LA MEDITAZIONE PER IL RITIRO SPIRITUALE ALLE SUORE ANCELLE DEL SACRO CUORE

ANCELLE DEL SACRO CUORE DI CATERINA VOLPICELLI

FRATTAMAGGIORE – NAPOLI

SECONDO INCONTRO DI FORMAZIONE – 28 NOVEMBRE 2013

GUIDA SPIRITUALE: P.ANTONIO RUNGI – PASSIONISTA

<<La chiamata di Dio: dall’evento parola all’esperienza>>

“La vocazione dei cristiani alla gioia”

 1.Introduzione

La vocazione è la manifestazione della profonda e misteriosa natura di Dio, che si rivela come amore assoluto ed assolutizzante aperto all’uomo, il quale viene interpellato da Dio nella sua totalità e nel profondo del suo essere al punto di dover necessariamente manifestare le proprie doti di generosità e di accettazione del dono divino o, al contrario, le opposte facoltà di egoismo e di rifiuto. Da sempre l’uomo è chiamato da Dio ed  è invitato a lasciarsi amare da Lui, in piena libertà di accettazione o di rifiuto della mano che gli viene tesa con amorevole gratuità. Questo dono di Dio all’uomo segna le differenti tappe della rivelazione divina e del cammino dell’uomo, di colui che acconsente come di colui che rifiuta. La storia della “vocazione dell’uomo all’incontro con Dio” inizia con la creazione dell’intero universo (Gen 1-2) e trova la sua definitiva conclusione nei tempi ultimi, quando l’intero creato sarà “ricapitolato” in Cristo Signore (Ef 1,10) e sarà eternamente dichiarato beato chi avrà saputo custodire, con fedeltà, l’eterna parola di verità pronunciata dalla bocca di Dio (Ap 22,7.18 s).L’odierna società civile dà scarso rilievo all’appello che viene da Dio e, in senso più generale, alle esigenze dello spirito, salvo poi dichiararsi favorevole alla promozione ed alla crescita della dignità umana percorrendo strade e scegliendo mezzi contrari, se non addirittura ostili, ai progetti di Dio.Sollecitato dalla “chiamata” divina ed associato al progetto salvifico in forza di una specifica missione che gli viene affidata dal suo Creatore e Salvatore, l’uomo risulta credibile agli occhi di Dio se sa trascendere i propri limiti creaturali per consegnarsi, con fiduciosa speranza, alle superiori esigenze dell’amore di Dio, resosi manifesto, nella pienezza dei tempi (Gal 4,4), in Gesù Cristo e nel dono dello Spirito.

2.DALL’ESORTAZIONE APOSTOLICA  EVANGELII GAUDIUM DI PAPA FRANCESCO

1. La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni. 

2. Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata. Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore di Cristo risorto. 

3. Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché « nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore ».[1] Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. Questo è il momento per dire a Gesù Cristo: « Signore, mi sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono qui un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te. Riscattami di nuovo Signore, accettami ancora una volta fra le tue braccia redentrici ». Ci fa tanto bene tornare a Lui quando ci siamo perduti! Insisto ancora una volta: Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia. Colui che ci ha invitato a perdonare « settanta volte sette » (Mt 18,22) ci dà l’esempio: Egli perdona settanta volte sette. Torna a caricarci sulle sue spalle una volta dopo l’altra. Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce questo amore infinito e incrollabile. Egli ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia. Non fuggiamo dalla risurrezione di Gesù, non diamoci mai per vinti, accada quel che accada. Nulla possa più della sua vita che ci spinge in avanti! 

4. I libri dell’Antico Testamento avevano proposto la gioia della salvezza, che sarebbe diventata sovrabbondante nei tempi messianici. Il profeta Isaia si rivolge al Messia atteso salutandolo con giubilo: « Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia » (9,2). E incoraggia gli abitanti di Sion ad accoglierlo con canti: « Canta ed esulta! » (12,6). Chi già lo ha visto all’orizzonte, il profeta lo invita a farsi messaggero per gli altri: « Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme » (40,9). La creazione intera partecipa di questa gioia della salvezza: « Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri » (49,13). 

Zaccaria, vedendo il giorno del Signore, invita ad acclamare il Re che viene umile e cavalcando un asino: « Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso! » (Zc 9,9). Ma forse l’invito più contagioso è quello del profeta Sofonia, che ci mostra lo stesso Dio come un centro luminoso di festa e di gioia che vuole comunicare al suo popolo questo grido salvifico. Mi riempie di vita rileggere questo testo: « Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia » (Sof 3,17). 

