ITRI- FESTA DI SAN PAOLO DELLA CROCE 2016

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Il tempo il cui visse san Paolo della Croce

Riflessione di padre Antonio Rungi

Triduo di San Paolo della Croce – Venerdì 21 ottobre 2016

• Il vangelo di oggi ci presenta l’appello da parte di Gesù per imparare a leggere i Segni dei Tempi. San Paolo della Croce è stato in tutto un uomo, un religioso, un sacerdote, un missionario ed un santo del suo tempo..

• Luca 12,54-55: Tutti sanno interpretare gli aspetti della terra e del cielo, … “Quando vedete una nuvola salire a ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade.” Gesù verbalizza un’esperienza umana universale. Tutti e tutte, ciascuno nel suo paese e nella sua regione, sappiamo leggere gli aspetti del cielo e della terra. Il corpo stesso capisce quando c’è minaccia di pioggia o quando il tempo comincia a cambiare: “Pioverà”. Gesù si riferisce alla contemplazione della natura essendo una delle fonti più importanti della conoscenza e dell’esperienza che lui stesso aveva di Dio. Fu la contemplazione della natura ciò che aiutò a scoprire aspetti nuovi nella fede e nella storia della sua gente. Per esempio, la pioggia che cade sui buoni e sui cattivi, ed il sole sorge sui giusti e sugli ingiusti, lo aiuteranno a formulare uno dei messaggi più rivoluzionari: “Amate i vostri nemici!” (Mt 5,43-45).

• Luca 12,56-57: …, ma non sanno leggere i segni dei tempi. E Gesù ne trae la conclusione per i suoi contemporanei e per tutti noi: “Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?” Sant’Agostino diceva che la natura, la creazione, è il primo libro che Dio scrive. Per mezzo della natura Dio ci parla. Il peccato imbrogliò le lettere del libro della natura e, per questo, non siamo riusciti a leggere il messaggio di Dio stampato nelle cose della natura e nei fatti della vita. La Bibbia, il secondo libro di Dio, fu scritto non per occupare o sostituire la Vita, ma per aiutarci ad interpretare la natura e la vita e ad imparare di nuovo a scoprire le chiamate di Dio nei fatti della vita. “Perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?” Condividendo tra di noi ciò che vediamo nella natura, potremo scoprire la chiamata di Dio nella vita.

• Luca 12,58-59: Saper trarre la lezione per la vita. “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada procura di accordarti con lui, perché non ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esecutore e questi ti getti in prigione. Ti assicuro, non ne uscirai finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo”. Uno dei punti su cui Gesù insiste maggiormente è la riconciliazione. In quel tempo c’erano molte tensioni e conflitti tra i gruppi radicali con tendenze diverse, senza dialogo: zeloti, esseni, farisei, sadducei, erodiani. Nessuno voleva cedere dinanzi all’altro. Le parole di Gesù sulla riconciliazione che chiedono accoglienza e comprensione illuminano questa situazione. Perché l’unico peccato che Dio non riesce a perdonare è la nostra mancanza di perdono verso gli altri (Mt 6,14). Per questo, consiglia di cercare la riconciliazione prima che sia troppo tardi! Quando giunge l’ora del giudizio, sarà troppo tardi. Quando hai tempo, cerca di cambiar vita, comportamento e modo di pensare e cerca di fare il passo giusto (cf. Mt 5,25-26; Col 3,13; Ef 4,32; Mc 11,25).

Tra Giansenismo e quietismo

Nel tempo in cui è vissuto san Paolo della Croce trionfano il razionalismo, lo scientismo e si comincia a sviluppare il materialismo. Si espande dappertutto uno scetticismo sarcastico e dissacratore, che ha il suo più noto rappresentante in Voltaire, nato nello stesso anno di Paolo.

Il giansenismo è movimento teologico, religioso e politico, che prende nome da Giansenio (forma italianizzata del nome di Cornelius Otto Jansen, 1585-1638), teologo olandese, il cui trattato Augustinus, uscito postumo, fu condannato con un decreto dell’Inquisizione nel 1641, quindi da Urbano VIII (1642) e da Innocenzo X, la cui bolla Cum occasione (1653) condannava come ereticali le sue posizioni sulla grazia e sul libero arbitrio, sul peccato universale e sulla redenzione.

