiducia nell’attesa della salvezza, si accompagna la sottomissione al sovrano governo di Javhè . La speranza diviene un’attesa carica di tensione, serena, attiva, con forza rinnovata:

         “Quanti sperano in Javhè riacquistano forza, crescono loro ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40, 31).

         La speranza si esprime in una perseveranza virile e coraggiosa: “Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore, spera nel Signore” (Sal 26 (27), 14).

Osservata questa stretta connessione tra la fede e la speranza, possiamo porci la domanda: la fede vetero-testamentaria è solo “fiduciale” o, insieme, anche “confessionale”?

Non è solo fiduciale, perché ci si fida, riconoscendo i titoli, le qualità divine cui è dovuta fiducia, per es. Is 43,10-11: “Voi siete i miei testimoni… perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate che Io Sono. Prima di me non fu formato alcun Dio, né dopo ce ne sarà: Io, Io sono il Signore, e fuori di me non c’è salvatore”.

Viene posto in risalto nella confessione di Fede che Javhè è l’unico Dio, soltanto Lui ha salvato con opere continue, soltanto in Lui si può avere fiducia.

Specialmente i libri sapienziali sviluppano la conoscenza-confessione di Javhè , del suo progetto di salvezza; la Parola Verità, oltre l’aspetto più arcaico di fedeltà, assume il significato proprio di svelamento, rivelazione del Dio santo, Creatore sapiente, Salvatore; questa Verità si manifesta nel suo sapiente progetto di vita per l’uomo, il suo Mistero che svela e realizza nella storia (Sap. 7, 22-26).

         La fede include infatti l’idea di verità, di stabilità, di fondamento inconcusso, di terreno solido, come pure i significati di fedeltà, di confidenza, di avere fiducia, di attenersi a qualcosa, di credere in qualche cosa. La fede in Dio assume allora l’aspetto d’un mantenersi uniti a Dio, tramite cui l’uomo acquista un solido appoggio per la sua vita.

         La fede ci viene così descritta come una presa di posizione, come un fiducioso piantarsi sul terreno della parola di Dio.

L’atteggiamento assunto dalla fede cristiana si esprime nella particella “amen”, in cui si intrecciano i seguenti significati: fiducia, abbandono, fedeltà, stabilità, inamovibilità, fermezza, verità. Vuol dire che ciò su cui l’uomo in definitive intende reggersi trovando un senso alla sua esistenza, può essere unicamente la verità stessa. Soltanto la verità, infatti, costituisce la base portante adeguata al solido stare dell’uomo. L’atto di fede cristiano include quindi sostanzialmente la convinzione che il fondamento significativo, il “logos” sul quale ci collochiamo, è proprio in quanto senso del reale la stessa verità. Un senso che se non fosse al contempo anche verità, sarebbe un non senso. L’amalgama inseparabile formato da senso, fondamento, verità, che si esprime tanto nel termine ebraico “amen” quanto in quello di “logos”, abbozza contemporaneamente un completo quadro del mondo.»

 

3.La speranza nel Nuovo Testamento: Vangeli

 

Cristo Gesù annuncia il Regno di Dio, che con Lui si affaccia nella storia dell’uomo: «Il tempo è compiuto, ed il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Porta i segni dell’arrivo  del Regno di Dio, con il perdono dei peccati, guarigioni degli spiriti oppressi, guarigione dei corpi.

     Il Regno di Dio si riassume in Cristo stesso, che sulla Croce ha vissuto l’abbandono fiducioso al Padre, portando con misericordia il peso di tutta la miseria umana, atto di abbandono assoluto, filiale nell’amore e potenza del Padre, ricevendo la grazia della piena comunione di vita con Dio nella risurrezione, da offrire a tutti gli uomini (Eb 6,11s. 19s. 10,19-24; 12,1-3). La Morte–Risurrezione di Gesù è evento compimento, ephapax, realizzato una volta sola per la salvezza di tutti, in tutti i tempi e luoghi; porta già i suoi frutti di iniziale risurrezione, vita nuova in fede e carità, nei tempi della Chiesa, nell’attesa della pienezza che realizzerà il Crocifisso-risorto nel suo avvento glorioso, Risurrezione dei corpi in terra nuova e cieli nuovi.

    La fede in Cristo richiede un atteggiamento d’attesa vigilante, attiva e paziente, di cui ci parlano i Sinottici, come Matteo nei cap. 24-25: il discorso escatologico del manifestarsi glorioso del Signore Gesù, l’attesa delle vergini savie e stolte, la parabola dei talenti, il giudizio finale. Giovanni parla di questa attesa propria dei tempi della Chiesa, nei discorsi dell’ultima Cena, nella finale del cap. 21. Ma tutto il libro dell’Apocalisse è scritto per sostenere il cammino travagliato della Chiesa, nella certezza che la sua Liturgia terrena è per identità quella celeste (1,10-4,1), che si svolge intorno al trono-altare di Dio e dell’Agnello immolato e glorioso, nell’attesa ardente del discendere dal Cielo della Gerusalemme celeste, la cui luce è direttamente quella di Dio e dell’Agnello: «il Signore Dio e l’Agnello sono il suo tempio [….] la Gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello» (21,22s), nell’invocazione: «vieni Signore Gesù» (22,20).

    Atti, Paolo, Pietro ed Ebrei, 1 Gv 3,3, esprimono quest’atteggiamento di vigilanza, d’attesa fiduciosa, fedele ed operosa, riprendendo la terminologia vetero-testamentaria della speranza.

    

4.La speranza in S. Paolo

 

         Con la Croce-risurrezione di Gesù, sorge la speranza cristiana, fondata sull’evento salvifico definitivo già compiuto, e che insieme porterà tutti i suoi frutti nel manifestarsi glorioso del Signore. La speranza non conosce limiti, perché fondata nell’evento della Morte-Risurrezione di Gesù, vittoria su ogni male, esodo perfetto di comunione salvifica al Padre nello Spirito Santo.

    In Cristo tutte le promesse di Dio sono diventate sì, egli è l’Amen assoluto di Dio (cf 2 Cor 1, 20). Il Cristiano, a differenza del pagano, è colui che ha speranza, anche di fronte alla morte (1Ts 4, 13). Osserva Benedetto XVI  nella SpS, n 3: «Gli Efesini, prima dell’incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano “senza Dio nel mondo” (2,12). Giungere a conoscere Dio – il vero Dio questo significa ricevere speranza». Continua la SpS n 4: «Ciò che Gesù, egli stesso morto in croce aveva portato, era qualcosa di totalmente diverso: l’incontro col Signore di tutti i Signori, l’incontro col Dio vivente, e così l’incontro con una speranza che era più forte  delle sofferenze, della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita ed il mondo [….] Gli uomini che, secondo il loro stato civile, si rapportavano tra loro come padroni e schiavi, in quanto membri dell’unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e sorelle – così i cristiani si chiamavano a vicenda. In virtù del Battesimo erano stati rigenerati,  si erano abbeverati dello stesso Spirito, e ricevevano insieme, uno accanto all’altro, il Corpo del Signore. Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo cambiava la società dal di dentro.»

     I pagani erano senza speranza, perché senza Dio; la religione mitica aveva perso credibilità con lo sviluppo della ragione greca, si era sclerotizzata in riti ripetuti  senza convinzione solo in vista di una finalità politica. Il Divino veniva riconosciuto nelle forze di un cosmo-dio, che rendeva l’uomo schiavo dei suoi determinismi, ma non era un Dio che  si potesse pregare, un Dio che si prende cura dell’uomo, di ogni uomo.   Questo si è realizzato in Cristo Gesù, nella sua Croce risurrezione, che già ora offre nello Spirito Santo i suoi doni (grazia, giustificazione, virtù…..) nell’attesa di pienamente immergere l’uomo nella Gloria della sua Risurrezione.

         “Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti se uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.” ( Rm 8, 24 s).

         Tale speranza è fondata sull’amore manifestato nella Pasqua di Cristo:

         “Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci darà ogni cosa insieme con Lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Proprio come sta scritto:

<Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello>.

Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati ,né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.” (Rm 8, 31-39).

 

         Quest’amore è stato inoltre infuso nei cuori per lo Spirito Santo (cf Rm 5,1-5). Esso è il dono escatologico del Risorto, che suscita nel credente la fiducia filiale, fa balbettare il nome di “Abba, Padre” (Rm 8, 15; Gal 4, 5-7). Mediante lo Spirito l’uomo riceve la comunione di vita con Cristo, come anticipazione della partecipazione futura alla Gloria piena del Risorto .

         Giustificazione nella fede vuol dire salvezza nella speranza, perché la presenza dello Spirito Santo è nel credente garanzia della risurrezione futura, come dono vitale, già concesso, della carità:

         “Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; per suo mezzo abbiamo anche ottenuto mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo, e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio.

         E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata, e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.” (Rm 5, 1-5).

         Cosa spera il credente?: la salvezza (1Ts 5, 8), la risurrezione del corpo (1Cor 15), la Gloria (Col 1, 27), la visione di Dio e la somiglianza con Lui (1Gv 3, 2): in una sola parola, la Vita eterna. (Gv 6,54; 20, 31)

    

5.Conclusione

        

Leggiamo in Ef 4, 1-6: “Vi esorto dunque io, prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione.”

         L’unità della Chiesa, che proviene dall’unico Dio, mediante l’unico Signore Gesù Cristo, nell’unico Spirito, si esprime nella professione della stessa fede, si realizza nel vincolo dell’amore fraterno (vivendo secondo la verità nella carità: Ef 4, 15), concretamente in una sola, comune speranza, quella della nostra vocazione.  Cioè per l’unità della Chiesa risulta necessario che ciascuno speri per sé e tutti, che tutti abbiamo la comune speranza della salvezza.

         La speranza cristiana, per tutti, appartiene alla stessa unità della Chiesa; ed ha lo stesso fondamento Trinitario e sacramentale come l’unità stessa della Chiesa. Siamo uniti da una stessa speranza, in forza della quale camminiamo con pazienza, in mezzo alle prove, verso gli stessi beni promessi.

         Siamo invitati da Ebrei 10, 23 a mantenere “senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso”.

         La comune speranza è quindi oggetto di pubblica professione, inoltre il cristiano deve essere pronto a “rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15).

         Risulta essenziale alla vita della comunità che ciascuno non speri solo per se stesso, ma che la speranza, andando al di là del mio futuro esclusivo di salvezza, sappia estendersi a tutti. Questa estensione a tutti è strettamente connessa con il comandamento della carità, che pur conoscendo gradualità (fratelli nella fede, famiglia, amici) deve essere esteso anche agli stessi nemici (cf Lc 6, 27).

         Questo amore-speranza universale risulta fondato in ultima istanza sulla redenzione di Cristo, che viene offerta a tutti:

         “Dio nostro salvatore[…] vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità: uno solo infatti è Dio ed uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù che ha dato se stesso in riscatto per tutti.” ( 1Tm 2, 4-5).

         Su questo fondamento Paolo invita il discepolo vescovo a fare preghiere, domande, suppliche, ringraziamenti per tutti gli uomini (1 Tm 2, 1s). L’impegno ascetico-pastorale, la fatica e il combattimento spirituale che comporta, risulta fondato “perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono.” (4,10).

         “E’ apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, in attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.” ( Tt 2, 11-13). »(SpS n 14).

         La stessa ampiezza di universale salvezza è inculcata anche in Colossesi ed Efesini, ove si contempla il progetto di Dio, che in Cristo viene offerto a tutti: Cristo primogenito, primizia, principio, pienezza, capo; l’umanità partecipa solidalmente al destino glorioso di Cristo, che include in sé tutta l’umanità.  Si inaugura l’era della salvezza piena e definitiva, che discende, risanandole, sino alle infette radici adamiche (Rm 5,12-21). Cristo è in realtà disceso negli <inferi>.

         Anche la 2 Pt 3, 9 ammonisce: “Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca,  ma che tutti abbiano modo di pentirsi”.

         Questa offerta di salvezza a tutti, per cui dobbiamo sperare di tutti, richiede in ciascuno l’accoglienza personale; la storia della salvezza è sempre un dramma di libertà responsabile:

         “Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.” (Mt 7, 21).

“In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli [….] Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco, zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno” (Mt 18, 3-8).

 

 

 

 

SECONDA MEDITAZIONE: POMERIGGIO

<<FEDE E SPERANZA: UN CAMMINO DI FEDELTA’>>

di padre Antonio Rungi, passionista

 

Questa seconda meditazione della giornata di ritiro, sarà dedicata al tema della speranza nella vita di Madre Victorine Le Dieu. Come tutti  santi che hanno una fede grande e una carità operosa, così anche per la fondatrice delle Suore di Gesù Redentore, la speranza cristiana non manca, né è priva di quei riferimenti biblici e teologici su cui è stata alimentata con la preghiera nel corso della sua intera esistenza. Victorine Le Dieu è stata una donna grande attese e speranza, di grande fiducia ed abbandono alla volontà del Signore. Tutto quello che ha chiesto il Signore le ha concesso, dopo il superamento di tante difficoltà ed ostacoli da parte di tutti.

In questa prospettiva di donna di speranza, fortemente ancorata ad una fede incrollabile su Dio e sul mistero dell’umana redenzione, centro della sua spiritualità e del suo carisma, Victorine è un esempio per tutti: laici, soprattutto madre di famiglia e donne di qualsiasi ambiente culturale; per religiose che spesso non hanno grandi attese e speranze nella vita; per sacerdoti, frequentemente chiusi in una visione pessimistica della vita e della società. Lei parla il linguggio della speranza che intendo sottolineare in questa mia riflessione pomeridiana.

La speranza è intimamente e strettamente congiunta con la fede (Ebr 11,1). «Infatti ciò che forma l’oggetto della fede, la potenza di Dio che in Cristo opera la salvezza del mondo, è nello stesso tempo il motivo della nostra speranza; chi si incammina nella fede non può far a meno della speranza (Tt 1,1)» (F.X. Durrwell). I battezzati sono dei credenti e sono degli uomini che sperano in Cristo (1 Cor 15,18).

La speranza per Victorine, come per tutti i cristiani, ma in grado superiore all’agire comune, sgorga dalla sua fede intensa e gli dà coraggio nei suoi ardimenti, nelle sue imprese e nelle sue prove. Alle sue figlie oppresse dalle fatiche raccomanda di alzare gli occhi al cielo e ringraziare sempre il buon Dio, essendo di passaggio in questa terra e diretti verso la gloria del cielo. Ecco un suo tipico modo di pensare e di ragionare. La sua mente non si fissa nel passato, non si chiude nell’attimo presente, si protende, come per istinto, verso le realtà ultime. Tutte le umiliazioni subite soprattutto nell’abito ecclesiastico non smontano nel suo cuore la capacità di guardare avanti e soprattutto di andare avanti, senza mai fermarsi. La sua vita quotidiana evidenzia questo dinamismo interiore, improntato alla speranza, che non si ferma davanti ai problemi di tutti i giorni, ma anche davanti a quelli più seri e consistenti. Passare da una città all’altra per seguire il padre e lasciare le sue abitudini, le sue amicizie.

Scrive nel suo diario spirituale: “Ma perché affliggermi? Perderò l’amicizia, questo bene così prezioso che consola le anime? No, il sento nel mio cuore che si accresce di metà e che l’assenza ancora ne raddoppia le fiamme. Ah, guai al cuore freddo, che sopporta senza dolore la partenza di un amico, o la sua perdita sicura… Perché, per chi sa sentire o comprendere la pena, doloroso ricordo è ancora una felicità”. Sempre su questo tema, in una nota autobiografica, dichiara senza peli sulla lingua: “Mezzo secolo quasi di prove delicate, dolorose e anche terribili, oltre a crudeli delusioni mi hanno dato una larga esperienza e hanno rafforzato le mie convinzioni”.

La sua speranza è aperta alla possibilità di avere anche un buon numero di persone che seguiranno lei, ma soprattutto il Signore, artefice primo della sua opera: “Se a Lui piacerà –scrive – si troveranno anime che mi seguiranno in questa vita, perché ce ne sono di quelle che, come me, hanno subito lunghe prove nel mondo. Poi quando giungerà per esse un’era di calma e di libertà e quando, nel chiedere asilo in qualche porto religioso ne saranno tenute lontane dai principi severi di una regola ormai vecchia”.