È la gioia che si vive tra le piccole cose della vita quotidiana, come risposta all’invito affettuoso di Dio nostro Padre: « Figlio, per quanto ti è possibile, tràttati bene … Non privarti di un giorno felice » (Sir  14,11.14). Quanta tenerezza paterna si intuisce dietro queste parole!  

5. Il Vangelo, dove risplende gloriosa la Croce di Cristo, invita con insistenza alla gioia. Bastano alcuni esempi: « Rallegrati » è il saluto dell’angelo a Maria (Lc 1,28). La visita di Maria a Elisabetta fa sì che Giovanni salti di gioia nel grembo di sua madre (cfr Lc 1,41). Nel suo canto Maria proclama: « Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore » (Lc 1,47). Quando Gesù inizia il suo ministero, Giovanni esclama: « Ora questa mia gioia è piena » (Gv 3,29). Gesù stesso « esultò di gioia nello Spirito Santo » (Lc 10,21). Il suo messaggio è fonte di gioia: « Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » (Gv 15,11). La nostra gioia cristiana scaturisce dalla fonte del suo cuore traboccante. Egli promette ai discepoli: « Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia » (Gv 16,20). E insiste: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia » (Gv 16,22). In seguito essi, vedendolo risorto, « gioirono » (Gv 20,20). Il libro degli Atti degli Apostoli narra che nella prima comunità « prendevano cibo con letizia » (2,46). Dove i discepoli passavano « vi fu grande gioia » (8,8), ed essi, in mezzo alla persecuzione, « erano pieni di gioia » (13,52). Un eunuco, appena battezzato, « pieno di gioia seguiva la sua strada » (8,39), e il carceriere « fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per aver creduto in Dio » (16,34). Perché non entrare anche noi in questo fiume di gioia? 

6. Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto. Capisco le persone che inclinano alla tristezza per le gravi difficoltà che devono patire, però poco alla volta bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie: « Sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere …Questo intendo richiamare al mio cuore, e per questo voglio riprendere speranza. Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie. Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà … È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore » (Lam 3,17.21-23.26). 

7. La tentazione appare frequentemente sotto forma di scuse e recriminazioni, come se dovessero esserci innumerevoli condizioni perché sia possibile la gioia. Questo accade perché « la società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia ».[2] Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice. In varie maniere, queste gioie attingono alla fonte dell’amore sempre più grande di Dio che si è manifestato in Gesù Cristo. Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: « All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva ».[3]

 

8. Solo grazie a quest’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. Giungiamo ad essere pienamente umani quando siamo più che umani, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice. Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?

 

3. La vocazione nell’Antico Testamento

La vocazione (concetto espresso in ebraico dal termine qara’ ed in greco dal verbo kaléo, “chiamare”) esprime e rappresenta, nel contesto biblico vetero-testamentario, la prima esplicita manifestazione del rapporto di elezione che l’amore eterno di Dio stabilisce con Israele, popolo “scelto” tra molti altri popoli più potenti, ricchi e famosi di lui. Con lo stesso misterioso criterio di scelta, Dio ha “eletto”, in seno al popolo ebraico, dei personaggi non particolarmente dotati di specifiche virtù umane, ma da Lui considerati alla stregua di veri “figli” (cf. Os 11,1; Dt 14,1), per farne suoi messaggeri, o portavoce della sua volontà di salvezza, sancita a varie riprese con “patti di alleanza”.

L’alleanza sancita sul monte Sinai ratifica la risposta positiva del popolo ebraico, sulla cui elezione libera e gratuita da parte di Dio viene posto il definitivo sigillo. Prima della stipula dell’alleanza sinaitica, però, Dio vuole chiarire il significato della vocazione del popolo ebraico al fine di evitare futuri equivoci. Rivolgendosi a Mosè, Dio gli rammenta la fine ingloriosa fatta dagli egiziani, travolti dalle acque durante l’inseguimento degli ebrei fuggitivi e gli chiarisce il senso della dignità e della missione di quel popolo “eletto”, definito da Dio stesso come “figlio primogenito” (Es 4,22): gli ebrei devono ascoltare la voce di YHWH, osservare i termini dell’alleanza, essere un regno di sacerdoti, una nazione santa e ricordare di essere, tra tutti i popoli della terra, l’esclusiva proprietà di Dio (Es 19,4 s).