La dottrina

Giansenio estremizzava l’idea di Agostino secondo cui l’uomo, dopo il peccato originale, non è più in grado di volere o compiere il bene con le sole sue forze. La venuta di Cristo avrebbe dato all’uomo la possibilità di salvarsi, ma solo in quanto, dopo di essa, Dio concede la grazia, senza la quale l’uomo non sarebbe in grado di avere neppure il movimento iniziale verso il bene. All’uomo peccatore Dio non è tenuto, in giustizia, a concedere la grazia: questa è data soltanto a coloro che Dio, nella sua volontà imperscrutabile, ha predestinato, indipendentemente e prima di ogni previsione dei meriti. Tale predestinazione non è concessa neppure a tutti i battezzati, ma soltanto a coloro che Dio ha scelto particolarmente. Senza la grazia, l’uomo non può volere e fare altro che male; con essa, invece, non può volere e fare altro che bene. Questo forte accento sulla predestinazione ha fatto accostare il g. al calvinismo. Altri aspetti importanti del g. sono il rigorismo morale, l’episcopalismo e l’importanza fondamentale attribuita alla Bibbia e agli scritti dei Padri della Chiesa.

Il quietismo è un complesso di dottrine a sfondo mistico diffuse nel 17° sec., incentrate sull’affermazione della necessità della preghiera di quiete, di un atteggiamento cioè di totale e puro abbandono contemplativo in cui deve porsi il fedele di fronte a Dio, per adorarlo, amarlo e servirlo, senza alcuna produzione di atti.

Quella stessa epoca, tuttavia, fu anche un’epoca di grande passione per la mistica. Basta ricordare la passione e le sofferenze di Pascal e Fénelon o anche il fatto che delle diatribe suscitate dal giansenismo e dal quietismo se ne dovettero interessare re e papi, governi e università.

Il quietismo si connette con le concezioni sulla preghiera che cominciarono a divulgarsi durante la Controriforma per svilupparsi nell’età barocca (prevalenza della preghiera privata e mistica sulla liturgica). Grande influenza ebbero gli scritti dello spagnolo J. Falconi (m. nel 1638), che sosteneva il metodo contemplativo con l’assoluto abbandono alla volontà divina, e del francese F. Malaval, che intendeva come atteggiamento fondamentale l’assoluta ‘nudità’ dello spirito, l’abbandono cioè di ogni immagine sensibile o intelligibile. Massimo esponente del q. fu M. de Molinos che coinvolse in Italia P.M. Petrucci e altri; in Francia i casi più celebri sono quelli di F. La Combe, di Madame J.-M. Guyon, di Fénelon.

Giansenismo e quietismo esprimono la passione di molti per il rigorismo morale e per le vie mistiche del cammino verso Dio. Alfonso de’ Liguori e Paolo della Croce rispondono, in Italia, a queste esigenze nel modo più pacifico e ortodosso e in armonia con il magistero della Chiesa.

I suoi santi maestri

Le opere di san Francesco di Sales furono probabilmente le prime che Paolo Danei conobbe. Da lui apprese la dottrina del “sacro silenzio d’amore che è un parlare tanto grande alle orecchie dello sposo divino” (L I, 462), come pure la dottrina dell’amore “compassivo” che va a Dio attraverso la via unica del Cristo crocifisso.

“Chi guarda solo la consolazione perde di vista il gran Dio delle consolazioni” (L I, 535), ripete Paolo col Sales. Lo spirito mite di Francesco di Sales si riprodusse nella mitezza e misericordia che sempre temperarono l’austerità di Paolo. Lo stesso Francesco di Sales fu probabilmente il veicolo attraverso cui Paolo conobbe gli scritti di Teresa d’Avila. Il nome della santa è l’unico che s’incontra nel Diario di Castellazzo. Fin dall’infanzia fu colpito dalla frase della santa: “0 patire o morire”. Apprese da lei, particolarmente, i criteri di discernimento dell’orazione e soprattutto la grande stima per la vita di orazione. Capì che s’incontrano pericoli anche nelle vie di Dio, ma quando si vede che i frutti sono buoni, bisogna accogliere i doni di orazione, che non sono un bene privato ma fanno crescere tutta la Chiesa.