Senza anelito verso l’eterno non c’è speranza. Il pensiero del paradiso, motivo di speranza, è una dominante della sua vita, dei suoi scritti biografici. Scrive infatti sul tema della formazione alla vita cristiana dei ragazzi: “Bisogna che i ragazzi ci siamo debitori della vita eterna più che della vita del corpo e dell’intelligenza e che ci dimostriamo vere madri con le cure e con gli esempi, che non ci stanchiamo in questo lavoro delicato e faticoso”. Ed aggiunge: “la menzogna e la vanità hanno viziato l’aria che questi poveri esseri respirano fin dalla culla. Solo la carità divina può preservarli o strapparli dalla corruzione”.

La speranza, pur conoscendo il “già” della salvezza, non trascura il “non ancora”; non ignora i rischi e le difficoltà, che incontra l’uomo decaduto incline al male, che vive e fa la storia; gli infonde perciò la certezza soprannaturale della presenza e dell’aiuto onnipotente del Risorto e del suo Spirito. L’intelligenza della fede, che porta Victorine ad aprirsi con lucidità sul male del mondo da curare e prevenire e sulle immense possibilità di bene da far crescere, stimolava potentemente il dinamismo della sua speranza e lo lanciava all’azione.  Tutto da Dio e da Cristo, «nostra speranza» (1Tim 1,1), nostro Salvatore.

La speranza è un atteggiamento onnipresente nella vita di Victorine, quanto la fede e la carità. La speranza è l’attesa dei beni futuri, lo slancio verso il possesso di Dio, la certezza del Dio «davanti a sé»; e, inseparabilmente, la confidenza illimitata nella potenza soccorritrice del Padre, di Gesù. È la voce di coraggio dello Spirito Santo, che la lancia in imprese ardimentose, inedite, non esenti da rischi. La Scrittura insegna che la speranza, anche se alata, non va esente da oscurità e tentazioni, non è sempre trionfante; comporta lotta, combattimento, prova. Anche da questo punto di vista Victorine si rivela grande nella speranza, perché capace di «sperare contro ogni speranza» e di tentare l’umanamente impossibile confidando nella forza di Dio.

Ormai 50enne, scriveva ad una sua amica, che voleva sapere di lei e che  Victorine non vedeva da moltissimi anni, e alla quale parlava della sua trasformazione fisica, frutto degli anni che erano passati, ma sottolineava un aspetto importante della sua vita interiore: “Del mio spirito il vigore è estremo, lo stesso fuoco brilla ancora nei miei occhi. Il mio cuore, ardente della più nobile fiamma, non ha perduto il minimo ricordo e nei suoi desideri, senza tregua, ancora l’anima mia aspira al giorno che non deve finire. Nel camminare tenendo di mira il mio desiderio come tutto è lungo… quando spesso fa buio… quanti dolori hanno disseminato la mia vita! A volte anche si indebolisce la mia speranza… il mio cuore si sprofonda e poi si rialza. S’, la felicità fuggendo dice addio, io mi consolo, e la strada giunge al termine credendo che infine si trova tutto in Dio”

 

Ripeteva spesso: «Posso tutto in Colui che mi conforta» (Fil 4,13). La frase di S. Paolo: «Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili con la gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8,18) è un suo motivo ricorrente. Ripetiamo ancora che la sua speranza era ferma e incrollabile, perché ancorata al “già” della Pasqua del Signore, della Pentecoste, della realtà della Chiesa, dei sacramenti, delle primizie dello Spirito Santo, che ci sono date in germe, ragione non ultima della sua instancabile attività.

 

Tra i frutti più belli della speranza nella vita di Victorine ricordiamo: la “gioia” prorompente, insita nella certezza del “già” della fede; la “pazienza” inalterabile nelle prove, legata alle esigenze del “non ancora”; la sua sensibilità pedagogica, nella quale hanno grande parte la fiducia nelle risorse positive della personalità giovanile, la magnanimità, l’avvedutezza, la santa furbizia, virtù tipiche di chi crede e spera fermamente che il suo futuro «non delude».

 

In una parola come in cento, quando esortava le sue figlie spirituali più vicine spiritualmente e pastoralmente a lei a «lavorare con speranza», Victorine le invitava a guardare al paradiso per il quale siamo fatti; a confidare nell’aiuto onnipotente del Padre celeste e di Maria; ma, nello stesso tempo, ad impegnarsi a fondo per combattere i germi del male che infestano il mondo, e a sviluppare, ottimisticamente, quelli del bene, per costruire un avvenire migliore per la Chiesa ed il mondo. Questo significava per lei «lavorare con speranza».

Molto importanti le sue ultime parole dette prima di morire. Il suo testamento spirituale lo troviamo sintetizzate in parole di perdono, speranza, fiducia totale nella misericordia di Dio: “Io perdono tutti quelli che mi hanno fatto del male e perdono di cuore le vostre debolezze. Vi raccomando i bambini, amateli, curateli. Io non vi abbandonerò, veglierò su di voi e vi avviserò di ogni cosa. Siate sicure che l’opera crescerà. Quello che non ho potuto fare per voi su questa terra, lo faò nel cielo. Vi raccomando la pace, la gravità religiosa, l’umiltà, la semplicità, la verità. Non piangete, io sarò sempre vicino a voi. Vi ringrazio di quello che avete fatto per me. Vedete? Come il tempo passa. Oh come sono contenta di morire!”. Era il 26 ottobre 1884 quando la speranza di conquistare la vita eterna per Victorine, divenne la realtà, perché chiudeva gli occhi a questo mondo per aprirli nell’eternità con queste ultime meravigliose parole che disse prima di esalare l’ultimo respiro della sua vita: “Mio Dio vi amo con tutto il cuore, intendo e prometto di amarvi per tutta l’eternità. Mio Dio, non siate giudice ma salvatore”.

Calvi Risorta. Il raduno annuale degli ex-alunni dei passionisti

calvi123-600x250.jpgCalvi Risorta (Ce). Annuale raduno degli ex-alunni passionisti

 

di Antonio Rungi

 

Il 25 aprile 2013 si svolgerà come ogni anno il periodico incontro tra tutti gli ex-alunni che hanno frequentato la scuola apostolica dei padri passionisti, a Calvi Risorta, in provincia di Caserta, dall’inizio del secolo XX alla fine dello stesso secolo, quando fu chiusa definitivamente questa struttura di formazione dei futuri religiosi e sacerdoti per mancanza di vocazione. Si tratta del 23 raduno annuale, tanti quanti conta gli anni dell’associazione degli ex-allievi dei passionisti.

Nella scuola apostolica di Calvi Risorta, in quasi 100 anni di attività sono transitati migliaia di ragazzi e giovani, diversi dei quali sono approdati al sacerdozio o alla vita consacrata, oppure hanno lasciato per motivi personali ed ora vivono nella società con famiglia a carico, impegnati in tanti settori.

Tutti gli ex-alunni sono riuniti in un’associazione, riconosciuta, e che organizza vari momenti di preghiera e di incontri formativi, tra i quali eccelle quello del 25 aprile, quando quasi tutti gli ex-allievi dei passionisti raggiungono Calvi Risorta per una giornata di preghiera e di riflessione.

Quest’anno, nell’anno della fede, si è voluto dare maggiore risalto al dialogo interreligioso ed interculturale, per meglio rispondere in Italia e altrove alle varie richieste di formazione del laicato cattolico attraverso la parola della Croce, che è stato il motivo centrale della vita del fondatore dei Passionisti, che è San Paolo della Croce.

Il nutrito programma della giornata è stato predisposto dal presidente dell’associazione, professore Antonio Romano e dal consiglio direttivo e dall’assistente spirituale padre Ludovico Izzo.

Vari gli interventi previsti durante la mattinata, che si concluderà con la concelebrazione eucaristica, presieduta dal Consultore generale dei Passionisti, padre Giuseppe Adobati Carrara, ricordando un importante traguardo di vita sacerdotale, dei 60 anni di presbiterato, dei padri Renato Santilli e Carmine Flaminio, missionari passionisti di lungo corso. Sarà un momento per pregare il Signore perché mandi santi sacerdoti, religiosi e laici alla sua chiesa, in un tempo di crisi vocazionali in Occidente.

Tutta la manifestazione si svolge nel grande convento dei passionisti di Calvi Risorta, una volta seminario diocesano della Diocesi di Teano-Calvi, oggi guidata dal giovane vescovo, monsignor Arturo Aiello.

 

IL PROGRAMMA DETTAGLIATO DELLA GIORNATA

Ore 9,15 – Arrivi degli ex alunni passionisti e della BANDA MUSICALE dell’I. C. “Cales”.

Ore 9,45 – OMAGGIO DELL’ASEAP AI CADUTI IN GUERRA: partecipano le Associazioni, le Autorità militari, civili, scolastiche e religiose. Saluto del SINDACO prof. ANTONIO Caparco e riflessione del Rev. P. AMEDEO De Francesco, Superiore Passionista. Foto di gruppo. Rientro, in corteo, nel Cappellone della Scuola Apostolica.

Ore 10,45- Saluto e comunicazioni del Rev p. LUDOVICO Izzo, assistente spirituale Aseap.

Ore 11,00- CULTURE A CONFRONTO: il Rev. P. BERNARD MAYELE, passionista congolese, interagisce con gli alunni. Interventi degli studenti. Presenta e modera l’incontro il dirigente scolastico dott. ANDREA Izzo.

Ore 11,30 -INTERVALLO MUSICALE della Schola Cantorum “Cales”, diretta dal M° prof. Raffaele Di Iorio, che dirige anche i canti liturgici della Santa Messa Solenne.

Ore 11,45 -CONCORSO SCOLASTICO (significato, modalità e partecipazione): intervento della dott.ssa ASSUNTA ADRIANA ROVIELLO, dirigente scolastico dell’ I. C. “Cales”.

Ore 12,00 –VITA AL SEMINARIO: il M.Rev.do P. ENZO DEL BROCCO, Superiore Provinciale Passionista, premia i vincitori del concorso scolastico.

Ore 12,30-SOLENNE CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA: 60° di Sacerdozio dei PP. Renato Santillo e Carmine Flaminio, 40° di p. Amedeo De Francesco e 1° Anniversario di Matrimonio del socio Pasquale Belluccio . PRESIEDE E TIENE l’OMELIA il Rev.mo Padre GIUSEPPE ADOBATI CARRARA, Consultore Generale della Congregazione dei Passionisti. – Saluto ufficiale del prof. ANTONIO Romano, presidente Aseap. – Intervento conclusivo del Rev.mo P. Enzo Del Brocco, Superiore Provinciale. Pomeriggio libero per scambio di esperienze o per eventuali visite alla tomba di P. Bartolomeo e/o alla piccola Lourdes.

Roma. La meditazione di oggi alle Suore di Gesù Redentore

RITIRO SPIRITUALE – SUORE GESU’ REDENTORE

ROMA – DOMENICA 21 APRILE 2013 – ORE 16,00

 

Le virtù teologali nella serva di Dio Victorine Le Dieu

Nella fede la forza, nella carità l’amore, nella speranza la gioia

di padre Antonio Rungi, passionista

 

1.Intoduzione

 

Nell’anno della fede, a metà del suo percorso, le figure dei santi vengono riproposte alla nostra attenzione per meglio vivere la dimensione cristiana della nostra esistenza. Un esempio mirabile in questa direzione è la fondatrice delle Suore di Gesù Redentore, la Serva di Dio Victorine Le Dieu, che sulle tre virtù fondamentali per ogni battezzato, le virtù teologali, ha fondato il suo cammino di santità, non ancora riconosciuto ufficialmente, ma in fase  di dichiarazione. In questa riflessione, mi soffermo sulla vita della speranza, forti dell’insegnamento di Papa Benedetto, che nell’Enciclica Spe salvi lega inscindibilmente la virtù della fede con la speranza.

 

2. L’enciclica Spe salvi di Papa Benedetto XVI

 

Egli scrive, infatti, la fede è speranza.  «Speranza», di fatto, è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole «fede» e «speranza» sembrano interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla « pienezza della fede » (10,22) la «immutabile professione della speranza » (10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l’equivalente di « fede ». Quanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l’aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto l’esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero « senza speranza e senza Dio nel mondo » (Ef 2,12)…Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete «affliggervi come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4,13). Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una «buona notizia» – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti.  Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”.

In che cosa consiste questa speranza che, come speranza, è « redenzione »? Il nucleo della risposta è dato nel brano della Lettera agli Efesini, i quali prima dell’incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano «senza Dio nel mondo ». Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall’incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile.

 

3.La giornata del buon Pastore. Il messaggio di Papa Benedetto XVI

 

Entriamo nel discorso, più che ci interessa direttamente.

Questo nostro incontro si svolge in una giornata speciale: la giornata mondiale delle vocazioni e quarta domenica del tempo di Pasqua, dedicata al Buon Pastore. Vorrei partire dal messaggio del Papa emerito, Benedetto XVI, per questa giornata di oggi sul tema: Le vocazioni segno della speranza fondata sulla fede, “che ben si inscrive nel contesto dell’Anno della fede e nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Il Servo di Dio Paolo VI, durante l’Assise conciliare, istituì questa Giornata di invocazione corale a Dio Padre affinché continui a mandare operai per la sua Chiesa (cfr Mt 9,38). «Il problema del numero sufficiente dei sacerdoti – sottolineò allora il Pontefice – tocca da vicino tutti i fedeli: non solo perché ne dipende l’avvenire religioso della società cristiana, ma anche perché questo problema è il preciso e inesorabile indice della vitalità di fede e di amore delle singole comunità parrocchiali e diocesane, e testimonianza della sanità morale delle famiglie cristiane. Ove numerose sbocciano le vocazioni allo stato ecclesiastico e religioso, là si vive generosamente secondo il Vangelo».

In questi decenni, le diverse comunità ecclesiali sparse in tutto il mondo si sono ritrovate spiritualmente unite ogni anno, nella quarta domenica di Pasqua, per implorare da Dio il dono di sante vocazioni e per riproporre alla comune riflessione l’urgenza della risposta alla chiamata divina. Questo significativo appuntamento annuale ha favorito, infatti, un forte impegno a porre sempre più al centro della spiritualità, dell’azione pastorale e della preghiera dei fedeli l’importanza delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata.

La speranza è attesa di qualcosa di positivo per il futuro, ma che al tempo stesso deve sostenere il nostro presente, segnato non di rado da insoddisfazioni e insuccessi. Dove si fonda la nostra speranza? Guardando alla storia del popolo di Israele narrata nell’Antico Testamento, vediamo emergere, anche nei momenti di maggiore difficoltà come quelli dell’esilio, un elemento costante, richiamato in particolare dai profeti: la memoria delle promesse fatte da Dio ai Patriarchi; memoria che chiede di imitare l’atteggiamento esemplare di Abramo, il quale, ricorda l’Apostolo Paolo, «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: così sarà la tua discendenza» (Rm 4,18). Una verità consolante e illuminante che emerge da tutta la storia della salvezza è allora la fedeltà di Dio all’alleanza, alla quale si è impegnato e che ha rinnovato ogniqualvolta l’uomo l’ha infranta con l’infedeltà, con il peccato, dal tempo del diluvio (cfr Gen 8,21-22), a quello dell’esodo e del cammino nel deserto (cfr Dt 9,7); fedeltà di Dio che è giunta a sigillare la nuova ed eterna alleanza con l’uomo, attraverso il sangue del suo Figlio, morto e risorto per la nostra salvezza.

In ogni momento, soprattutto in quelli più difficili, è sempre la fedeltà del Signore, autentica forza motrice della storia della salvezza, a far vibrare i cuori degli uomini e delle donne e a confermarli nella speranza di giungere un giorno alla «Terra promessa». Qui sta il fondamento sicuro di ogni speranza: Dio non ci lascia mai soli ed è fedele alla parola data. Per questo motivo, in ogni situazione felice o sfavorevole, possiamo nutrire una solida speranza e pregare con il salmista: «Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza» (Sal 62,6). Avere speranza equivale, dunque, a confidare nel Dio fedele, che mantiene le promesse dell’alleanza.