La chiamata di Dio provoca il giudizio (in greco, krìsis) attuale ed escatologico del genere umano, poiché da essa scaturisce una sanzione per chi si ribella alla Parola divina, disprezzandola, oppure la realizzazione delle promesse divine per chi l’accoglie con pienezza di fede e d’amore. Infatti, la vocazione/chiamata divina sollecita ed esige sempre una risposta da parte del chiamato e le espressioni bibliche più ricorrenti, per esprimere tale risposta, sono: “ascoltare la voce” e “osservare l’alleanza” di Dio, che sta per essere stipulata.

Il popolo eletto accoglie prontamente l’alleanza, voluta da Dio, con una proclamazione collettiva e vincolante: “Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo” (Es 19,8). Su questo impegno solenne, preso dagli ebrei davanti al Signore Dio, si giocheranno le sorti future del popolo eletto; ogniqualvolta gli ebrei si allontanano dal solenne giuramento di fedeltà a Dio sono puniti, spesso in modo assai severo e quando si ravvedono, assumendo comportamenti  coerenti con la Legge consegnata da Dio a Mosè sul monte Sinai, sono gratificati con periodi di pace e di prosperità. I testi biblici, che narrano le vicende storiche di Israele durante il periodo dei giudici e dei re, espongono questo modo di procedere di Dio nella storia del suo popolo, il quale prende gradualmente coscienza di essere una “nazione santa”, un “regno di sacerdoti”, destinatario di privilegi sconosciuti ad altri popoli.

Il popolo eletto, infatti, riconosce di essere addetto, in modo del tutto speciale, al servizio di Dio, alla purezza del suo culto sulla terra, alla sua conoscenza ed alla sua adorazione. Ogni israelita si sente responsabile della presenza stessa di Dio sulla terra e da ciò scaturisce la santità, ossia la separazione da tutto ciò che non è Dio e di Dio, il distacco radicale da ogni profanità.

Si comprende come la chiamata di Dio, o vocazione, coincida con una richiesta di santità che il Creatore rivolge alle sue creature.

La  vocazione sacerdotale di tutta la nazione caratterizza, in ogni tempo della sua storia, la vita d’Israele, anche quando esso è ridotto soltanto ad un misero “resto” a causa delle tragiche vicende belliche, in cui viene coinvolto a causa dell’insipienza della sua classe dirigente, politica e sacerdotale. Quando il popolo eletto sembra essersi allontanato completamente dall’impegno preso con il suo Dio, s’impongono con forza all’attenzione di tutto il popolo i profeti, figure carismatiche caratterizzate da un’assoluta dedizione a YHWH ed alle sue esigenze sulla terra, dall’impegno nel far custodire al popolo, od a fargli recuperare, Dio stesso e l’osservanza della sua alleanza/presenza, dalla fedeltà nell’indicare i piani di salvezza di Dio anche a costo della propria vita.

La vocazione profetica d’Israele è auspicata proprio dal “profeta” Mosè (Nm 11,29) e descritta da Baruc come una vera beatitudine (Bar 4,4), mentre in altri testi essa è interpretata come un esempio di intima relazione tra Dio ed Israele, cui tutti i popoli guardano con reverenza e timore (Dt 28,10), la dimostrazione lampante che tutto proviene dall’amore gratuito di Dio e dalla sua potenza trasformatrice (Is 41,14; 43,1; 48,12). Proprio la vocazione dei profeti rappresenta il prototipo delle vocazioni nell’Antico Testamento: Dio si rivolge alla coscienza più profonda ed intima di un essere umano, fino al punto di sconvolgerne l’esistenza e trasformandolo in un “uomo nuovo”. Ogni profeta svolge una missione peculiare, che non sempre accetta senza opporre una qualche resistenza a Dio perché intuisce le difficoltà cui andrà incontro.

La vocazione dei profeti s’inserisce nel contesto della vocazione profetica di tutto il popolo eletto, di cui essi rappresentano la coscienza critica e di cui garantiscono i reali interessi, anche rammentandogli gli impegni religiosi assunti solennemente con YHWH (cf. 1Re 18,30 ss; 2Re 2,12; 2Re 13,14; Is 6,5; 8,18; 20,3; Ger 8,18.21.23; 14,17; 23,9 s; Ez 12,6.11; 24,16.21.24).