Altro autore spirituale che per tutta la vita leggerà volentieri è san Giovanni della Croce, che egli chiama “il principe dei mistici”. In Giovanni scoprì la spiritualità della Passione applicata alle vie della contemplazione di Dio. S’incontra veramente Dio quando si rinuncia a tutte le soddisfazioni, anche alle più spirituali. Gesù crocifisso è il testimone perfetto dell’adorazione pura e della contemplazione di Dio solo. Con Giovanni, Paolo approfondisce il discernimento dei cammini spirituali e la diffidenza verso la ricerca di doni straordinari, come visioni, miracoli, locuzioni. Scopre sempre meglio le caratteristiche degli alti gradi di orazione. “Il segno che l’anima deve cessare dai discorsi interiori si ha quando essa gusta di starsene a solo a solo nel seno amoroso del Signore, con una dolce vista di fede, con un silenzio sacro di amore” (L II, 818). “Per mezzo del vostro patire si purifica l’imperfetto e l’anima diviene come un cristallo in cui si riverbera la luce del Sole Divino e resterete tutta in Dio trasformata per amore” (LII,719).

Da Giovanni, Paolo mutua un’espressione e una dottrina che gli saranno tanto care e che esprimono la sua totale apertura a Dio Padre: “stare nel seno del Padre”. Il seno del Padre è l’essenza divina dove Gesù sempre abita e anche noi siamo chiamati ad abitare. A quell’altezza cessa il chiasso delle parole umane e si riposa sempre in un silenzio d’amore. Scriveva nel 1733 ad Agnese Grazi: “Se ne stia alla presenza di Dio, con una pura e semplice attenzione amorosa a quell’immenso Bene, in un sacro silenzio d’amore, riposando con questo santo silenzio tutto il suo spirito nel seno amoroso dell’Eterno Dio” (L I,103).

Il carisma della Passione

La coscienza di dover incentrare l’attenzione del suo spirito nella Passione di Gesù crebbe progressivamente nel giovane Paolo Danei. All’inizio sentì di chiamare i compagni che avrebbe radunato “i poveri di Gesù”. Povertà, distacco dal mondo, solitudine erano gli ideali che più lo attraevano. Erano, per così dire, negazioni di ciò che vedeva come tanto negativo nella vita cristiana, negazioni delle idolatrie del cuore e del peccato. La prima idea positiva che compare al centro della spiritualità di Paolo è il nome di Gesù al centro del “segno” di cui si vede fregiato, sotto la croce bianca. Segue la veste nera di cui si doveva vestire, con la precisazione del suo significato di “perpetuo lutto” per la Passione e morte di Gesù. Questa spiegazione potrebbe far pensare che Paolo concepisse la Passione unicamente nel suo aspetto negativo di conseguenza e riparazione del peccato. Ma innumerevoli testi dimostrano, al contrario, che Paolo fu uno dei mistici che ebbe più chiaro il valore positivo della Passione, come massima espressione dell’amore di Dio.

Il voto della Passione, che Paolo emise già nel 1721, costituirà la sua personale consacrazione alla Passione, che diventerà ben presto l’elemento distintivo della nuova congregazione, in sostituzione dell’ideale negativo della povertà. Alla scoperta di questa vocazione Paolo arrivò attraverso la personale esperienza del fallimento di progetti maturati sotto l’impulso delle ispirazioni di Dio. In quell’occasione Paolo ebbe anche la chiara intuizione che il “radunare compagni” avrebbe avuto come scopo l’interiorizzazione della Passione. Il “segno” si arricchì poi del ricordo della Passione e del simbolo dei chiodi. Il voto della Passione entrò nelle Regole verso il 1730, nel testo che Paolo preparò per l’esame del suo vescovo, il cardinale Altieri. Da allora in poi tutta la spiritualità del santo gravita intorno al tema della Passione.