In che cosa consiste la fedeltà di Dio alla quale affidarci con ferma speranza? Nel suo amore. Egli, che è Padre, riversa nel nostro io più profondo, mediante lo Spirito Santo, il suo amore (cfr Rm 5,5). E proprio questo amore, manifestatosi pienamente in Gesù Cristo, interpella la nostra esistenza, chiede una risposta su ciò che ciascuno vuole fare della propria vita, su quanto è disposto a mettere in gioco per realizzarla pienamente. L’amore di Dio segue a volte percorsi impensabili, ma raggiunge sempre coloro che si lasciano trovare. La speranza si nutre, dunque, di questa certezza: « Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16). E questo amore esigente, profondo, che va oltre la superficialità, ci dà coraggio, ci fa sperare nel cammino della vita e nel futuro, ci fa avere fiducia in noi stessi, nella storia e negli altri.

Nel Signore Risorto abbiamo la certezza della nostra speranza. Come avvenne nel corso della sua esistenza terrena, anche oggi Gesù, il Risorto, passa lungo le strade della nostra vita, e ci vede immersi nelle nostre attività, con i nostri desideri e i nostri bisogni. Proprio nel quotidiano continua a rivolgerci la sua parola; ci chiama a realizzare la nostra vita con Lui, il solo capace di appagare la nostra sete di speranza. Egli, Vivente nella comunità di discepoli che è la Chiesa, anche oggi chiama a seguirlo. E questo appello può giungere in qualsiasi momento. Anche oggi Gesù ripete: «Vieni! Seguimi!» (Mc 10,21). Per accogliere questo invito, occorre non scegliere più da sé il proprio cammino. Seguirlo significa immergere la propria volontà nella volontà di Gesù, dargli davvero la precedenza, metterlo al primo posto rispetto a tutto ciò che fa parte della nostra vita: alla famiglia, al lavoro, agli interessi personali, a se stessi. Significa consegnare la propria vita a Lui, vivere con Lui in profonda intimità, entrare attraverso di Lui in comunione col Padre nello Spirito Santo e, di conseguenza, con i fratelli e le sorelle. E questa comunione di vita con Gesù il «luogo» privilegiato dove sperimentare la speranza e dove la vita sarà libera e piena!

Le vocazioni sacerdotali e religiose nascono dall’esperienza dell’incontro personale con Cristo, dal dialogo sincero e confidente con Lui, per entrare nella sua volontà. È necessario, quindi, crescere nell’esperienza di fede, intesa come relazione profonda con Gesù, come ascolto interiore della sua voce, che risuona dentro di noi. Questo itinerario, che rende capaci di accogliere la chiamata di Dio, può avvenire all’interno di comunità cristiane che vivono un intenso clima di fede, una generosa testimonianza di adesione al Vangelo, una passione missionaria che induca al dono totale di sé per il Regno di Dio, alimentato dall’accostamento ai Sacramenti, in particolare all’Eucaristia, e da una fervida vita di preghiera” (Enc. Spe salvi, 34).

La preghiera costante e profonda fa crescere la fede della comunità cristiana, nella certezza sempre rinnovata che Dio mai abbandona il suo popolo e che lo sostiene suscitando vocazioni speciali, al sacerdozio e alla vita consacrata, perché siano segni di speranza per il mondo. I presbiteri e i religiosi, infatti, sono chiamati a donarsi in modo incondizionato al Popolo di Dio, in un servizio di amore al Vangelo e alla Chiesa, un servizio a quella salda speranza che solo l’apertura all’orizzonte di Dio può donare. Pertanto essi, con la testimonianza della loro fede e con il loro fervore apostolico, possono trasmettere, in particolare alle nuove generazioni, il vivo desiderio di rispondere generosamente e prontamente a Cristo che chiama a seguirlo più da vicino. Quando un discepolo di Gesù accoglie la divina chiamata per dedicarsi al ministero sacerdotale o alla vita consacrata, si manifesta uno dei frutti più maturi della comunità cristiana, che aiuta a guardare con particolare fiducia e speranza al futuro della Chiesa e al suo impegno di evangelizzazione. Esso infatti necessita sempre di nuovi operai per la predicazione del Vangelo, per la celebrazione dell’Eucaristia, per il Sacramento della Riconciliazione. Non manchino perciò sacerdoti zelanti, che sappiano accompagnare i giovani quali «compagni di viaggio» per aiutarli a riconoscere, nel cammino a volte tortuoso e oscuro della vita, il Cristo, Via, Verità e Vita (cfr Gv 14,6); per proporre loro, con coraggio evangelico, la bellezza del servizio a Dio, alla comunità cristiana, ai fratelli. Sacerdoti che mostrino la fecondità di un impegno entusiasmante, che conferisce un senso di pienezza alla propria esistenza, perché fondato sulla fede in Colui che ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,19). Ugualmente, auspico che i giovani, in mezzo a tante proposte superficiali ed effimere, sappiano coltivare l’attrazione verso i valori, le mete alte, le scelte radicali, per un servizio agli altri sulle orme di Gesù. Cari giovani, non abbiate paura di seguirlo e di percorrere le vie esigenti e coraggiose della carità e dell’impegno generoso! Così sarete felici di servire, sarete testimoni di quella gioia che il mondo non può dare, sarete fiamme vive di un amore infinito ed eterno, imparerete a «rendere ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15)!

 

4.Il Catechismo della Chiesa cattolica

 

Anche nel CCC cogliamo questo stretto legame tra fede e speranza: “Il dono della fede rimane in colui che non ha peccato contro di essa. Ma «la fede senza le opere è morta » (Gc 2,26). Se non si accompagna alla speranza e all’amore, la fede non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo corpo (CCC,1815)… La virtù della speranza risponde all’aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna. Lo slancio della speranza preserva dall’egoismo e conduce alla gioia della carità (CCC, 1818)…La speranza cristiana si sviluppa, fin dagli inizi della predicazione di Gesù, nell’annuncio delle beatitudini. Le beatitudini elevano la nostra speranza verso il cielo come verso la nuova Terra promessa; ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù. Ma per i meriti di Gesù Cristo e della sua passione, Dio ci custodisce nella speranza che « non delude » (Rm 5,5). La speranza è l’« àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra […] » là « dove Gesù è entrato per noi come precursore » (Eb 6,19-20). È altresì un’arma che ci protegge nel combattimento della salvezza: « Dobbiamo essere […] rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza » (1 Ts 5,8). Essa ci procura la gioia anche nella prova: « Lieti nella speranza, forti nella tribolazione » (Rm 12,12). Si esprime e si alimenta nella preghiera, in modo particolarissimo nella preghiera del Signore, sintesi di tutto ciò che la speranza ci fa desiderare (CCC,1820).

 

5.L’enciclica Deus caritas est

 

Nell’enciclica Deus caritas est di Papa Benedetto, viene messo in risalto, poi, lo stretto rapporto che intercorre tra fede, speranza e carità, le tre virtù teologali, fondamentali per camminare in santità di vita “Fede, speranza e carità vanno insieme. La speranza si articola praticamente nella virtù della pazienza, che non vien meno nel bene neanche di fronte all’apparente insuccesso, ed in quella dell’umiltà, che accetta il mistero di Dio e si fida di Lui anche nell’oscurità. La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! In questo modo essa trasforma la nostra impazienza e i nostri dubbi nella sicura speranza che Dio tiene il mondo nelle sue mani e che nonostante ogni oscurità Egli vince, come mediante le sue immagini sconvolgenti alla fine l’Apocalisse mostra in modo radioso. La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce — in fondo l’unica — che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire. L’amore è possibile, e noi siamo in grado di praticarlo perché creati ad immagine di Dio. Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo” (DCE, 39).

 

6.Victorine Le Dieu: una vita eroica

 

Quando si valuta la santità di una persona, passata alla gloria del cielo, la Chiesa si concentra in prima istanza sull’eroicità delle virtù, dichiarandola  venerabile. Si prende, infatti, in esame, il grado supremo con cui la persona avviata verso la beatificazione e la canonizzazione ha esercitato le tre virtù teologali: fede, speranza e carità e poi le altre virtù cardinali e morali. In poche parole si valuta la santità attraverso una risposta di fede, una carità operosa e una speranza illimitata in Dio. Victorine le Die ha vissuto tutto questo: nella fede ha trovato la forza in tutte le circostanze più dolore e conflittuale della vita di non arrendersi mai. E ne ha avuto prove, ha dovuto subire e sopportare tante umiliazioni. Nella carità che si fa l’amore adorante nella riparazione e nella riconciliazione, Victorine trova la sua sorgente della sua azione, per rispondere meglio all’invito del Papa, Pio IX, che la vuole impegnata, con tutto il suo nascente istituto nelle opere di carità. Dalla carità e dall’amore verso il Signore passa alla carità e all’amore verso i poveri ed i sofferenti del mondo, soprattutto i bambini e gli adolescenti. Nella speranza sperimenta la gioia del presente e del futuro, carico di segni sempre più evidenti della presenza di Dio e della vicinanza alla sua missione nella chiesa e nel mondo. Guarda al futuro, ma guarda soprattutto all’oggi. Nel suo diario spirituale scriverà pagine stupende sulle virtù teologali, soprattutto sulla fede e sulla speranza, su cui abbiamo riflettuto insieme in questo nostro incontro.

 

7.Conclusione

Concludo con il citare uno dei passaggi più belli dell’inizio di pontificato di Papa Francesco, tratto dall’omelia d Domenica delle Palme: “Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù”. Ed una citazione di Papa Benedetto XVI: “La vita è come un viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca, un viaggio nel quale scrutiamo gli astri che ci indicano la rotta. Le vere stelle della nostra vita sono le persone che hanno saputo vivere rettamente. Esse sono luci di speranza. Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza – lei che con il suo « sì » aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo; lei che diventò la vivente Arca dell’Alleanza, in cui Dio si fece carne, divenne uno di noi, piantò la sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv  1,14)?”(SS,39).

Alla Madonna ci rivolgiamo con la preghiera conclusiva dell’enciclica Deus caritas est: “Santa Maria, Madre di Dio, tu hai donato al mondo la vera luce, Gesù, tuo Figlio – Figlio di Dio. Ti sei consegnata completamente alla chiamata di Dio, e sei così diventata sorgente della bontà che sgorga da Lui. Mostraci Gesù. Guidaci a Lui. Insegnaci a conoscerlo e ad amarlo, perché possiamo anche noi diventare capaci di vero amore  ed essere sorgenti di acqua viva in mezzo a un mondo assetato”. Amen

MEDITAZIONE DI PADRE RUNGI ALLE SUORE ANCELLE DEL SACRO CUORE

SUORE ANCELLE DEL SACRO CUORE – FRATTAMAGGIORE (NA)

INCONTRO DI SPIRITUALITA’ – 18 APRILE 2013

 

LA FEDE FORTE E GENEROSA DI CATERINA VOLPICELLI

 

DI PADRE ANTONIO RUNGI – PASSIONISTA 

 

DAL MOTU PROPRIO “PORTA FIDEI” DI BENEDETTO XVI, NN 6-7

 

6. Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti: con la loro stessa esistenza nel mondo i cristiani sono infatti chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato. Proprio il Concilio, nella Costituzione dogmatica Lumen gentium, affermava: “Mentre Cristo, «santo, innocente, senza macchia» (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr 2Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa «prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio», annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr 1Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce” [11].

 

L’Anno della fede, in questa prospettiva, è un invito ad un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Nel mistero della sua morte e risurrezione, Dio ha rivelato in pienezza l’Amore che salva e chiama gli uomini alla conversione di vita mediante la remissione dei peccati (cfr  At 5,31). Per l’apostolo Paolo, questo Amore introduce l’uomo ad una nuova vita: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una nuova vita” (Rm 6,4). Grazie alla fede, questa vita nuova plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo vengono lentamente purificati e trasformati, in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita. La “fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6) diventa un nuovo criterio di intelligenza e di azione che cambia tutta la vita dell’uomo (cfr Rm 12,2; Col 3,9-10; Ef 4,20-29; 2Cor  5,17).

 

DALL’OMELIA DI PAPA BENEDETTO PER LA CANONIZZAZIONE DI CATERINA VOLPICELLI.

 

Testimone dell’amore divino fu anche santa Caterina Volpicelli, che si sforzò di “ essere di Cristo, per portare a Cristo” quanti ebbe ad incontrare nella Napoli di fine Ottocento, in un tempo di crisi spirituale e sociale. Anche per lei il segreto fu l’Eucaristia. Alle sue prime collaboratrici raccomandava di coltivare una intensa vita spirituale nella preghiera e, soprattutto, il contatto vitale con Gesù eucaristico. E’ questa anche oggi la condizione per proseguire l’opera e la missione da lei iniziate e lasciate in eredità alle “Ancelle del Sacro Cuore”. Per essere autentiche educatrici della fede, desiderose di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cultura cristiana, è indispensabile, come amava ripetere, liberare Dio dalle prigioni in cui lo hanno confinato gli uomini. Solo infatti nel Cuore di Cristo l’umanità può trovare la sua ‘stabile dimora”. Santa Caterina mostra alle sue figlie spirituali e a tutti noi, il cammino esigente di una conversione che cambi in radice il cuore, e si traduca in azioni coerenti con il Vangelo. E’ possibile così porre le basi per costruire una società aperta alla giustizia e alla solidarietà, superando quello squilibrio economico e culturale che continua a sussistere in gran parte del nostro pianeta.

 

LA FEDE FORTE E CORAGGIOSA DI CATERINA VOLPICELLI: VITA ED OPERE

 

1.   UNA FEDE SACRAMENTALE

2.   UNA FEDE ADORANTE

3.   UNA FEDE DI AUTENTICA CARITA’

4.   UNA FORTE FORTE NELLA TRIBOLAZIONE E NELLA PROVA

5.   UNA FEDE CORAGGIOSA NEL TESTIMONIARE L’AMORE DI DIO E DEI FRATELLI.

6.   UNA FEDE CHE PASSA ATTRAVERSO LA CROCE E LA SOFFERENZA

7.   UNA FEDE EUCARISTICA

8.   UNA FEDE MARIANA

9.   UNA FEDE DI INCENTRATA SUL CUORE AMABILISSIMO DI GESU’

10.               UNA FEDE PASQUALE

 

ALCUNI PENSIERI DI CATERINA VOLPICELLI SULLA FEDE

 

“Dobbiamo vivere di fede, perché tutto ciò che avviene è disposto da Dio per confermarci nel suo amore.

 

“La gioia è l’atto più bello della fede, speranza e amore nella vita di ogni cristiano”

 

“Oh che gran dono di Dio è la fede! Come co solleva e rende felici anche in questa valle di lacrime.

 

“Accendetevi di fede e sarete forti nella debolezza, allegri nella tristezza, sani nell’infermità”.

 

“Cerchiamo insieme il volto sorridente di Dio, gustiamo il suo amore e la sua tenerezza”.

 

“Dilatiamo il cuore e crediamo nell’amore di Dio per noi, con illimitata fiducia nella sua bontà”.

 

“Ascoltate sempre la parola di Dio con fede ed umiltà, senza badare a chi ve l’annuncia”.

 

“Rivestitevi di fede, offrite a Gesù le cadute e pregatelo di rialzarvi e preservarvi”.

 

Nasce a Napoli il 21 gennaio 1839, da una famiglia dell’alta borghesia. Educata in casa, secondo i sani valori della tradizione del Meridione d’Italia, passa poi a completare la sua formazione nel Real Collegio

di s. Marcellino, avendo così un alto grado di cultura, cosa non comune per una donna del suo .tempo.

Desiderando di poter raggiungere “l’intima unione con Dio” entra a 20 anni nel Monastero delle Adoratrici Perpetue, ma deve lasciare dopo sei mesi per la salute cagionevole, il beato Ludovico da Casoria “amico dell’anima sua” glielo aveva predetto ripetendogli: “Il Cuore di Gesù, o Caterina, questa è l’opera tua”.