Generalmente un profeta, chiamato da Dio a parlare in nome e per conto suo agli uomini, è consapevole che da tale vocazione non riceverà onori né vantaggi personali, ma che, al contrario, sarà considerato come un corpo estraneo dalla società in cui vive, se non addirittura un nemico (Is 8,11; Ger 12,6; 15,10; 16,1-9), sicché ognuno reagisce alla chiamata con ansia (Is 6,5), ma anche con generosità (Is 6,8), oppure accampando scuse plausibili per ritrarsi dall’impegno (Es 4,10-17; Ger 1,6), o “subendo” in qualche modo l’irruenza con cui Dio entra nella sua vita mediante visioni stupefacenti o terrificanti (Ez 1,4-3,15; cf. Is 6,1-4; 1Re 22,19-23). Per il timore di compromettersi troppo con Dio, c’è anche chi tenta inutilmente la fuga (Gn 1,3) o chi cerca delle garanzie nel dubbio di sentirsi preso in giro (Gdc 6,11-23), ma c’è pure chi è disposto a cambiare radicalmente la propria esistenza senza battito di ciglia (Gen 12,1), fidandosi istintivamente di Colui che chiama, senza fare troppi calcoli umani (Es 3,4). La vocazione profetica non risparmia neppure i non ebrei, che profeticamente agiscono per compiere la volontà salvifica di Dio anche senza rendersene pienamente conto (Nm 23,3.16; Ger 27,4-7; Is 48,14), a dimostrazione che Dio non fa lo schizzinoso come gli uomini, i quali tendono ad emarginare chi non appartiene al proprio gruppo etnico, linguistico, culturale o religioso.

Spesso, il profeta dell’Antico Testamento svolge anche la funzione di intercedere presso Dio per conto degli uomini, i quali andrebbero incontro ad un tragico destino di morte e distruzione senza la mediazione di queste persone “predilette” da Dio (Gen 20,7; 1Sam 7,5.8; Es 8,4.8.26.27; 32,11-14.31;

 

4. La vocazione nel Nuovo Testamento

Nell’ambito neo-testamentario, la vocazione colloca l’uomo nella sfera della salvezza scaturita da Cristo e legata alla sua opera (2Ts 2,14), in conseguenza della quale il battezzato è chiamato ad essere “la creatura nuova” (2Cor 5,17) in grado di essere “partecipe della natura divina” (2Pt 1,4). Rivolgendosi agli irrequieti cristiani della comunità di Corinto, sua croce e delizia, Paolo li descrive come “santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1,2). A ben vedere, è proprio questo il dato fondamentale della vocazione cristiana, in generale e di ogni vocazione particolare, in senso stretto. Dio è “colui che chiama” (Rm 9,12; Gal 5,8) ed i cristiani sono dei “con-vocati” per essere chiesa (ek-klesìa, con-vocazione) di Dio Padre in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito (cf. 1Ts 1,1; 2Ts 1,1; 1Cor 1,2; 2Cor 1,1 ecc.).

Secondo la prospettiva biblico-teologica del Nuovo Testamento, la vocazione è legata al “mistero di Cristo”, ossia alla rivelazione del piano salvifico divino “formulato nel Cristo Gesù nostro Signore”, “mistero che Dio, creatore dell’universo, ha tenuto in sé nascosto nei secoli passati”, ma che ora è stato “rivelato per mezzo dello Spirito ai suoi santi apostoli e profeti” e che consiste nel fatto che, ora, “i pagani sono ammessi alla stessa eredità, sono membri dello stesso corpo e partecipi della stessa promessa in Cristo Gesù, mediante il vangelo” (Ef 3,5s.9.11).

La vocazione cristiana ha una dimensione universale, è estesa a tutti gli uomini, ma per prendervi parte occorre essere consenzienti, manifestando la fede in Cristo. La dimensione universale, cattolica della vocazione o chiamata degli uomini alla fede in Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio e redentore dell’umanità e dell’intero universo, non è stata subito evidente ai discepoli di Gesù, profondamente impregnati di cultura ebraica e, pertanto, convinti che il privilegio di essere membri del popolo eletto, scelto in modo esclusivo da YHWH come suo popolo e “famiglia”, si estendesse in modo unico e totalizzante anche alla loro appartenenza alla ristretta cerchia degli eletti, salvati da Cristo.

Il disprezzo per i pagani, o gentili, era superiore al desiderio di accoglierli nella “famiglia dei salvati” in Cristo e ci volle l’irruenza e la costanza di un apostolo sanguigno e coraggioso, fino alla temerarietà, come Saulo di Tarso per scuotere le incrollabili certezze dei confratelli giudei, il cui capo “ufficiale” era Pietro, piuttosto condiscendente e disposto al dialogo coi gentili, succube però del “vero” capo della comunità cristiana di Gerusalemme, la Chiesa-madre di tutto il movimento cristiano dell’antichità: s. Giacomo, detto il Minore e noto per essere il “fratello (o cugino) del Signore Gesù ed altrettanto famoso per la sua incrollabile fedeltà alle tradizioni giudaiche (cf. At 15,1-29).