La volontà di Dio

La prima espressione della spiritualità della Passione in Paolo è data dalla conformità alla volontà di Dio, che comporta un’irremovibile fiducia nel Padre sull’esempio di Gesù. “La santità consiste nell’essere totalmente uniti alla volontà di Dio”, scriveva ad Agnese Grazi (L I,286). E scrivendo a Tommaso Fossi nel 1772, così sintetizzava una dottrina vissuta e predicata per tutta una vita: “L’orazione non consiste in aver consolazioni, lacrime, ecc., né si dà agli uomini forti cibo di fanciulli. È ben vero che il prendere quello che Dio manda e lasciarsi totalmente governare dalla sua infinita Bontà (facendo però noi le nostre parti ed eseguendo in tutto la sua divina volontà) è il meglio” (L I,805).

Che questa conformità non sia passiva rassegnazione, magari razionalizzata alla maniera degli stoici, lo si deduce dal fatto che Paolo distingue tre gradi di adesione alla volontà di Dio: “Gran punto è questo: è gran perfezione il rassegnarsi in tutto al divino volere; maggior perfezione è il vivere abbandonata, con grande indifferenza, nel divino Beneplacito; massima, altissima perfezione è il cibarsi in puro spirito di fede e di amore della divina volontà. Oh dolce Gesù, che gran cosa ci avete insegnato con parole ed opere di eterna vita! Si ricordi che quest’amabile Salvatore disse ai suoi diletti discepoli che il suo cibo era di fare la volontà dell’eterno suo Padre” (L I,491).

È importante vedere come per Paolo la Passione non è soltanto né principalmente una riparazione che Gesù offre alla giustizia offesa del Padre. La Passione parte dal Padre come amore. In questa volontà di beneplacito, Paolo assorbe anche il peccato suo o di altri, che tanto affligge il sofferente, portandolo a pensare che la sofferenza sia soltanto castigo delle colpe.

Scriveva a Marianna Girelli: “Conviene prendere le percosse che vengono dall’alto e soffrirle pacificamente, con amorosa mansuetudine, dalla mano dolcissima del gran Padre celeste. Così passa il temporale che minaccia tempesta e si fa come il vignaiolo o ortolano che quando viene la tempesta si ritira nella capanna fino a quando sia passata e sta in pace. Così noi, in mezzo a tante tempeste che ci minacciano i nostri ed i peccati del mondo, stiamocene ritirati nell’aurea capanna della divina volontà, compiacendoci e facendo festa che si adempia in tutto il sovrano divino Beneplacito. Perda di vista, signora Marianna, ogni cosa creata; tenga l’intelletto ben purgato e netto da ogni immagine e se ne fugga, in mezzo a tanti guai che sono nel mondo, nel seno del celeste Padre per Gesù Cristo Signore nostro, ed ivi si perda tutta nell’immensa Divinità come si perde una goccia d’acqua nel grande oceano: così non vivrà più una vita sua, ma vita deifica e santa” (L III,753). In questo senso egli perfeziona due meravigliose espressioni che aveva avuto care fin da giovane: “Credo che la croce del nostro dolce Gesù avrà poste più profonde radici nel vostro cuore e che canterete: “patire e non morire”; oppure: “o patire o morire”; oppure ancora meglio: “né patire né morire”, ma solamente la totale trasformazione nel divino Beneplacito” (L II,440).

L’incontro col Taulero: il fondo dell’anima

Giovanni Taulero, domenicano tedesco vissuto nel secolo XIV, appartenente al gruppo di teologi mistici della scuola Renana, era un autore discusso. Tuttavia insigni teologi e santi lo avevano validamente difeso. Taulero non è principalmente uno speculativo, ma un santo. La sua ambizione non è quella di insegnare dottrine meravigliose, ma di santificarsi e santificare. La pratica non è mai separata dalla teoria. E non si tratta di una pratica tendente a fare opere apprezzabili dagli uomini, ma tendente a fare spazio all’azione dello Spirito di Dio.