Nel 1864 viene a conoscenza dell’esistenza dell’Associazione ‘Apostolato della Preghiera’ e qui la sua vita ha una svolta decisiva.

Scrive al padre Enrico Ramière, che incontrerà anche personalmente e da lui riceverà tutte le notizie riguardo la nascente Associazione, di cui avrà il diploma di zelatrice (il primo a Napoli), ne diventerà il vero Centro per l’espandersi del Movimento.

Le prime zelatrici saranno anche le prime compagne di Caterina nell’apostolato e nella fondazione dell’Istituto delle Ancelle del Sacro Cuore.

Napoli è la patria di s. Tommaso e di s. Alfonso, i teologi dell’Eucaristia, che hanno segnato la pietà popolare e nel cui solco si colloca anche l’amore di Caterina Volpicelli per il ss. Sacramento. E’ l’Eucaristia la sorgente del suo convinto servizio alla Chiesa, articolato in un apostolato vario ed ispiratore di una famiglia religiosa. Considera la Chiesa il Corpo Mistico di Cristo e venera i Pastori con devozione filiale e eroica umiltà, accettando da loro ogni sorta di prova che richiedono.

Dalla sua casa partirà il beato Bartolo Longo, guarito in salute, convertito alla fede cattolica, diventato anch’esso zelatore dell’Apostolato della Preghiera, per cominciare la grande opera del Santuario di Pompei.

Lasciata la casa paterna, fissa la sua dimora e la sede delle sue opere in Largo Petrone alla Salute ove in seguito, auspice il cardinale arcivescovo Sisto Riario Sforza, per la presenza di gesuiti insigni, di P. Ludovico, per la predicazione quasi ininterrotta di esercizi spirituali, diventerà un vivissimo Centro di spiritualità.

Dietro l’invito del cardinale, Caterina fonda l’Istituto delle Ancelle del s. Cuore che contrariamente agli Ordini religiosi femminili dell’epoca, dediti soprattutto alla contemplazione e alle opere assistenziali, sorge per l’apostolato e la santificazione delle anime. Non c’è un abito religioso, l’Istituto ha tre rami, uno religioso e due laicali, lo studio della teologia, il servizio della Chiesa sono tutte specifiche che anticipano quasi un secolo prima le novità del Concilio Ecumenico Vaticano II.

Il 14 maggio 1884, il nuovo arcivescovo di Napoli Guglielmo Sanfelice consacra il Santuario dedicato al Sacro Cuore eretto in adiacenza alla Casa Madre.

Il 21 novembre 1891 si celebra a Napoli il 1° Congresso Eucaristico Nazionale, alla Volpicelli e alle sue figlie viene dato l’incarico dell’organizzazione delle Adorazioni in Cattedrale, la preparazione alla confessione e Comunione generale, la gestione degli arredi sacri.

Il 28 dicembre 1894, Caterina Volpicelli, muore a soli 55 anni, a Napoli.

All’alba del III millennio, il papa Giovanni Paolo II, la proclama beata in Piazza s. Pietro il 29 aprile 2001, avverandosi così l’auspicio del suo primo biografo M. Jetti “Napoli abbia presto, al pari delle fortunate città di Alessandria, Siena, Genova e Bologna, la sua santa Caterina”.

E’ stata canonizzata a Roma da papa Benedetto XVI il 26 Aprile 2009.

 

La teologia della Croce di Papa Francesco Bergoglio

La teologia della Croce di Papa Francesco

 

di padre Antonio Rungi, passionista

 

Fin dai suoi primi interventi magisteriali, dal 13 marzo scorso, esattamente un mese fa, Papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, religioso della Compagnia di Gesù (Gesuiti) ha sottolineato l’importanza del mistero della Croce di Cristo e soprattutto del Cristo Crocifisso. Si tratta di un magistero sulla teologia della Croce o della Sapienza della Croce che è opportuno analizzare nella sua profondità dottrinale, ma anche pastorale e soprattutto ascetica.

La formazione teologica di Papa Bergoglio è una formazione tipicamente gesuita e come tale, nella spiritualità di Sant’Ignazio di Lojola, ha a cuore il mistero del redentore. La società di Gesù, la compagnia di Gesù non è solo un’istituzione religiosa di grande supporto al papato di ogni tempo, ma una realtà profondamente spirituale, nella chiesa e oltre i suoi confini, che ci fa toccare con mano, come San Tommaso Apostolo, quanti sia fondamentale l’approccio spirituale, biblico, teologico e pastorale per comprendere il mistero della redenzione del genere umano che fissa lo sguardo su due momenti importantissimi della vita di Cristo: la passione-morte in Croce e la sua Risurrezione.

Papa Francesco si ferma come il suo padre fondatore, Ignazio di Lojola, prima sul calvario o lungo la via del Calvario e poi davanti al mistero del sepolcro vuoto, che è il segnale evidente che Cristo è vincitore della morte e soprattutto di ogni morte che non considera Gesù Cristo come unico, vero salvatore del mondo. Rispondendo al saluto augurale del Preposito generale dei Gesuiti, per l’elezione al soglio pontificio di Papa Francesco, il Santo Padre scrive: “La ringrazio di cuore per questo segno di stima e vicinanza, che ricambio con piacere, chiedendo al Signore che illumini e accompagni tutti i Gesuiti affinché, fedeli al carisma ricevuto e sulle orme dei santi del nostro amato Ordine, possano essere, con l’azione pastorale ma soprattutto con la testimonianza di una vita interamente consacrata al servizio della Chiesa, Sposa di Cristo, lievito evangelico nel mondo, alla ricerca incessante della gloria di Dio e del bene delle anime” (1). Rispondendo al messaggio dell’Arcivescovo di Canterbury, Papa Francesco così scrive: “Il ministero pastorale è una chiamata a camminare nella fedeltà al Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo”(2).

Tanti i richiami fatti al mistero della morte in Croce di Gesù, sia nelle omelie, che nei discorsi, nelle udienze generali, nelle preghiera dell’Angelus e del Regina coeli, negli incontri ufficiali, nei messaggi e nelle lettere. Possiamo già indicare una linea di sviluppo della teologia della croce, secondo Papa Bergoglio.

Parto da due testi molto espliciti e specifici relativi alla Passione di Cristo. Il Video-messaggio per l’ostensione virtuale della Sacra Sindone e il discorso a conclusione della Via Crucis al Colosseo. Scrive Papa Francesco: “L’Uomo della Sindone ci invita a contemplare Gesù di Nazaret. Questa immagine – impressa nel telo – parla al nostro cuore e ci spinge a salire il Monte del Calvario, a guardare al legno della Croce, a immergerci nel silenzio eloquente dell’amore. Lasciamoci dunque raggiungere da questo sguardo, che non cerca i nostri occhi ma il nostro cuore. Ascoltiamo ciò che vuole dirci, nel silenzio, oltrepassando la stessa morte. Attraverso la sacra Sindone ci giunge la Parola unica ed ultima di Dio: l’Amore fatto uomo, incarnato nella nostra storia; l’Amore misericordioso di Dio che ha preso su di sé tutto il male del mondo per liberarci dal suo dominio. Questo Volto sfigurato assomiglia a tanti volti di uomini e donne feriti da una vita non rispettosa della loro dignità, da guerre e violenze che colpiscono i più deboli.

Nella sua breve riflessione a conclusione della Via Crucis al Colosseo, Papa Bergoglio riporta l’attenzione di tutti i presenti il mistero della sofferenza e morte di Gesù: “In questa notte deve rimanere una sola parola, che è la Croce stessa. La Croce di Gesù è la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo. A volte ci sembra che Dio non risponda al male, che rimanga in silenzio. In realtà Dio ha parlato, ha risposto, e la sua risposta è la Croce di Cristo: una Parola che è amore, misericordia, perdono. E’ anche giudizio: Dio ci giudica amandoci. Ricordiamo questo: Dio ci giudica amandoci. Se accolgo il suo amore sono salvato, se lo rifiuto sono condannato, non da Lui, ma da me stesso, perché Dio non condanna, Lui solo ama e salva. La parola della Croce è anche la risposta dei cristiani al male che continua ad agire in noi e intorno a noi. I cristiani devono rispondere al male con il bene, prendendo su di sé la Croce, come Gesù… Allora continuiamo questa Via Crucis nella vita di tutti i giorni. Camminiamo insieme sulla via della Croce, camminiamo portando nel cuore questa Parola di amore e di perdono. Camminiamo aspettando la Risurrezione di Gesù, che ci ama tanto. E’ tutto amore”.

Nell’udienza al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Papa Francesco, il 22 marzo scorso, precisava anche il motivo della scelta del nome del Povero d’Assisi, dicendo senza mezze misure che la sua povertà e la sua vicinanza alla sofferenza umana che lo aveva convinto immediatamente per optare per questo nome, ma anche il tema della pace e della fraternità, che trovano la loro sorgente in Gesù Cristo e nel suo sacrificio sulla Croce: “Uno dei primi è l’amore che Francesco aveva per i poveri. Quanti poveri ci sono ancora nel mondo! E quanta sofferenza incontrano queste persone! Sull’esempio di Francesco d’Assisi, la Chiesa ha sempre cercato di avere cura, di custodire, in ogni angolo della Terra, chi soffre per l’indigenza e penso che in molti dei vostri Paesi possiate constatare la generosa opera di quei cristiani che si adoperano per aiutare i malati, gli orfani, i senzatetto e tutti coloro che sono emarginati, e che così lavorano per edificare società più umane e più giuste.  Ma c’è anche un’altra povertà! È la povertà spirituale dei nostri giorni, che riguarda gravemente anche i Paesi considerati più ricchi”.

Significativo è il discorso di Papa Francesco sul tema della croce, all’incontro con i rappresentanti delle chiese e delle comunità ecclesiali e delle altre religioni, tenuto il 20 marzo 2013. Egli scrive: L’anno della fede è “una sorta di pellegrinaggio verso ciò che per ogni cristiano rappresenta l’essenziale: il rapporto personale e trasformante con Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per la nostra salvezza. Proprio nel desiderio di annunciare questo tesoro perennemente valido della fede agli uomini del nostro tempo, risiede il cuore del messaggio conciliare… Noi possiamo fare molto per il bene di chi è più povero, di chi è debole e di chi soffre, per favorire la giustizia, per promuovere la riconciliazione, per costruire la pace.

Non dimentica, Papa Francesco, il tema del dolore, della croce, quando si rivolge ai giornalisti, durante l’udienza particolare concessa a loro, il 16 marzo 2013.

Gli eventi ecclesiali non sono certamente più complicati di quelli politici o economici! Essi però hanno una caratteristica di fondo particolare: rispondono a una logica che non è principalmente quella delle categorie, per così dire, mondane, e proprio per questo non è facile interpretarli e comunicarli ad un pubblico vasto e variegato. La Chiesa, infatti, pur essendo certamente anche un’istituzione umana, storica, con tutto quello che comporta, non ha una natura politica, ma essenzialmente spirituale: è il Popolo di Dio, il Santo Popolo di Dio, che cammina verso l’incontro con Gesù Cristo. Soltanto ponendosi in questa prospettiva si può rendere pienamente ragione di quanto la Chiesa Cattolica opera. Cristo è il Pastore della Chiesa, ma la sua presenza nella storia passa attraverso la libertà degli uomini: tra di essi uno viene scelto per servire come suo Vicario, Successore dell’Apostolo Pietro, ma Cristo è il centro, non il Successore di Pietro: Cristo. Cristo è il centro. Cristo è il riferimento fondamentale, il cuore della Chiesa. Senza di Lui, Pietro e la Chiesa non esisterebbero né avrebbero ragion d’essere”

Papa Bergoglio nel riportare quanto è avvenuto nel conclave, pone la sua attenzione sul discorso dei poveri. La croce è amore per i poveri e scelta di povertà nella chiesa: “Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della Congregazione per il Clero, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico, un grande amico! Quando la cosa diveniva un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: “Non dimenticarti dei poveri!”. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. E’ per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? E’ l’uomo che ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero … Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”.

Se qualche accenno diretto o indiretto al tematica della croce lo troviamo nei documenti fin qui citati, nel discorso del Santo Padre Francesco, a tutti i Cardinali, in occasione della sua elezione a Romano Pontefice, è più preciso sul rapporto tra croce e gioia: “Non cediamo mai al pessimismo, a quell’amarezza che il diavolo ci offre ogni giorno; non cediamo al pessimismo e allo scoraggiamento: abbiamo la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra (cfr At 1,8). La verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde al bisogno profondo dell’esistenza umana, annunciando in maniera convincente che Cristo è l’unico Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Questo annuncio resta valido oggi come lo fu all’inizio del cristianesimo, quando si operò la prima grande espansione missionaria del Vangelo.

Così pure un richiamo indiretto lo troviamo nel primo saluto del Santo Padre, a qualche ora dalla sua elezione, parlando dalla loggia delle benedizioni ed impartendo la benedizioni Urbi et Orbi a tutti i fedeli presenti in Piazza San Pietro il giorno 13 marzo 2013 vero le 21.00 di sera e a quanti avevano seguito la sua elezioni per televisione e con altri mezzi di comunicazione moderna, dove la croce è intesa come cammino di Chiesa, come comunione e fratellanza:  “E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza.

Il magistero di Papa Francesco sul mistero della passione e morte in croce di Gesù si evidenzia in modo teologicamente e biblicamente supportato nelle varie omelie che finora ha tenuto il Papa in occasione di varie celebrazioni.

Parto in questa sintesi del suo pensiero passiologico dalla prima omelia tenuta durante la messa, celebrata con tutti i cardinali, all’indomani della sua elezione a Romano Pontefice, il giorno 14 marzo 2013. In questa catechesi e meditazione sulla Passione di Cristo, Papa Bergoglio ci dona il programma di come metterci alla sequela di Cristo e come imitarne il suo comportamento: “Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore. Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia, abbiamo il coraggio, proprio il coraggio, di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti.  Camminare, edificare, confessare Gesù Cristo Crocifisso”. Così sia.

Nella domenica delle Palme, domenica della Passione, con la solenne liturgia della benedizione delle Palme, in Piazza San Pietro, il giorno 24 marzo, Papa Francesco, ritorna sul tema della croce. Ecco la sua attenta riflessione, che diventa motivo di meditazione sul mistero della croce e del Crocifisso: “Gesù ha risvegliato nel cuore tante speranze soprattutto tra la gente umile, semplice, povera, dimenticata, quella che non conta agli occhi del mondo. Lui ha saputo comprendere le miserie umane, ha mostrato il volto di misericordia di Dio e si è chinato per guarire il corpo e l’anima. Questo è Gesù. Questo è il suo cuore che guarda tutti noi, che guarda le nostre malattie, i nostri peccati. E’ grande l’amore di Gesù. E così entra in Gerusalemme con questo amore, e guarda tutti noi. E’ una scena bella: piena di luce – la luce dell’amore di Gesù, quello del suo cuore – di gioia, di festa…Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo! Non lasciatevi prendere mai dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù…Gesù non entra nella Città Santa per ricevere gli onori riservati ai re terreni, a chi ha potere, a chi domina; entra per essere flagellato, insultato e oltraggiato, come preannuncia Isaia nella Prima Lettura (cfr Is 50,6); entra per ricevere una corona di spine, un bastone, un mantello di porpora, la sua regalità sarà oggetto di derisione; entra per salire il Calvario carico di un legno. E allora ecco la seconda parola: Croce. Gesù entra a Gerusalemme per morire sulla Croce. Ed è proprio qui che splende il suo essere Re secondo Dio: il suo trono regale è il legno della Croce! … Perché la Croce? Perché Gesù prende su di sé il male, la sporcizia, il peccato del mondo, anche il nostro peccato, di tutti noi, e lo lava, lo lava con il suo sangue, con la misericordia, con l’amore di Dio. Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all’umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole, sete di denaro, che poi nessuno può portare con sé, deve lasciarlo. Mia nonna diceva a noi bambini: il sudario non ha tasche. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il creato! E anche – ciascuno di noi lo sa e lo conosce – i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera creazione. E Gesù sulla croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua risurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati e di fare un pochettino quello che ha fatto Lui quel giorno della sua morte…Con Cristo il cuore non invecchia mai! Però tutti noi lo sappiamo e voi lo sapete bene che il Re che seguiamo e che ci accompagna è molto speciale: è un Re che ama fino alla croce e che ci insegna a servire, ad amare. E voi non avete vergogna della sua Croce! Anzi, la abbracciate, perché avete capito che è nel dono di sé, nel dono di sé, nell’uscire da se stessi, che si ha la vera gioia e che con l’amore di Dio Lui ha vinto il male. Voi portate la Croce pellegrina attraverso tutti i continenti, per le strade del mondo! La portate rispondendo all’invito di Gesù «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (cfr Mt 28,19), che è il tema della Giornata della Gioventù di quest’anno. La portate per dire a tutti che sulla croce Gesù ha abbattuto il muro dell’inimicizia, che separa gli uomini e i popoli, e ha portato la riconciliazione e la pace”.