La santità e l’essere “santificati in Cristo Gesù” riassumono il contenuto della vocazione (ossia della chiamata alla santità rivolta da Dio a tutti gli uomini in Cristo Signore), in forza della quale tutti coloro che accettano di aderire a Gesù, con fede piena e libera, sono come “separati” dagli altri uomini per essere totalmente di Dio (cf. Rm 9,24; Col 3,11; At 2,39; Is 57,19). Il vocabolo ebraico qadōš, santo, è stato tradotto in greco con un significativo àghios, letteralmente “non terreno”; santo, dunque, è colui che partecipa della santità di Dio, che è purissimo spirito, non corruttibile né delimitabile, come tutto ciò che è materiale e soggetto alle leggi del tempo e dello spazio, ma neppure sfiorato dal male. Chi è santo non è tale per meriti propri, ma perché è stato “santificato” da Dio in Cristo per mezzo dello Spirito. Il cristiano, dunque, ha il grande privilegio di essere “chiamato” a vivere, in pienezza e per partecipazione, la santità di Dio, senza per questo dover evadere dal mondo in cui Dio stesso l’ha collocato per essere “segno” della sua  misteriosa ed ineffabile presenza nel mondo (cf. 1Cor 5,10). Come spiega s. Paolo, tramite la vocazione cristiana la vita acquista un valore del tutto nuovo, poiché si realizza un rapporto esclusivo (1Cor 7,20.22) tra Dio e quanti sono da Lui consacrati e chiamati ad essere suoi collaboratori nella manifestazione del suo progetto di salvezza (Rm 8,28-30). A loro modo, i “chiamati” godono già dell’attributo essenziale di Dio e del suo Cristo, che è l’essere “santo”. La volontà di Dio, ricorda ancora Paolo, consiste nel fatto che ciascun essere umano è chiamato alla santità, non all’impurità propria di chi volontariamente decide di accontentarsi della realtà materiale, eludendo le superiori esigenze dello spirito (1Ts 4,3.7). Durante la vita presente, il cristiano è sollecitato a compiere continuamente delle scelte coerenti con la propria vocazione alla santità (Ef 4,1-6) e, come termine di confronto, ha niente meno che la santità di Dio (1Pt 1,15); per realizzare nella propria vita questo “cammino” vero e proprio verso la santificazione personale e comunitaria, i cristiani devono attingere necessariamente ed a piene mani alla grazia divina, che offre doni di salvezza, di pace, di libertà, di gratuità, di amore e di speranza, doni che vanno condivisi con generosità e non tenuti egoisticamente per sé. Occorre sottolinearlo, non ci si salva mai da soli! La vocazione, infatti, è un atto d’amore divino rivolto al singolo ed in singole circostanze, richiede un impegno personale costante e fedele (2Pt 1,10), ma non si esaurisce nella salvezza di una sola persona: Cristo è morto per tutti e a tutti deve giungere la lieta notizia della salvezza, donata con l’effusione del suo sangue.

Da ciò scaturisce la dimensione missionaria della vocazione cristiana, in forza della quale ogni cristiano diventa un collaboratore attivo di Cristo nella diffusione del suo vangelo, facendo della propria personale “chiamata” alla salvezza un dono da condividere con tutti gli uomini, liberi di accogliere o di respingere la redenzione offerta da Cristo per mezzo della sua Chiesa, la quale, essendo il “Corpo mistico di Cristo”, è al tempo stesso presenza attuale e garanzia certa della futura salvezza eterna. Da tali principi trae origine e sviluppo la vocazione alla santità di ogni singolo membro del Corpo di Cristo: la Chiesa non è santa per la somma addizionale della santità dei suoi singoli membri, ma perché è resa tale da Cristo, che è il suo Capo e che chiama tutti i suoi discepoli a spogliarsi della propria carnalità, intrisa di peccato, per rivestirsi di Lui (Rm 13,14; Gal 3,27), il “tre volte Santo” (Is 6,3; Ap 4,8).

LA MEDITAZIONE PER IL RITIRO SPIRITUALE ALLE SUORE ANCELLE DEL SACRO CUOREultima modifica: 2013-11-29T00:09:42+01:00da pace2005
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