Dal Taulero Paolo ricava soprattutto la dottrina riguardante “il fondo dell’anima”. Entrando nel proprio fondo, l’anima ha la percezione di Dio nella forma più pura che si possa avere. Ivi risuona la sua testimonianza quando ogni altra voce tace. È necessario che tutte le facoltà cessino di operare perché si possa ascoltare Dio in questo fondo, anche se è vero che le azioni delle facoltà ricevono forza da esso. Questa percezione la si può avere, forse, solo per qualche istante, ma quando la si ha, è come se si vivesse già nell’eternità. Nel fondo dell’anima abita Dio con la sua luce increata.

Paolo chiama il fondo assai liberamente “suprema parte dello spirito” (L I,118), “santuario dell’anima” (L I,538), “apice della mente” (L II,731), “fondo o centro dell’anima” (L II,471). Ad esso non possono accostarsi né gli angeli cattivi né quelli buoni, ma l’anima è sola col suo Dio. Così ne scriveva ai suoi religiosi in una circolare del 1750: “Gesù, che è il divino Pastore, vi condurrà come sue care pecorelle al suo ovile. E qual è l’ovile di questo dolce, sovrano Pastore? Sapete qual’è? È il seno del divin Padre; e perché Gesù sta nel seno del Padre, così in questo seno sacrosanto, divino, Egli conduce e fa riposar le sue care pecorelle; e tutto questo sopraceleste, divino lavoro si fa nella casa interiore dell’anima vostra, in pura e nuda fede e santo amore, in vera astrazione da tutto il creato, povertà di spirito e perfetta solitudine interiore; ma questa grazia sì eccelsa si concede solamente a quelli che studiano di essere ogni giorno più umili, semplici e caritativi” (L IV,226).

La lettura del Taulero produceva in Paolo straordinarie risonanze. Sentiva una profonda sintonia con lui, si commoveva anche soltanto al nominarlo, pensando ai suoi insegnamenti.

Il tutto e il niente

Assai prima di conoscere il Taulero, Paolo insiste sulla presentazione della creatura come un niente o “un orribile nulla” e di Dio come “il Tutto”. “Ritorni a buttarsi nel suo niente, -scrive alla Grazi nel 1741 – a conoscere la sua indegnità e da questa cognizione ne ha da nascere una maggior fiducia in Dio” (L I,267). E nel 1740 aveva già scritto alla Bresciani: “Chi vuol trovare il vero tutto che è Dio, bisogna che si butti nel niente. Dio è quello che per essenza è quello che è: “Io sono colui che sono”. Noi siamo quelli che non siamo, perché per quanto scaviamo a fondo non troveremo altro che niente, niente; e chi ha peccato è peggio dello stesso niente, perché il peccato è un orribile nulla, peggio del nulla” (L I,471).

Motivazione dell’invito ad annichilarsi è, per Paolo, sia la condizione di creatura, sia l’esempio della kenosi del Figlio di Dio. Nell’accentuazione confusionaria e permissiva della benevolenza di Dio che caratterizza la nostra epoca non è facile percepire l’elemento dell’infinita distanza fra il Creatore e la creatura che Paolo manifestava anche con la semplice espressione con cui si riferiva a Dio: “Sua Divina Maestà”. Si tratta di una distanza morale che affonda le sue radici nella distanza metafisica. Paolo sintetizza il suo pensiero a proposito di tale distanza con le seguenti espressioni: “Per essere santo ci vuole una “N” e una “T”. Chi cammina più di dentro indovina il significato, ma chi non è ancora entrato in vera profonda solitudine, non sa indovinarne il significato. Ed io soggiungo: la “N” sei tu che sei un orribile “nulla”; la “T” è Dio che è l’infinito “Tutto” per essenza. Lascia dunque sparire la “N” del tuo niente nell’infinito “Tutto” che è Dio ottimo massimo ed ivi perditi tutto nell’abisso dell’immensa Divinità. Oh che nobile lavoro è questo” (L III,447).