Non mancano riferimenti puntuali alla croce, al dolore nelle altre omelie che finora ha pronunciato Papa Francesco, come quella della Domenica in Albis: “Vorrei sottolineare un altro elemento: la pazienza di Dio deve trovare in noi il coraggio di ritornare a Lui, qualunque errore, qualunque peccato ci sia nella nostra vita. Gesù invita Tommaso a mettere la mano nelle sue piaghe delle mani e dei piedi e nella ferita del costato. Anche noi possiamo entrare nelle piaghe di Gesù, possiamo toccarlo realmente; e questo accade ogni volta che riceviamo con fede i Sacramenti… É proprio nelle ferite di Gesù che noi siamo sicuri, lì si manifesta l’amore immenso del suo cuore.  Questo è importante: il coraggio di affidarmi alla misericordia di Gesù, di confidare nella sua pazienza, di rifugiarmi sempre nelle ferite del suo amore. Forse qualcuno di noi può pensare: il mio peccato è così grande, la mia lontananza da Dio è come quella del figlio minore della parabola, la mia incredulità è come quella di Tommaso; non ho il coraggio di tornare, di pensare che Dio possa accogliermi e che stia aspettando proprio me. Ma Dio aspetta proprio te, ti chiede solo il coraggio di andare a Lui…Gesù è diventato nudo per noi, si è caricato della vergogna di Adamo, della nudità del suo peccato per lavare il nostro peccato: dalle sue piaghe siamo stati guariti. Ricordatevi quello di san Paolo: di che cosa mi vanterò se non della mia debolezza, della mia povertà? Proprio nel sentire il mio peccato, nel guardare il mio peccato io posso vedere e incontrare la misericordia di Dio, il suo amore e andare da Lui per ricevere il perdono…Nella mia vita personale ho visto tante volte il volto misericordioso di Dio, la sua pazienza; ho visto anche in tante persone il coraggio di entrare nelle piaghe di Gesù dicendogli: Signore sono qui, accetta la mia povertà, nascondi nelle tue piaghe il mio peccato, lavalo col tuo sangue. E ho sempre visto che Dio l’ha fatto, ha accolto, consolato, lavato, amato” (3).

Diversi gli accenni del Santo Padre al mistero della morte di Cristo, nell’omelia tenuta durante la veglia pasquale, sabato santo, 30 marzo 2013, in Basilica: Le donne “avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro… Non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui…Nulla rimane più come prima, non solo nella vita di quelle donne, ma anche nella nostra vita e nella nostra storia dell’umanità. Gesù non è un morto, è risorto, è il Vivente! Non è semplicemente tornato in vita, ma è la vita stessa, perché è il Figlio di Dio, che è il Vivente (cfr Nm 14,21-28; Dt 5,26; Gs 3,10). Gesù non è più nel passato, ma vive nel presente ed è proiettato verso il futuro, Gesù è l’«oggi» eterno di Dio. Così la novità di Dio si presenta davanti agli occhi delle donne, dei discepoli, di tutti noi: la vittoria sul peccato, sul male, sulla morte, su tutto ciò che opprime la vita e le dà un volto meno umano. E questo è un messaggio rivolto a me, a te, cara sorella, a te caro fratello. Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza… e lì sta la morte. Non cerchiamo lì Colui che è vivo!.. Accetta allora che Gesù Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con fiducia: Lui è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo passo: ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta di rischiare: non sarai deluso. Se ti sembra difficile seguirlo, non avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che Lui ti è vicino, è con te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui vuole… Fare memoria di quello che Dio ha fatto e fa per me, per noi, fare memoria del cammino percorso; e questo spalanca il cuore alla speranza per il futuro. Impariamo a fare memoria di quello che Dio ha fatto nella nostra vita!

Andando a ritroso nel suo parlare della croce di Cristo, significativi riferimenti troviamo nell’omelia dettata durante la messa del crisma, Giovedì santo, 28 marzo 2013, alla presenza dei cardinali, vescovi e soprattutto per i sacerdoti:  “Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia. La nostra gente gradisce il Vangelo predicato con l’unzione, gradisce quando il Vangelo che predichiamo giunge alla sua vita quotidiana, quando scende come l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà, quando illumina le situazioni limite, “le periferie” dove il popolo fedele è più esposto all’invasione di quanti vogliono saccheggiare la sua fede. La gente ci ringrazia perché sente che abbiamo pregato con le realtà della sua vita di ogni giorno, le sue pene e le sue gioie, le sue angustie e le sue speranze. E quando sente che il profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore: “preghi per me, padre, perché ho questo problema”, “mi benedica, padre”, “preghi per me”, sono il segno che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché viene trasformata in supplica, supplica del Popolo di Dio. Quando siamo in questa relazione con Dio e con il suo Popolo e la grazia passa attraverso di noi, allora siamo sacerdoti, mediatori tra Dio e gli uomini. ..Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco – non dico “niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione – si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini.

Altri riferimenti troviamo sul tema della croce nell’omelia, pronunciata durante la santa messa per l’imposizione del pallio e la consegna dell’anello del pescatore, in occasione dell’ inizio del ministero petrino, coinciso con la solennità di San Giuseppe, sposo castissimo della Beata Vergine Maria e Patrono della chiesa universale, il 19 marzo 2013.

“Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, Giuseppe accompagna con premura e tutto l’amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù. Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!.

Il dolore, la croce, Papa Bergoglio la vede anche nelle vicende tristi della storia di ieri e di oggi: “In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna. Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!”.

Facendo riferimento alla sua persona, Papa Francesco ha detto: Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire!”. E qui il tema della Croce si evidenzia in tutta la sua portata di servizio, fino al martirio di se stesso come Gesù Crocifisso.

Un accenno ai questi temi di teologia della croce, troviamo poi, anche nel testo dell’omelia, pronunciata durante la messa nella parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, il 17 marzo 2013, nella quinta domenica del tempo quaresimale: “Per me, lo dico umilmente, è il messaggio più forte del Signore: la misericordia. Ma Lui stesso l’ha detto: Io non sono venuto per i giusti; i giusti si giustificano da soli.Io sono venuto per i peccatori (cfr Mc 2,17)…Non è facile affidarsi alla misericordia di Dio, perché quello è un abisso incomprensibile. Ma dobbiamo farlo! Torniamo al Signore. Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si stanca di perdonare. Chiediamo questa grazia.

Le tematiche di carattere passiologico vengono accennate anche nelle diverse meditazioni prima della recita dell’Angelus e del Regina coeli delle domeniche e feste. Molto significative sono le parole dette da Papa Francesco al Regina coeli della domenica in Albis, intiotolata dal Beato Giovanni Paolo II alla Divina Misericordia: “In ogni tempo e in ogni luogo sono beati coloro che, attraverso la Parola di Dio, proclamata nella Chiesa e testimoniata dai cristiani, credono che Gesù Cristo è l’amore di Dio incarnato, la Misericordia incarnata. E questo vale per ciascuno di noi! Agli Apostoli Gesù donò, insieme con la sua pace, lo Spirito Santo, perché potessero diffondere nel mondo il perdono dei peccati, quel perdono che solo Dio può dare, e che è costato il Sangue del Figlio (cfr Gv 20,21-23). La Chiesa è mandata da Cristo risorto a trasmettere agli uomini la remissione dei peccati, e così far crescere il Regno dell’amore, seminare la pace nei cuori, perché si affermi anche nelle relazioni, nelle società, nelle istituzioni. E lo Spirito di Cristo Risorto scaccia la paura dal cuore degli Apostoli e li spinge ad uscire dal Cenacolo per portare il Vangelo. Abbiamo anche noi più coraggio di testimoniare la fede nel Cristo Risorto! Non dobbiamo avere paura di essere cristiani e di vivere da cristiani! Noi dobbiamo avere questo coraggio, di andare e annunciare Cristo Risorto, perché Lui è la nostra pace, Lui ha fatto la pace, con il suo amore, con il suo perdono, con il suo sangue, con la sua misericordia”.

Nel Regina coeli del Lunedì dell’Angelo, il 1 aprile 2013, Papa Francesco fa risaltare l’importanza della risurrezione di Gesù, come momento culminante del piano della redenzione dell’uomo: “Cristo ha vinto il male in modo pieno e definitivo, ma spetta a noi, agli uomini di ogni tempo, accogliere questa vittoria nella nostra vita e nelle realtà concrete della storia e della società”. Non dimentica il Papa, l’importanza del duplice sacramento del battesimo e dell’eucaristia: “E’ vero, il Battesimo che ci fa figli di Dio, l’Eucaristia che ci unisce a Cristo, devono diventare vita, tradursi cioè in atteggiamenti, comportamenti, gesti, scelte. La grazia contenuta nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme per l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni sociali. Ma tutto passa attraverso il cuore umano: se io mi lascio raggiungere dalla grazia di Cristo risorto, se le permetto di cambiarmi in quel mio aspetto che non è buono, che può far male a me e agli altri, io permetto alla vittoria di Cristo di affermarsi nella mia vita, di allargare la sua azione benefica. Questo è il potere della grazia! Senza la grazia non possiamo nulla. Senza la grazia non possiamo nulla! E con la grazia del Battesimo e della Comunione eucaristica posso diventare strumento della misericordia di Dio, di quella bella misericordia di Dio”.

Nel mistero della croce entra anche il mistero della Vergine Maria. Nelle parole dette dal Papa, prima della preghiera dell’Angelus, nella domenica delle Palme, troviamo questo riferimento importante alla Madonna Addolorata e alle sofferenze della Madre del Signore: “Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria affinché ci accompagni nella Settimana Santa. Lei, che seguì con fede il suo Figlio fino al Calvario, ci aiuti a camminare dietro a Lui, portando con serenità e amore la sua Croce, per giungere alla gioia della Pasqua. La Vergine Addolorata sostenga specialmente chi sta vivendo situazioni più difficili”.

Al primo Angelus da Vescovo di Roma e da Romano Pontefice, Papa Francesco, il 17 marzo parla della misericordia di Dio: “In questa quinta domenica di Quaresima, il Vangelo ci presenta l’episodio della donna adultera (cfr Gv 8,1-11), che Gesù salva dalla condanna a morte. Colpisce l’atteggiamento di Gesù: non sentiamo parole di disprezzo, non sentiamo parole di condanna, ma soltanto parole di amore, di misericordia, che invitano alla conversione. “Neanche io ti condanno: va e d’ora in poi non peccare più!” (v. 11). Eh!, fratelli e sorelle, il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza. Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi? Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito. “Grande è la misericordia del Signore”, dice il Salmo…Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza”.

Nell’udienza generale del 10 aprile, Papa Francesco parla di Dio Padre e ritorna sul tema della speranza cristiana, che nasce dalla morte e risurrezione di Gesù: “Oggi vorrei riflettere sulla sua portata salvifica. Che cosa significa per la nostra vita la Risurrezione? E perché senza di essa è vana la nostra fede? La nostra fede si fonda sulla Morte e Risurrezione di Cristo, proprio come una casa poggia sulle fondamenta: se cedono queste, crolla tutta la casa. Sulla croce, Gesù ha offerto se stesso prendendo su di sé i nostri peccati e scendendo nell’abisso della morte, e nella Risurrezione li vince, li toglie e ci apre la strada per rinascere a una vita nuova”. Sviluppa poi una riflessione sul valore del battesimo che ci pone nella condizione di figli adottivi di Dio: “ Questa relazione filiale con Dio non è come un tesoro che conserviamo in un angolo della nostra vita, ma deve crescere, dev’essere alimentata ogni giorno con l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera, la partecipazione ai Sacramenti, specialmente della Penitenza e dell’Eucaristia, e la carità. Noi possiamo vivere da figli! E questa è la nostra dignità – noi abbiamo la dignità di figli -. Comportarci come veri figli! Questo vuol dire che ogni giorno dobbiamo lasciare che Cristo ci trasformi e ci renda come Lui; vuol dire cercare di vivere da cristiani, cercare di seguirlo, anche se vediamo i nostri limiti e le nostre debolezze. La tentazione di lasciare Dio da parte per mettere al centro noi stessi è sempre alle porte e l’esperienza del peccato ferisce la nostra vita cristiana, il nostro essere figli di Dio… Dobbiamo avere noi per primi ben ferma questa speranza e dobbiamo esserne un segno visibile, chiaro, luminoso per tutti. Il Signore Risorto è la speranza che non viene mai meno, che non delude (cfr Rm 5,5). La speranza non delude. Quella del Signore! Quante volte nella nostra vita le speranze svaniscono, quante volte le attese che portiamo nel cuore non si realizzano! La speranza di noi cristiani è forte, sicura, solida in questa terra, dove Dio ci ha chiamati a camminare, ed è aperta all’eternità, perché fondata su Dio, che è sempre fedele. Non dobbiamo dimenticare: Dio  sempre è fedele; Dio sempre è fedele con noi. Essere risorti con Cristo mediante il Battesimo, con il dono della fede, per un’eredità che non si corrompe, ci porti a cercare maggiormente le cose di Dio, a pensare di più a Lui, a pregarlo di più. Essere cristiani non si riduce a seguire dei comandi, ma vuol dire essere in Cristo, pensare come Lui, agire come Lui, amare come Lui; è lasciare che Lui prenda possesso della nostra vita e la cambi, la trasformi, la liberi dalle tenebre del male e del peccato. ..Mostriamo la gioia di essere figli di Dio, la libertà che ci dona il vivere in Cristo, che è la vera libertà, quella che ci salva dalla schiavitù del male, del peccato, della morte! Guardiamo alla Patria celeste, avremo una nuova luce e forza anche nel nostro impegno e nelle nostre fatiche quotidiane. E’ un servizio prezioso che dobbiamo dare a questo nostro mondo, che spesso non riesce più a sollevare lo sguardo verso l’alto, non riesce più a sollevare lo sguardo verso Dio”.

Nell’udienza generale del 3 aprile, Papa Francesco ritorna sul tema della risurrezione di Gesù e riprende le catechesi sull’anno delle fede, partendo proprio dall’accettazione incondizionata del mistero centrale della nostra fede: la passione, morte e risurrezione del Signore:  “All’alba, le donne si recano al sepolcro per ungere il corpo di Gesù, e trovano il primo segno: la tomba vuota (cfr Mc 16,1). Segue poi l’incontro con un Messaggero di Dio che annuncia: Gesù di Nazaret, il Crocifisso, non è qui, è risorto (cfr vv. 5-6). Le donne sono spinte dall’amore e sanno accogliere questo annuncio con fede: credono, e subito lo trasmettono, non lo tengono per sé, lo trasmettono. La gioia di sapere che Gesù è vivo, la speranza che riempie il cuore, non si possono contenere. Questo dovrebbe avvenire anche nella nostra vita. Sentiamo la gioia di essere cristiani! Noi crediamo in un Risorto che ha vinto il male e la morte! Abbiamo il coraggio di “uscire” per portare questa gioia e questa luce in tutti i luoghi della nostra vita! La Risurrezione di Cristo è la nostra più grande certezza; è il tesoro più prezioso! Come non condividere con gli altri questo tesoro, questa certezza? Non è soltanto per noi, è per trasmetterla, per darla agli altri, condividerla con gli altri. E’ proprio la nostra testimonianza.