A padre Pietro Vico, maestro dei novizi al monte Argentario, scriveva: “Non v’è da temere nessun inganno purché vi sia e si accresca la cognizione del proprio nulla avere, nulla sapere, nulla potere e che, quanto più si scava, si trova anche più l’orribile nulla, per quindi lasciarlo sparire nell’infinito Tutto” (L III,450). E ad Agnese Grazi: “Non v’è cosa che piaccia più a Dio quanto l’annichilirsi e abissarsi nel nulla e questo spaventa il diavolo e lo fa fuggire… Per prepararsi alla battaglia ed essere armata dell’armatura di Dio non v’è mezzo più efficace che l’annichilirsi e annientarsi davanti a Dio, credendo fermamente di non essere atta ad uscirne vittoriosa se Dio non è con lei a combattere, onde deve gettare questo suo nulla in quel vero tutto che è Dio e con alta fiducia combattere da valorosa guerriera, stando certissima d’uscirne vittoriosa” (L I,150).

Nel 1768 scrive alla Calcagnini, con grande tenerezza di espressioni: “Standosene in quel sacro deserto interiore, ivi lasci sparire il suo vero nulla nell’infinito Tutto e riposi in Gesù Cristo nel seno del dolcissimo Padre come bambina, succhiando il latte divino alle mammelle sacratissime dell’infinita sua carità. E se l’amore la fa dormire di quel mistico sonno che è l’eredità che il Sommo Bene dà in questa vita ai suoi diletti, lei dorma pure, che in tal sacro sonno diverrà sapiente della sapienza dei santi” (L III,815).

Morte mistica e divina natività

Paolo della Croce deve al Taulero la nozione di “divina natività”. La nozione di “morte mistica” l’aveva maturata per conto suo fin dal tempo del Diario, anche se in esso non si trova esplicitamente questa espressione. Lui preferiva allora “il totale staccamento da tutto il creato”, comprese le consolazioni spirituali. Scrivendo, nel 1734, alla Grazi, le dice: “Oh mia figlia! Fortunata quell’anima che si stacca dal suo proprio godere, dal proprio sentire, dal proprio intendere! Altissima lezione è questa; Dio gliela farà imparare se lei metterà il suo contento nella croce di Gesù Cristo, nel morire a tutto ciò che non è Dio nella croce del salvatore!” (L I,107).

L’espressione “morte mistica” era assai in uso presso i quietisti. Paolo, però, la usa interpretandola vitalmente all’interno della propria dinamica interiore, rigorosamente ortodossa e responsabilizzante. Dopo il 1748, la dottrina della morte mistica, collegata con quella della divina natività, ritorna continuamente nei suoi scritti. Scrive, ad esempio, a Lucia Burlini nel 1751: “Tutta umiliata e riconcentrata nel vostro niente, nel vostro niente potere, niente avere, niente sapere, ma con alta e filiale confidenza nel Signore, vi avete da perdere tutta nell’abisso dell’infinita carità di Dio che è tutto fuoco d’amore… Ed ivi in quell’immenso fuoco lasciar consumare tutto il vostro imperfetto e rinascere a nuova vita deifica, vita tutta d’amore, vita tutta santa; e questa divina natività la farete nel divin Verbo Cristo Signor nostro… Sicché morta misticamente a tutto ciò che non è Dio, con altissima astrazione da ogni cosa creata, entrate sola sola nel più profondo della sacra solitudine interiore, nel sacro deserto…” (L II,724-725).

Per due secoli si è cercato un piccolo trattato sulla morte mistica che Paolo diceva di aver inviato a diverse persone. Nel 1976 ne è stata scoperta una copia nel monastero delle monache passioniste di Bilbao in Spagna. Negli anni seguenti ne furono trovate altre due copie. Il trattatello è intitolato “Morte mistica ovvero olocausto del puro spirito di un’anima religiosa”. Si può dividere in due parti. La prima contiene la dottrina generale sulla morte mistica. La seconda applica tale dottrina alla pratica dei singoli consigli evangelici nella vita religiosa. Gli studi che sono stati fatti rilevano che il testo, così com’è, non sembra stilato da san Paolo della Croce. La sua stesura sembra dovuta a un collaboratore redazionale, che fu probabilmente il padre Giammaria Cioni. La data di composizione più probabile si colloca negli anni 1760-1761, anni di grandi prove per Paolo, a causa del fallimento definitivo della richiesta dei voti solenni e a causa delle malattie di cui soffriva.

La morte mistica è una vera immersione battesimale. Le corrisponde molto bene l’attuale spiritualità del battesimo e quella liturgica del mistero pasquale. Anche la spiritualità dell’immersione e della croce gloriosa, come viene oggi sviluppata dal movimentò neocatecumenale, è fondamentalmente la stessa cosa. Paolo della Croce intuiva queste realtà sulla base dei testi scritturali e delle esperienze dei mistici cristiani che lo avevano preceduto.

 

 

“Vorrei incenerirmi d’amore”

Nel secolo dell’Illuminismo e dei miscredenti, Paolo è uomo di Dio tra gli uomini della ragione. Discernendo con molta perspicacia i mali del tempo, da lui chiamato “lacrimoso e calamitoso”, ne scopre e ne indica il rimedio più efficace nella passione di Gesù. Si consuma per piantare la croce di Cristo nel cuore dei fratelli. Per piantarvi cioè l’amore di Dio, il solo capace di salvare l’uomo. La croce al centro di tutto, come segno e sigillo dell’amore di Dio. “Nella Passione c’è tutto”, dice con forza. E la sua vita gira solo attorno a quel perno, segnata com’è dal mistero della croce. Un venerdì santo il Crocifisso e l’Addolorata gli toccano il petto. Paolo si ritrova scolpiti nel cuore gli strumenti della Passione, il distintivo passionista, i dolori della Madonna. “Oh! Figlia mia che dolore, confiderà a Rosa Calabresi, che dolore provavo, oh! che amore. Un misto di estremo dolore e di eccessivo amore”. Un giorno il Crocifisso stacca le braccia dalla croce e si stringe Paolo al petto. Gli sembra “di stare positivamente in paradiso”. Tale è la veemenza del suo amore verso Dio che per anni soffre di una “strana palpitazione cardiaca” e gli abiti sono bruciati dalla parte del cuore. Con un ferro rovente si imprime sul petto il nome di Gesù. Spasima: “Vorrei incenerirmi d’amore… Non sarebbe meglio che come una farfalletta mi slanciassi tutto nelle amorose fiamme, ed ivi in silenzio d’amore restassi incenerito, sparito, perso in quel divin Tutto?… Le mie viscere sono tanto inaridite che i fiumi non bastano a dissetarmi; se non bevo ai mari, non mi levo la sete. Ma io voglio bere ai mari di fuoco d’amore”. Ha ragione di sentirsi “liquefatto in Dio”. Vuole incendiare il mondo intero d’amore. “Mi resti impressa nel cuore la passione del mio Gesù, che poi tanto e tanto lo desidero, e vorrei imprimerla nel cuore di tutti, che così brucerebbe il mondo di santo amore”. Vive immerso in una continua contemplazione ed in estasi frequenti. Percorre l’Italia dal Piemonte alle Puglie per comunicare a tutti l’incontenibile amore al Crocifisso che gli brucia dentro. Predica oltre 250 missioni (compresi corsi di esercizi spirituali a clero e monache), accompagnate spesso da miracoli e sempre da immensi frutti spirituali. Non sceglie di sua iniziativa pulpiti di prestigio anche se vi è spesso chiamato. Preferisce la povera gente dimenticata ed abbandonata da tutti. Predicazione appassionata la sua, accompagnata da flagellazioni e penitenze. Banditi e peccatori incalliti, vescovi e cardinali si sciolgono in pianto quando lui parla di Gesù crocifisso. “Fa liquefare i cuori quantunque siano di macigno”. E’ dotato di “vivacità e perspicacia di mente singolari, di raro talento ed apertura di mente, di grand’ingegno”. Ma attinge non tanto al bagaglio culturale, del resto non indifferente, quanto alla sua personale esperienza di Dio. Scrive oltre cinquantamila lettere. Peccato che solo una minima parte sia pervenuta fino a noi. Spesso è con la penna in mano davanti a “mucchi di lettere così grossi che spezzerebbero un travertino o un masso di