Gesù si rende presente in modo nuovo: è il Crocifisso, ma il suo corpo è glorioso; non è tornato alla vita terrena, bensì in una condizione nuova. All’inizio non lo riconoscono, e solo attraverso le sue parole e i suoi gesti gli occhi si aprono: l’incontro con il Risorto trasforma, dà una nuova forza alla fede, un fondamento incrollabile. Anche per noi ci sono tanti segni in cui il Risorto si fa riconoscere: la Sacra Scrittura, l’Eucaristia, gli altri Sacramenti, la carità, quei gesti di amore che portano un raggio del Risorto. Lasciamoci illuminare dalla Risurrezione di Cristo, lasciamoci trasformare dalla sua forza, perché anche attraverso di noi nel mondo i segni di morte lascino il posto ai segni di vita. Ho visto che ci sono tanti giovani nella piazza. Eccoli! A voi dico: portate avanti questa certezza: il Signore è vivo e cammina a fianco a noi nella vita. Questa è la vostra missione! Portate avanti questa speranza. Siate ancorati a questa speranza: questa àncora che è nel cielo; tenete forte la corda, siate ancorati e portate avanti la speranza. Voi, testimoni di Gesù, portate avanti la testimonianza che Gesù è vivo e questo ci darà speranza, darà speranza a questo mondo un po’ invecchiato per le guerre, per il male, per il peccato. Avanti giovani!”.

Nell’udienza generale della domenica delle Palme, Papa Francesco, presenta il significato dell’intera settimana santa, che è soprattutto la settimana della Passione: “Con la Domenica delle Palme abbiamo iniziato questa Settimana – centro di tutto l’Anno Liturgico – in cui accompagniamo Gesù nella sua Passione, Morte e Risurrezione. Ma che cosa può voler dire vivere la Settimana Santa per noi? Che cosa significa seguire Gesù nel suo cammino sul Calvario verso la Croce e la Risurrezione? Nella sua missione terrena, Gesù ha percorso le strade della Terra Santa; ha chiamato dodici persone semplici perché rimanessero con Lui, condividessero il suo cammino e continuassero la sua missione; le ha scelte tra il popolo pieno di fede nelle promesse di Dio. Ha parlato a tutti, senza distinzione, ai grandi e agli umili, al giovane ricco e alla povera vedova, ai potenti e ai deboli; ha portato la misericordia e il perdono di Dio; ha guarito, consolato, compreso; ha dato speranza; ha portato a tutti la presenza di Dio che si interessa di ogni uomo e ogni donna, come fa un buon padre e una buona madre verso ciascuno dei suoi figli. Dio non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi. Gesù ha vissuto le realtà quotidiane della gente più comune: si è commosso davanti alla folla che sembrava un gregge senza pastore; ha pianto davanti alla sofferenza di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro; ha chiamato un pubblicano come suo discepolo; ha subito anche il tradimento di un amico. In Lui Dio ci ha dato la certezza che è con noi, in mezzo a noi. «Le volpi – ha detto Lui, Gesù – le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Gesù non ha casa perché la sua casa è la gente, siamo noi, la sua missione è aprire a tutti le porte di Dio, essere la presenza di amore di Dio.  Nella Settimana Santa noi viviamo il vertice di questo cammino, di questo disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Gesù entra in Gerusalemme per compiere l’ultimo passo, in cui riassume tutta la sua esistenza: si dona totalmente, non tiene nulla per sé, neppure la vita. Nell’Ultima Cena, con i suoi amici, condivide il pane e distribuisce il calice “per noi”. Il Figlio di Dio si offre a noi, consegna nelle nostre mani il suo Corpo e il suo Sangue per essere sempre con noi, per abitare in mezzo a noi. E nell’Orto degli Ulivi, come nel processo davanti a Pilato, non oppone resistenza, si dona; è il Servo sofferente preannunciato da Isaia che spoglia se stesso fino alla morte (cfr Is 53,12). Gesù non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi. Sulla croce Gesù «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Ciascuno di noi può dire: Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Ciascuno può dire questo “per me”.

Che cosa significa tutto questo per noi? Significa che questa è anche la mia, la tua, la nostra strada. Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù non solo con la commozione del cuore; vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi – come dicevo domenica scorsa – per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore!

Vivere la Settimana Santa è entrare sempre più nella logica di Dio, nella logica della Croce, che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita. E’ entrare nella logica del Vangelo. Seguire, accompagnare Cristo, rimanere con Lui esige un “uscire”, uscire. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la sua misericordia che salva e dona speranza. Anche noi, se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo “uscire”, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana. Ricordate bene: uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi.

Qualcuno potrebbe dirmi: “Ma, padre, non ho tempo”, “ho tante cose da fare”, “è difficile”, “che cosa posso fare io con le mie poche forze, anche con il mio peccato, con tante cose? Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una Messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di “uscire” per portare Cristo. Siamo un po’ come san Pietro. Non appena Gesù parla di passione, morte e risurrezione, di dono di sé, di amore verso tutti, l’Apostolo lo prende in disparte e lo rimprovera. Quello che dice Gesù sconvolge i suoi piani, appare inaccettabile, mette in difficoltà le sicurezze che si era costruito, la sua idea di Messia. E Gesù guarda i discepoli e rivolge a Pietro forse una delle parole più dure dei Vangeli: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Dio pensa sempre con misericordia: non dimenticate questo. Dio pensa sempre con misericordia: è il Padre misericordioso! Dio pensa come il padre che attende il ritorno del figlio e gli va incontro, lo vede venire quando è ancora lontano… Questo che significa? Che tutti i giorni andava a vedere se il figlio tornava a casa: questo è il nostro Padre misericordioso. E’ il segno che lo aspettava di cuore nella terrazza della sua casa. Dio pensa come il samaritano che non passa vicino al malcapitato commiserandolo o guardando dall’altra parte, ma soccorrendolo senza chiedere nulla in cambio; senza chiedere se era ebreo, se era pagano, se era samaritano, se era ricco, se era povero: non domanda niente. Non domanda queste cose, non chiede nulla. Va in suo aiuto: così è Dio. Dio pensa come il pastore che dona la sua vita per difendere e salvare le pecore.

La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie – che pena tante parrocchie chiuse! – dei movimenti, delle associazioni, ed “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione”.

Nel messaggio Urbi et orbi per il giorno di Pasqua, Papa Francesco, nelle sue parole esprime il linguaggio della risurrezione e della vita per le singole persone e per l’intera umanità. La croce aperta alla risurrezione, diventa la risurrezione, che include la passione. Una passione per la vita e per la gioia di vivere. Una passione ad alimentare la speranza e la vera gioia: “Che grande gioia per me potervi dare questo annuncio: Cristo è risorto! Vorrei che giungesse in ogni casa, in ogni famiglia, specialmente dove c’è più sofferenza, negli ospedali, nelle carceri… Soprattutto vorrei che giungesse a tutti i cuori, perché è lì che Dio vuole seminare questa Buona Notizia: Gesù è risorto, c’è la speranza per te, non sei più sotto il dominio del peccato, del male! Ha vinto l’amore, ha vinto la misericordia! Sempre vince la misericordia di Dio! Anche noi, come le donne discepole di Gesù, che andarono al sepolcro e lo trovarono vuoto, possiamo domandarci che senso abbia questo avvenimento (cfr  Lc 24,4). Che cosa significa che Gesù è risorto? Significa che l’amore di Dio è più forte del male e della stessa morte; significa che l’amore di Dio può trasformare la nostra vita, far fiorire quelle zone di deserto che ci sono nel nostro cuore. E questo può farlo l’amore di Dio! Questo stesso amore per cui il Figlio di Dio si è fatto uomo ed è andato fino in fondo nella via dell’umiltà e del dono di sé, fino agli inferi, all’abisso della separazione da Dio, questo stesso amore misericordioso ha inondato di luce il corpo morto di Gesù, lo ha trasfigurato, lo ha fatto passare nella vita eterna. Gesù non è tornato alla vita di prima, alla vita terrena, ma è entrato nella vita gloriosa di Dio e ci è entrato con la nostra umanità, ci ha aperto ad un futuro di speranza. Ecco che cos’è la Pasqua: è l’esodo, il passaggio dell’uomo dalla schiavitù del peccato, del male alla libertà dell’amore, del bene. Perché Dio è vita, solo vita, e la sua gloria siamo noi: l’uomo vivente.  Cristo è morto e risorto una volta per sempre e per tutti, ma la forza della Risurrezione, questo passaggio dalla schiavitù del male alla libertà del bene, deve attuarsi in ogni tempo, negli spazi concreti della nostra esistenza, nella nostra vita di ogni giorno. Quanti deserti, anche oggi, l’essere umano deve attraversare! Soprattutto il deserto che c’è dentro di lui, quando manca l’amore di Dio e per il prossimo, quando manca la consapevolezza di essere custode di tutto ciò che il Creatore ci ha donato e ci dona. Ma la misericordia di Dio può far fiorire anche la terra più arida, può ridare vita alle ossa inaridite (cfr Ez 37,1-14). Allora, ecco l’invito che rivolgo a tutti: accogliamo la grazia della Risurrezione di Cristo! Lasciamoci rinnovare dalla misericordia di Dio, lasciamoci amare da Gesù, lasciamo che la potenza del suo amore trasformi anche la nostra vita; e diventiamo strumenti di questa misericordia, canali attraverso i quali Dio possa irrigare la terra, custodire tutto il creato e far fiorire la giustizia e la pace. E così domandiamo a Gesù risorto, che trasforma la morte in vita, di mutare l’odio in amore, la vendetta in perdono, la guerra in pace. Sì, Cristo è la nostra pace e attraverso di Lui imploriamo pace per il mondo intero.

 

In conclusione, Papa Francesco, fin dalle sue parole è andato al centro della dottrina cattolica e al mistero centrale della nostra fede: quello della morte e risurrezione del Signore. Certo, il fatto, che sia stato eletto nel periodo di quaresima e prossimo alla Settimana Santa e al tempo pasquale, ha permesso a Papa Bergoglio di incentrare, per necessità di cosa e del tempo liturgico, il suo magistero ordinario sulla passione, morte e risurrezione del Signore. E da tutti i testi finora esaminati possiamo ben dire che egli ama i temi cristologici e passiologici in particolare, perché li rapporta con la vita quotidiana, dove la sofferenza è visibile in tanti volti di esseri umani che portano con dignità la loro croce e completano con la loro sofferenza ciò che manca alla passione di Gesù. Papa Francesco è un religioso gesuita, ma io lo ritengo nello spirito, nell’azione pastorale, nell’insegnamento finora espresso un “papa passionista”, nel senso che oltre ad esprime un grande amore verso Gesù Crocifisso e la Vergine Addolorata, vive, anche oggi come Romano Pontefice, vicino alle sofferenze degli uomini e donne del nostro tempo, facendo toccare con mano che quello che dice è prima di tutto vissuto e testimoniato con la sua vita di povertà, distacco dai beni della terra, di semplicità, essenzialità, di amore preferenziale, come Cristo, verso gli ultimi e bisognosi della terra, senza escludere nessuno dalla sua azione pastorale che ha un respiro mondiale, essendo lui il Pontefice massimo, colui che deve creare ponti per far passare il gregge e portarlo tutto unito nel recinto di Gesù Cristo Buon Pastore e unico salvatore dell’umanità.

 

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NOTE

 

(1).LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO  AL PREPOSITO GENERALE DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,  PADRE ADOLFO NICOLÁS PACHÓN.

(2).MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO ALL’ARCIVESCOVO DI CANTERBURY JUSTIN WELBY  IN OCCASIONE DELLA CERIMONIA DI INTRONIZZAZIONE  [21 MARZO 2013]

(3).CAPPELLA PAPALE PER L’INSEDIAMENTO,  DEL VESCOVO DI ROMA SULLA CATHEDRA ROMANA, OMELIA DEL  SANTO PADRE FRANCESCO.

 

 

ITRI (LT). LA CELEBRAZIONE DELLA SETTIMANA SANTA DAI PASSIONISTI

SETTIMANASANTA2013.jpgPADRI PASSIONISTI

 CONVENTO DI ITRI-CITTA’ (LT)

 

FUNZIONI RELIGIOSE

DELLA SETTIMANA SANTA

ANNO 2013

 

DOMENICA DELLE PALME – 24 MARZO 2013

ORE 8.00: NEL PIAZZALE BENEDIZIONE DELLE PALME

PROCESSIONE E SANTA MESSA CON LETTURA DEL PASSIO

ORE 17.00: MESSA DELLA DOMENICA DELLE PALME

 

LUNEDI’ SANTO – 25 MARZO 2013

ORE 7,00 ROSARIO- ORE 7,30 MESSA FERIALE

 

MARTEDI’ SANTO  – 26 MARZO 2013

ORE 7,00 ROSARIO- ORE 7,30 MESSA FERIALE

 

MERCOLEDI’ SANTO – 27 MARZO 2013

ORE 7,00 ROSARIO- ORE 7,30 MESSA FERIALE

ORE 18,30: MESSA CRISMALE A GAETA CON IL VESCOVO

 

GIOVEDI’ SANTO – 28 MARZO 2013

ORE 9,00-12,00: CONFESSIONI

ORE 18.00: MESSA IN COENA DOMINI

ORE 20,00-24.00: ADORAZIONE EUCARISTICA

 

VENERDI’ SANTO – 29 MARZO 2013

ORE 9,00- 12,00: CONFESSIONI

ORE 17,00: COMMEMORAZIONE DELLA PASSIONE DI GESU’

 

SABATO SANTO – 30 MARZO 2013

ORE 9,00-12,00; 16,00-19,00: CONFESSIONI

ORE 20,00: VEGLIA PASQUALE

CELEBRAZIONE EUCARISTICA DELLA RISURREZIONE

 

DOMENICA DI PASQUA – 31 MARZO 2013

ORE 8.00: MESSA SOLENNE DI PASQUA

ORE 18.00: MESSA DI PASQUA

 

LUNEDI’ IN ALBIS – 1 APRILE 2013

ORE 7,00: SANTO ROSARIO- ORE 7,30: MESSA DELL’ANGELO

 

L’ultimo racconto di padre Antonio Rungi

Il medico divenuto frate

 

Fin dalla sua più tenera età pensava di diventare medico e di curare soprattutto i bambini. Lui piccolo che pensava da grande per i piccoli. La storia personale lo portò a raggiungere il suo sogno di diventare effettivamente medico e di specializzarsi in pediatria. Il suo riferimento costante nella professione medica era San Giuseppe Moscati, i Santi Cosma e Damiano e soprattutto San Ciro, lui che era della zona napoletana. Aveva le loro immagini dovunque e soprattutto nel camice da dottore, quando andava a fare le operazioni e doveva intervenire sui bambini che già, piccolissimi, erano soggetti a grandi sofferenze fisiche. La sofferenza fa sempre male in chi la sperimenta e a chi la vede emergere nel fisico e nella psiche degli altri. Ma di fronte alla sofferenza dei bambini c’è solo un grande vuoto razionale per capire il perché e fino a ché.

Gennarino, si era laureato prestissimo e con il massimo dei voti, tanto che il primario di pediatria di uno dei più importanti ospedali del Meridione gli aveva dato fiducia piena. Ogni mattina passava a far visita ai bambini, e per lui, pur essendo giovanissimo, appena 30 anni, erano tutti suoi figli e li curava con amore e passione, che solo un medico dai profondi principi morali e religiosi poteva fare. In quell’ospedale lavorò quasi 10 anni, poi con le varie riforme si trovò in suprannumero e nonostante la bravura e la capacità, dovette lasciare il posto a qualcuno dei medici più giovani, vincitore di concorso.