bronzo”. Molte lettere riguardano la direzione spirituale. Numerose le anime da lui dirette rintracciabili non solo tra religiosi e religiose, ma anche tra i laici, nobili, vescovi, prelati della curia romana. Inizia a dirigerle prima ancora di essere ordinato sacerdote e vi dedicherà le sue energie migliori fino alla morte. La predicazione lo mette in contatto con anime che restano affascinate da lui, e che a lui si affidano per meglio rispondere ai richiami della grazia. Anche se esigente, infonde coraggio, fiducia e sicurezza. Insegna a morire a se stessi per rinascere continuamente a vita nuova in Cristo crocifisso e risorto. Esorta a dimenticare se stessi e riposare nel seno del Padre, coltivando l’unione con Lui. “Per essere santo, scrive, ci vuole una N e una T… la N sei tu che sei un nulla; la T è Dio che è l’infinito tutto per essenza. Lascia dunque sparire la N del tuo niente nell’infinito Tutto”. Pur avendo celebrato il matrimonio mistico nella sua giovinezza, vive una straziante aridità per circa 50 anni. Sperimenta prove durissime rare a trovarsi in altri mistici. Scrive nel diario: “Desidero solo di essere crocifisso con Gesù”. Il suo anelito si realizza perfettamente. E il mistico del Crocifisso, diventa mistico crocifisso. Geme: “Cammino per vie spaventose. Il cielo per me sembra sia diventato di bronzo e di fuoco la terra. Sono come un povero naufragante che in notte buia attaccato ad una piccola tavoletta in mezzo alle onde tempestose, aspetta di bere a momenti la morte”. Si sente “un tronco secco abbandonato nella foresta perché fradicio e inutile anche per il fuoco”. Vive in nuda fede, nella “fede oscura”, sorretto da una incrollabile speranza. Si abbandona totalmente alla volontà di Dio “come una barca senza vela”. Raccomanda di cibarsi “alla grande” della divina volontà. Per assurdo troverebbe il paradiso anche nell’inferno se questa fosse la volontà di Dio. “Mio maggiore desiderio, scrive, è quello di consumarmi tutto in quella volontà”. Ha visto bene chi lo ha definito il “principe dei desolati” e “il più grande mistico e scrittore spirituale del settecento”. Vive una aspra penitenza. Nella propria croce Paolo vede una partecipazione alla passione di Gesù. Chiama le sofferenze “scherzi d’amore… finezze d’amore d’un Dio amante… ricami del lavoro amoroso di Dio… preziose margherite e gioie del cuore”. Ama e trova beata la solitudine. Ma sa anche stare in compagnia. E’ sensibile e gentile, soave ed arguto. Lo chiamano “mamma della misericordia”. E’ facile al pianto ed alla commozione sia davanti alla bellezza di un fiore che davanti alle macerie lasciate dal peccato nel cuore dell’uomo. Alla sua congregazione “drappello radunato sotto la croce” Paolo affida la missione di risvegliare nel cuore dell’uomo la “grata memoria” della passione di Gesù, “l’opera più stupenda del divino amore… il miracolo dei miracoli di Dio”. Ai suoi figli lascia il compito di camminare vicino ai crocifissi di ogni tempo e di ogni luogo condividendone angosce e speranze. Quello che i Passionisti, presenti in oltre 50 nazioni, vivono ogni giorno sull’esempio e con il dinamismo di Paolo loro Padre e Fondatore. E non solo i Passionisti. Il movimento suscitato da Paolo si è via via allargato. Alcuni istituti di vita consacrata, molti laici impegnati sono stati contagiati da lui. Si richiamano alla sua ricca spiritualità e lo amano con un tenero amore di figli.

ITRI- FESTA DI SAN PAOLO DELLA CROCE 2016ultima modifica: 2016-10-21T20:00:33+02:00da pace2005
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