Cosa fare di fronte a questo nuovo scenario professionale? Semplice. Da piccolo aveva l’idea di farsi frate per fare il medico e il missionario. Non si era sposato, aveva dedicato tutta la sua vita alla causa della medicina pediatrica. Fu quella l’occasione buona per chiedere di entrare in uno degli ordini ed istituti missionari più noti e presenti nel mondo, soprattutto in quei luoghi dove c’era maggiore bisogno di medici ed ambulatori. Chiese ed ottenne di entrare a far parte come aggregato alla famiglia religiosa per essere inviato in terra di missione. I suoi superiori maggiori lo accontentarono. C’era da aprire una missione nel cuore dell’Africa e lui senza proferire parola disse semplicemente “sono pronto ad andare” per stare vicino e curare i tanti bambini di quella giovane nazione del continente nero che da poco era uscita fuori dalla guerra civile con distruzione di ogni genere.

Gennarino partì alla volta della terra d’Africa, dove improntò con le offerte dei fedeli il primo ambulatorio pediatrico, ma anche per curare i grandi, soprattutto le madri che dovevano allattarre e far crescere sani quei bambini dei veri scheletri umani.

La nuova missione non sorse intorno alla chiesa e alle opere parrocchiali, ma intorno all’ambulatorio pediatrico. Era solo Gennarino con qualche altro volontario e qualche suora della stessa famiglia religiosa a portare avanti il centro umanitario, investendo tutti i suoi beni.

Un giorno mentre stava a pregare davanti all’immagine di Gesù Crocifisso, sentì forte nella sua mente l’invito a farsi servo per amore e donarsi totalmente al Signore con la consacrazione alla vita religiosa e sacerdotale.

Espresse questo suo desiderio al Ministro provinciale dell’Ordine che prese in seria considerazione la richiesta del maturo medico e ora consacrato laico.

Iniziò per Gennarino un tempo di discernimento. Essendo già laureato ed avendo frequentato anche il Magistero delle Scienze religiose quando aveva ultimato la laurea in medicina, l’accesso alla vita consacrata e sacerdotale era favorita dai precedenti studi e soprattutto dalla sua esperienza di vita vicino alla sofferenza, soprattutto dei più piccoli. Passarono solo appena tre anni da quella richiesta e Gennarino vestì l’abito religioso facendo la professione dei voti, inziando contemporaneamente la formazione teologica e il cammino verso il sacerdozio. Con le varie dispense che si ottennero, Gennarino poté diventare prete in cinque anni dalla richiesta. A 50 anni si era realizzato il suo sogno di essere sacerdote, missionario, medico e per di più nell’Africa che portava nel suo cuore. La felicità di questa scelta per il Signore e per i fratelli più bisognosi durò poco. Cinque anni appena di sacerdozio e Gennarino per un’infezione inspiegabile mori all’età di 55 anni. Nel suo testamento spirituale aveva scritto in precedenza: “Il mio paradiso è qui e qui voglio morire e restare, dove il Signore mi ha chiamato a vivere più profondamente la mia vocazione alla santità”.

Da allora sono passati parecchi anni e la tomba del medico, divenuto frate, è l’altare della gioia e della speranza di quella missione in terra d’Africa, divenuta nel tempo un centro poliambulatoriale e una missione con vari sacerdoti, diverse suore e tanti laici volontari, molti dei quali i giovani medici spinti dal desiderio di servire Dio nei fratelli sofferenti, lontano dagli interessi materiali e successo professionale del mondo occidentale.

Il testo della meditazione di questa mattina al Gruppo di Pagani

CENACOLO DI PREGHIERA “TOMMASO M. FUSCO” – PAGANI

RITIRO SPIRITUALE 3 MARZO 2013 – STELLA MARIS – MONDRAGONE

Fede e santità della vita

Tutti siamo chiamati ad essere santi, ognuno secondo il proprio stato di vita. E per aspirare alla santità è necessario avere una carica spirituale fortissima ed una fede convinta e matura, coraggiosa e speranzosa. Partiamo da un dato concreto: non è possibile testimoniare Gesù Cristo, non è possibile educare alla vita bella del Vangelo, come ci ricordano i vescovi italiani nel progetto nazionale che ci sta accompagnando negli ultimi anni, se noi non facciamo un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella nostra vita. E questo perché la santità è anche un racconto… il racconto della mia esperienza viva di Gesù Cristo.

Qualche premessa. 

Che cos’è la santità? E’ la vita nello Spirito di Dio: niente di più, niente di meno.

E che cos’è la spiritualità? E’ la mia esperienza concreta davanti a Dio.

La santità è solo questo, e niente di eccezionale… la vita nello Spirito di Dio. È la vita nuova nello Spirito del Cristo risorto. E la spiritualità è la mia esistenza concreta davanti a Dio: sono quello che sono davanti a Dio, non quello che vorrei essere. In questa ottica la santità è accessibile a tutti. La santità, infatti, è la vita, la crescita nella grazia come ci indica lo Spirito del Cristo risorto; è la grazia battesimale che ci trasforma sin dal nostro primo istante della esistenza. 

Domande di fondo

E’ possibile educare alla santità, parlare di santità in questo tempo di crisi? Ma quando della forza del Vangelo viene meno attraverso il nostro stile di vita? Le nostre chiese, i nostri conventi, le nostre parrocchie hanno ancora qualcosa da dire al mondo e alla società? Si può ancora parlare di santità, di pretesa cristiana, di identità cristiana? Si può essere santi in questo tempo di crisi?

Parto da un’affermazione di Papa Benedetto XVI, che giovedì 28 marzo, alle 20,00 conclude il suo ministero petrino, in seguito alle libere dimissioni date il 11 febbraio 2013, al quale va tutta la nostra gratitudine, che nella sua Lettera Apostolica “La porta della fede”, pubblicata in forma di Motu Proprio l’11 Ottobre 2011, al n. 2 afferma: “capita ormai, non di rado, che i cristiani si diano maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali, politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come a un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene persino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto, nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori del Vangelo, oggi non sembra essere più così nei grandi settori della società, a motivo della grande crisi di fede che ha toccato molte persone”. Questo grande dono della fede non rappresenta più un valore di unità nelle nostre comunità e nella stessa società: quindi questa crisi è sicuramente una crisi di fede. Quindi parlare della santità significa certamente andare a rivedere il nostro percorso di fede, il nostro percorso di incontro con Gesù Cristo. Ogni racconto, anche spirituale, nasce da un’esperienza! Se io faccio un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella mia vita, allora lo posso anche io raccontare. Se Gesù Cristo diventa una dottrina, un rito, una tradizione, anche, se volete, un’identità culturale … e spesso nelle nostre parrocchie si è cristiani per identità culturale, la santità, invece, intesa come via della crescita nello Spirito, richiede un’esperienza concreta di Gesù Cristo nella propria vita. Quindi annunciare Cristo Redentore non significa parlare di una dottrina, né di un contenuto di una sapienza da meditare. Annunciare significa testimoniare Cristo nella propria vita. Potremo dire che la santità è la testimonianza di Cristo nella propria vita.

Santità e conversione

Tempo di Quaresima, tempo di conversione e di maggiore impegno nella santità. La metanoia, la conversione non è uno sforzo etico, non è una questione di buona volontà, ma come ci ha detto il grande profeta Gioele, nella Prima Lettura della Messa del Mercoledì delle Ceneri, convertirsi è ritornare a Dio con tutto il cuore. Ora si tratta di capire che cosa è il cuore.

Nella Scrittura il cuore è la sede della volontà , della conoscenza, dell’intelligenza, della nostra razionalità. Si pensa con il cuore, si ragiona con il cuore. Nella Scrittura non c’è questa separazione tra fede e ragione, intelligenza e volontà, come nella nostra società moderna.

Nella Scrittura il cuore è la sede dei sentimenti, ma soprattutto della volontà. “Ritornare a Dio con tutto il cuore” significa recuperare unità nel nostro essere ‘persona’.

La santità è esperienza di unità, di comunione con Dio e i fratelli. Il peccato, invece, è un’esperienza di divisione e di separazione da Dio e, ovviamente, anche dai fratelli, dal corpo della Chiesa. “Ritornare a Dio con tutto il cuore” è un cambiamento del modo di agire e di essere, e cambiamento anche del nostro modo di pensare, perché noi non siamo convertiti e, per l’appunto, innanzitutto nel modo di pensare la fede, la parrocchia, il nostro rapporto con Gesù Cristo.

Nel termine “metanoia”, “santità” metteteci quanto più c’è di carnale, di umano, ed eliminate tutto ciò che sa di spiritualità disincarnata.

Nel termine spiritualità, nel termine conversione, mettete tutto ciò che è carnale, perché il cristianesimo è una religione carnale. 

Qual è il proprium della fede cristiana? E’ la Risurrezione … ma la risurrezione di che cosa? La risurrezione della carne, perché oggi molti credono nella risurrezione non si sa di che cosa… dell’anima, dello spirito.

La fede, la mia esperienza con Gesù Cristo passa sempre attraverso delle relazioni. San Francesco, ad esempio, riprendeva sempre qualche frate orante che si infastidiva se qualche altro frate si avvicinava per chiedergli qualcosa, perché non voleva essere disturbato nella preghiera. Noi cristiani non professiamo la salvezza delle anime, ma della persona: non si salvano le anime, ma le persone. Con il tema della conversione occorre recuperare tutta la dimensione antropologica e quindi far cadere tanti idoli nel nostro cammino di fede, nel nostro cammino di santità: l’individualismo esasperante nelle nostre comunità, il carrierismo anche dei fedeli laici nella parrocchia, le gelosie presenti anche nelle comunità cristiane. Se non curiamo queste ferite, cioè se non recuperiamo l’uomo, non ci possiamo presentare da nessuna parte a parlare di Gesù Cristo, proprio perché, in questo caso, non siamo delle persone credibili.

La santità del Beato Tommaso Maria Fusco passa attraverso scelte coraggiose di vita, attraverso la croce, la sofferenza, l’incomprensione.

Santità e missione

La missione è l’annuncio del Vangelo oggi, in ogni contesto, in un mondo che è già cambiato! Il mondo è cambiato, e noi, come Chiesa ce ne siamo accorti in ritardo. La proposta cristiana è sempre più ai margini della nostra società. Quindi non esiste più alcuna pretesa. Noi annunciamo, parliamo di Gesù Cristo, ma sempre con la pretesa di essere riconosciuti, che gli altri ci dicano bravo!. Noi pretendiamo che gli altri ci ascoltino, che gli altri riconoscano che Gesù Cristo è la Verità.

Noi pretendiamo, come religiosi o fedeli laici di essere una fiaccola o una luce, ma sul cammino di chi? C’è chi la luce non la vuole vedere, come c’è chi non vuole nessuno annuncio, chi non vuole essere salvato. Nel concetto di missione, evidentemente, dobbiamo mettere in cantiere una possibile esperienza di fallimento, che non ci deve abbattere, ma che rientra anche nel nostro cammino di santità, di vissuto, di annuncio del Vangelo. Quindi un tema serio da trattare nelle nostre comunità, come anche nelle nostre famiglie, è il tema della marginalità. I cristiani sono ai margini della società. Il servizio socio-caritativo di molte nostre Chiese, di parrocchie, di diocesi, per i poveri, il lavoro delle Caritas, per il mondo laico, non credente, è visto come un’affermazione di potere della Chiesa. La società ci vede come Chiesa ai margini e non riconosce nel nostro impegno per il Vangelo il servizio, ma una forma di potere. Educare, formarsi alla vita bella del Vangelo significa anche mettere in cantiere questa esperienza di fallimento.

Nel concetto di missione mettiamoci anche la parrocchia, che non è la panacea per tutti i mali: parocia significa casa in esilio tra le case in esilio. Non è la casa tra le case: nelle nostre parrocchie la percentuale dei fedeli che partecipano alla vita parrocchiale è il 2-3% in generale nei grossi centri urbani, anche se in varie città si raggiunge, per fortuna, ancora un numero più elevato.

Nell’intuizione del compianto vescovo pugliese, don Tonino Bello, la parrocchia è la fontana della piazza, dove ci deve stare sempre l’acqua: quando incontriamo una fontana senza l’acqua restiamo delusi. La parrocchia è la fontana ove c’è sempre l’acqua fresca che sgorga: c’è chi la usa per rinfrescarsi, per dissetarsi, chi ci gioca un po’… chi la sciupa … chi la guarda e se ne va …

In una parrocchia ci deve stare sempre l’acqua viva. Dobbiamo anche accettare che non tutti verranno alla fontana ad attingere.

In questa esperienza di conversione, dunque, cambiamo anche il nostro modo di pensare, di essere Chiesa, di essere sempre giusti al servizio degli altri.

La santità, dunque, come l’annuncio, la conversione, come la testimonianza, è un problema di fede e di libertà: di fede perché se la fede è dare il cuore, se la fede è camminare dietro il Cristo crocifisso e risorto, allora essa è la santità, la crescita nello Spirito; di libertà perché è una questione di scelta. Mi piace ricordare, al proposito, un teologo del secolo scorso, Karl Rahner, il quale già negli anni ’70 parlava di una sorta di ateismo preoccupato.

Rahner diceva che i cristiani, perché si sentono in minoranza, si sentono emarginati, praticano un ateismo “preoccupato”, cioè la vergogna di testimoniare, di parlare di Gesù Cristo. Ma… noi … a dire il vero, nelle nostre parrocchie parliamo di Gesù, raccontiamo la nostra esperienza di Gesù quando preghiamo, partecipiamo all’eucaristia, insegniamo? Nelle nostre comunità religiose parliamo di Gesù tra di noi, raccontiamo l’esperienza spirituale?

Il nostro approccio alla fede è sempre ancora dottrinale, ci vergogniamo ancora di raccontare la nostra esperienza concreta di Gesù Cristo. Questa vergogna esiste tra i preti, tra i frati, tra i fedeli laici … Noi dobbiamo raccontare la nostra esperienza di Gesù Cristo nella nostra vita: quindi è una questione di fede e di libertà. Il Papa ci dice che viviamo in una società in cui i valori cristiani sono stati messi da parte e, quindi, ognuno pratica una verità, ognuno pratica un percorso di fede di liberazione. Quindi nessuno più si ente obbligato a confrontarsi con la proposta cristiana. Se tu oggi vuoi essere santo vuoi essere un profeta, vuoi essere luce, la prima cosa che devi fare ci devi credere, devi praticare quel percorso e devi andare contro corrente: ecco perché è una questione di libertà. Mi convinco nel tempo che il cammino di conversione che dobbiamo fare come Chiesa è proprio un cammino di libertà, andando contro i luoghi comuni, contro i pregiudizi, i giudizi superficiali, contro il plauso che cerchiamo dalla folla. L’insegnamento di Papa Benedetto XVI con le sue dimissioni dal soglio pontificio ci dicono molto su questo versante.

Spesso valutiamo le nostre parrocchie, il nostro successo pastorale dal fatto che le chiese sono piene o sono vuote: questo è un falso valore. La santità è questione di fede: nella vita bisogna fidarsi di qualcuno: se ci fidiamo di Dio e vogliamo essere dei discepoli, allora saremo anche dei credenti.

Dice Dio in Geremia, capitolo 1, 8: “Io sono con te”, cioè sono sempre dalla tua parte, sono sempre vicino a te, sono presente alla tua vita. Quindi se  ci fidiamo di Dio, allora la nostra vita cambierà di significato.

Due sono le malattie che colpiscono la vita spirituale nostra: la sclerocardia (indurimento del cuore) e l’indifferenza.

Innanzi ai segni dei tempi, ai segni della storia, un cristiano che non si lascia interpellare da certi cambiamenti epocali, da certi segni della società è un ammalato di porosis, di indifferenza, al punto da non essere neanche più un profeta.

Ecco due immagini che possono aiutarci  come cristiani, nel cammino della santità.

La prima immagine è la metafora del vetro: dobbiamo essere persone trasparenti.

Se sono trasparente come il vetro, rifletto la luce, splendo di questa luce, allora sarò significativo nel mondo di oggi, allora potrò educare alla vita bella del Vangelo. Ma se sono opaco non avrò niente da dire.

Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, parla del volto di Cristo nella Chiesa e la Chiesa come volto di Cristo. La Chiesa attraverso il peccato opacizza il volto di Cristo. Il falso moralismo non ci rende credibili, e questo è vero anche per chi esercita autorità.

L’altra immagine è quella del giardino. I Padri della Chiesa hanno riletto il fatto che Adamo è collocato nel Giardino dell’Eden con l’idea che quel Giardino è Cristo. Adamo, anche dopo il peccato non viene scacciato dal Giardino, ma viene ricollocato nel Giardino che è Cristo. Questo significa che dobbiamo veicolare attorno all’uomo una santità, un cammino spirituale, un cammino di annuncio. Un cammino di annuncio che non gira attorno all’uomo non è vero ed autentico. Quindi l’immagine del Giardino significa che noi dobbiamo prenderci cura dell’uomo. Al riguardo, nella Lettera agli Ebrei si parla del Figlio di Dio sacerdote eterno, Gesù Cristo, che si è preso cura della stirpe di Abramo.

Girare attorno all’uomo: la santità passa sempre per un discorso che è antropologico. Adamo non è cacciato dal giardino, ma è messo nella storia della salvezza. La Chiesa deve prendersi cura di Adamo, cioè orbitare attorno all’uomo, alle nuove esigenze antropologiche. Evangelizzare, formarsi, convertirsi, essere santi è imparare a girare intorno all’uomo, conoscere le nuove frontiere antropologiche dell’umanità.

La metafora del giardino e del vetro denunciano, forse, un problema di crisi di fede, alcuni mali del nostro agire da cristiani, l’individualismo, il trionfalismo, il fideismo. Non è possibile che in una comunità cristiana ci sia un vuoto di formazione spirituale e dottrinale.  Questo è un problema di fede, perché se non so cosa mi dà la mia religione, posso aderire facilmente ad un’altra religione. Se non conosco il proprium della mia fede… Quale prodotto mi offre il cristianesimo?, ci chiediamo quasi in termini commerciali. Quali risposte mi offre. Se non so cosa è la risurrezione della carne allora posso cadere in una sorta di relativismo, in qualsiasi momento della nostra vita.

Allora cosa dobbiamo fare?

Dobbiamo tentare di essere anti-segno: questo è il nostro impegno. I Greci cercavano la sapienza, gli Ebrei i segni della sapienza. Noi invece predichiamo Cristo crocifisso e risorto. Quindi non dobbiamo convincere nessuno. Dobbiamo essere anti-segno, ripartire da questa esperienza di marginalità. Ma voi credete veramente che Paolo ad Efeso aveva fondato delle Chiese? Le Chiese di Paolo era quattro case, tre famiglie … Ad Efeso, nell’esempio, chi ascoltava Paolo? Poche persone. Però Paolo annunciava Gesù Cristo, questa proposta di vita nuova, alla persone di buona volontà. Quindi non ci dobbiamo vergognare di Gesù Cristo, né sentirci inferiori a chicchessia, o cercare carrierismo o trionfalismo. Noi siamo essere umani, abbiamo bisogno a volte di certezze: se la chiesa è piena, se ad un incontro vi sono tante persone il parroco è contento … ma non è quello che ci deve dare sicurezza. Anche se ci sono solo tre persone di buona volontà nella nostra parrocchia, noi vogliamo essere anti-segno, andare contro-corrente. Questa è l’unica risposta che noi abbiamo. Ci vergogniamo di annunciare il Vangelo, di predicare la parola della fede, in ogni occasione, dice Paolo a Timoteo, opportuna e inopportuna (2 Tim 1,2). Quindi dobbiamo raccontarci la nostra esperienza vera di Gesù Cristo; dobbiamo fare scelte impopolari e poco seducenti per la società, allontanandoci dalla mentalità di questo secolo. Ad esempio, se una coppia non è preparata, consigliatele di non sposarsi in chiesa; se una coppia viene a ricevere il sacramento della Cresima solo perché si deve sposare, ma ditegli che si possono sposare anche senza il Sacramento della Cresima: essere anti-segno!

Interroghiamoci frequentemente su questa possibilità di essere anti-segno, impopolari, senza avere la pretesa di sedurre le persone.

L’esempio di Tommaso Maria Fusco

Tommaso Maria Fusco, settimo di otto figli, nacque a Pagani (SA), in diocesi di Nocera-Sarno, il 1° dicembre 1831, dal farmacista dott. Antonio, e dalla nobildonna Stella Giordano, genitori di integra condotta morale e religiosa che seppero formarlo alla pietà cristiana e alla carità verso i poveri.

Fu battezzato lo stesso giorno della nascita nella Parrocchia di San Felice e Corpo di Cristo.

Ben presto rimase orfano della madre, vittima dell’epidemia colerica nel 1837 e, pochi anni dopo, nel 1841, perdette anche il padre. D’allora si occupò della sua formazione don Giuseppe, lo zio paterno, il quale gli fu maestro negli studi primari.

Fin dal 1839, anno della canonizzazione di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, il piccolo Tommaso aveva sognato la chiesa e l’altare e finalmente nel 1847 entrò nel Seminario diocesano di Nocera, dal quale nel 1849 uscirà consacrato sacerdote il fratello Raffaele.

Il 1° aprile 1851 Tommaso Maria ricevette il Sacramento della Cresima e il 22 dicembre 1855, dopo la formazione seminaristica, fu ordinato sacerdote dal Vescovo Agnello Giuseppe D’Auria.

In questi anni di esperienze dolorose, per la perdita di persone care alle quali si aggiungeva quella dello zio (1847) e del giovane fratello Raffaele (1852), si sviluppa in Tommaso Maria una devozione già cara a tutta la famiglia Fusco: quella al Cristo paziente e alla sua SS. Madre Addolorata, come viene ricordato dai biografi: «Era devotissimo del Crocifisso e tale rimase sempre».

Fin dall’inizio del ministero curò la formazione dei fanciulli, per i quali in casa sua, aprì una Scuola mattinale, e ripristinò la Cappella serotina, per i giovani e gli adulti presso la chiesa parrocchiale di San Felice e Corpo di Cristo con lo scopo di promuovere la loro formazione umana e cristiana. Essa fu un autentico luogo di conversioni e di preghiera, come lo era stata nell’esperienza di Sant’Alfonso, venerato e onorato a Pagani per il suo apostolato.

Nel 1857 fu ammesso alla Congregazione dei Missionari Nocerini, sotto il titolo di San Vincenzo de’ Paoli, con la immissione in una itineranza missionaria estesa specialmente alle regioni dell’Italia meridionale.

Nel 1860 fu nominato cappellano del Santuario della Madonna del Carmine, detta delle Galline, in Pagani, dove incrementò le associazioni cattoliche maschili e femminili, e vi eresse l’altare del Crocifisso e la Pia Unione per il culto al Preziosissimo Sangue di Gesù.

Per l’abilitazione al ministero del confessionale, nel 1862 aprì nella sua casa una Scuola di Teologia morale per i Sacerdoti, infiammandoli all’amore del Sangue di Cristo: nello stesso anno istituì la «Compagnia (sacerdotale) dell’Apostolato Cattolico» per le missioni popolari; nel 1874 ebbe l’approvazione dal Papa Pio IX, oggi beato. Profondamente colpito dalla disgrazia di un’orfana, vittima della strada, il 6 gennaio giorno dell’Epifania del 1873, dopo attenta preparazione nella preghiera di discernimento, don Tommaso Maria fondò la Congregazione delle «Figlie della Carità del Preziosissimo Sangue». L’Opera ebbe inizio nella Chiesa della Madonna del Carmine, alla presenza del Vescovo Raffaele Ammirante il quale, con la consegna dell’abito alle prime tre Suore, benedisse il primo Orfanotrofio per sette orfanelle povere del paese. Sulla nascente famiglia religiosa e sull’Orfanotrofio, dietro sua richiesta, non tardò a scendere anche la benedizione del Papa.

Don Tommaso Maria continuò a dedicarsi al ministero sacerdotale con predicazione di esercizi spirituali e di missioni popolari; e su questa itineranza apostolica nacquero le numerose fondazioni di case e orfanotrofi che segnarono la sua eroica carità, ancora più intensa specialmente nell’ultimo ventennio della sua vita (1870-1891).

Agli impegni di Fondatore e Missionario Apostolico associò anche quelli di Parroco (1874-1887) presso la Chiesa Matrice di San Felice e Corpo di Cristo, in Pagani, di confessore straordinario delle monache di clausura in Pagani e Nocera, e, negli ultimi anni di vita, di padre spirituale della Congrega laicale nel Santuario della Madonna del Carmine. Ben presto don Tommaso Maria, divenuto oggetto d’invidia per il bene operato col suo ministero e per la vita di sacerdote esemplare, affronterà umiliazioni, persecuzioni fino all’infamante calunnia nel 1880, da un confratello nel sacerdozio. Ma egli sostenuto dal Signore, portò con amore quella croce che il suo Vescovo Ammirante, al momento della fondazione, gli aveva preconizzato: «Hai scelto il titolo del Preziosissimo Sangue? Ebbene, preparati a bere il calice amaro». Nei momenti della durissima prova sostenuta in silenzio, ripeteva: «L’operare e il patire per Dio sia sempre la vostra gloria e delle opere e patimenti che sostenete sia Dio la vostra consolazione in terra e la vostra mercede in cielo. La pazienza è come la salvaguardia e il sostegno di tutte le virtù».

Consumato da una patologia epatica, don Tommaso Maria chiuse piamente la sua esistenza terrena il 24 febbraio 1891.

Sessa Aurunca. Nove secoli di storia della cattedrale.

sessa%20aurunca.jpgNel mese di giugno 2013 il Duomo di Sessa Aurunca, la chiesa madre della Diocesi, la cattedrale dedicata ai Santi Pietro e Paolo compie nove secoli di storia. La costruzione, infatti, fu iniziata  900 anni fa, da probabili maestranze di scuola Casauriense nel 1113 riutilizzando in parte materiali provenienti da antichi edifici d’epoca romana, e consacrata nel 1183. Per ricordare questo storico avvenimento, il Vescovo, monsignor Antonio Napoletano e l’intera comunità diocesana di Sessa Aurunca, ha approntato un articolato programma spirituale e culturale, per dare risalto all’evento, che si connota come un fatto di fede, nell’Anno della fede. Già dal 2 marzo prossimo, sabato infatti, giungeranno in pellegrinaggio alla Cattedrale di Sessa Aurunca i fedeli delle quattro foranie della Diocesi, accompagnati dai parroci. E così per tutti i sabati della Quaresima. I fedeli sosterranno in preghiera nella Chiesa cattedrale, ove si terrà una lectio divina ed una specifica celebrazione, presieduta dal vescovo. Quattro le foranie della Diocesi: Carinola, Cellole, Mondragone e Sessa Aurunca. Il pellegrinaggio inizia con la forania di Carinola e a seguire tutte le altre. I  festeggiamenti per i nove secoli di storia si svolgeranno in occasione della solennità dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno 2013, ma prima e dopo Pasqua si volgeranno una serie di incontri di formazione per comprendere il significato teologico e pastorale della consacrazione della chiesa cattedrale di una diocesi. Quella di Sessa Aurunca è una cattedrale con una particolare storia e configurazione. L’aspetto esterno attuale fu raggiunto nella prima metà del XIII secolo con l’aggiunta del portico e del finestrone posto nella parte alta della facciata. L’interno invece, eliminato il soffitto a capriate già nel Duecento, rimase romanico fino a metà del Settecento quando il vescovo Francesco Caracciolo d’Altamura decise di ammodernarlo secondo i gusti e lo stile dell’epoca, ossia il barocco. Costituisce senza dubbio il più bel monumento della zona aurunca per eleganza di linee ed accuratezza di decorazioni esterne ed interne. La Cattedrale sorge su un’area ove vi era un tempio pagano o cristiano. La facciata è a tre portali – con numerosi fregi a rilievo rappresentanti fatti della storia sacra . Sotto il porticato si aprono i tre portali di accesso alla chiesa decorati con architravi ed elementi marmorei di spoglio. La pianta è a croce latina, a tre navate divise da colonne di diversi materiali.. Anche l’interno è a tre portali, e le navate poggiano su 18 colonne con capitelli di stile corinzio.  La Cripta è ricavata nell’area centrale della Cattedrale con una elegante struttura a volte poggiante su venti colonne di origine romana. Il pavimento della Cripta è a mosaico. Di notevole valore artistico è il “candelabro” per il cero pasquale ed il “pergamo” la cui struttura rettangolare si sostiene su sei colonnine alla cui base vi sono altrettanti leoncini marmorei. Tutto il Pergamo è decorato riccamente, allo stesso modo il candelabro. Nella Cappella del Corpus Domini è posta la bellissima tela della “Comunione degli Apostoli”, ed è oggetto di importanti studi e ricerche. Pregevole è il pavimento musivo del XII secolo nella navata centrale. Di grande valore artistico sono inoltre il candelabro per il cero pasquale ed il pulpito, opere del XIII secolo del maestro Peregrino da Sessa. Il candelabro ha base scolpita con figure a rilievo e inserti di mosaico; il pulpito decorato da mosaico e bassorilievi è a struttura rettangolare, sorretta da sei colonnine che poggiano su leoni di marmo. Nella cappella del Sacramento, da ammirare è la Comunione degli Apostoli di Luca Giordano.

Padre Antonio Rungi cp

IL PENULTO ANGELUS DI PAPA BENEDETTO PRIMA DEL SUO RITIRO

BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 17 febbraio 2013

 

 

Cari fratelli e sorelle!

mercoledì scorso, con il tradizionale Rito delle Ceneri, siamo entrati nella Quaresima, tempo di conversione e di penitenza in preparazione alla Pasqua. La Chiesa, che è madre e maestra, chiama tutti i suoi membri a rinnovarsi nello spirito, a ri-orientarsi decisamente verso Dio, rinnegando l’orgoglio e l’egoismo per vivere nell’amore. In questo Anno della fede la Quaresima è un tempo favorevole per riscoprire la fede in Dio come criterio-base della nostra vita e della vita della Chiesa. Ciò comporta sempre una lotta, un combattimento spirituale, perché lo spirito del male naturalmente si oppone alla nostra santificazione e cerca di farci deviare dalla via di Dio. Per questo, nella prima domenica di Quaresima, viene proclamato ogni anno il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto.

Gesù infatti, dopo aver ricevuto l’“investitura” come Messia – “Unto” di Spirito Santo – al battesimo nel Giordano, fu condotto dallo stesso Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Al momento di iniziare il suo ministero pubblico, Gesù dovette smascherare e respingere le false immagini di Messia che il tentatore gli proponeva. Ma queste tentazioni sono anche false immagini dell’uomo, che in ogni tempo insidiano la coscienza, travestendosi da proposte convenienti ed efficaci, addirittura buone. Gli evangelisti Matteo e Luca presentano tre tentazioni di Gesù, diversificandosi in parte solo per l’ordine. Il loro nucleo centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali. Il tentatore è subdolo: non spinge direttamente verso il male, ma verso un falso bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari. In questo modo, Dio diventa secondario, si riduce a un mezzo, in definitiva diventa irreale, non conta più, svanisce. In ultima analisi, nelle tentazioni è in gioco la fede, perché è in gioco Dio. Nei momenti decisivi della vita, ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene?

Come ci insegnano i Padri della Chiesa, le tentazioni fanno parte della “discesa” di Gesù nella nostra condizione umana, nell’abisso del peccato e delle sue conseguenze. Una “discesa” che Gesù ha percorso sino alla fine, sino alla morte di croce e agli inferi dell’estrema lontananza da Dio. In questo modo, Egli è la mano che Dio ha teso all’uomo, alla pecorella smarrita, per riportarla in salvo. Come insegna sant’Agostino, Gesù ha preso da noi le tentazioni, per donare a noi la sua vittoria (cfr Enarr. in Psalmos, 60,3: PL 36, 724). Non abbiamo dunque paura di affrontare anche noi il combattimento contro lo spirito del male: l’importante è che lo facciamo con Lui, con Cristo, il Vincitore. E per stare con Lui rivolgiamoci alla Madre, Maria: invochiamola con fiducia filiale nell’ora della prova, e lei ci farà sentire la potente presenza del suo Figlio divino, per respingere le tentazioni con la Parola di Cristo, e così rimettere Dio al centro della nostra vita.