I racconti più recenti di padre Antonio Rungi

La croce del porto

Per la gente del porto era la croce dei giovani. Quella croce, altra circa 20 metri, sul modello dei tralicci che oggi si usano per i ripetitori Tv o dei telefonini, era stata collocata al centro della piazza del porto di una piccola isola del mare nostrum. Alla sera, specialmente d’estate, si radunavano intorno ad essa centinaia di giovani per discutere, per mangiare una pizza, per giocare e qualcuno anche purtroppo per drogarsi. Un giorno capitò una tragedia, che fece discutere il paese intero e pose la quastione se continuare o meno a tenere quella croce in mezzo al piazzale del porto turistico della città. Infatti, durante una delle bravate che i giovani usano fare per mettersi in mostra, una notte un giovane arrampicandosi su quella croce di tubi innocenti cadde a terra e morì. Aveva battuto violentemente la testa sul basamento in cemento armato, del scondo scalino, che era a tre gradini quadrangolari ed aveva un preciso significato teologico, indicando così la Santissima Trinità ; come la Divinità nella sua interezza era presente nel mistero della salvezza, nel momento in cui Gesù Cristo moriva per la salvezza del mondo in quell’unico storico venerdì di passione e morte.

Il primo gradino, quello più grande, che si ergeva da terra era dedicato al Padre, il secondo, più stretto, era dedicato al Gesù Cristo, il terzo più piccolo ancora era dedicato allo Spirito Santo. I nomi della Trinità erano stati scritti e incisi nel cemento armato con cui era stato realizzato il piedistallo della croce del porto. Quando nella notte arrivarono i carabinieri è costatare il decesso del giovane e soprattutto la folla che aveva saputo la notizia e si era raccolta numerosa intorno alla croce del porto, tutti notarono dove aveva battuto la testa e morto il giovane ragazzo, che faceva uso di droga: sul secondo scalino. Le riflessioni e le considerazione al riguardo si moltiplicarono all’istante e nei giorni successivi.

In quell’isola il giovane viveva con i nonni paterni, dal momento che il papà era un marittimo e praticamente non c’era mai su quell’isola; la madre aveva preso un forte esaurimento nervoso e veniva curata sul continente presso una struttura per malati mentali. I due nonni erano piuttosto anziani e controllavo poco l’unico nipote che avevano e non comprendevano affatto se il giovane facesse uso di sostanze stupefacenti. Certo notavano che in casa mancavano frequentemente dei soldi e che lo stesso Nico, questo il nome del giovane, chiedeva continuamente denari per motivi di studio, frequentando un istituto superiore in una scuola vicina al suo paese d’origine.

Quella morte violenta e tragica lasciò nella popolazione locale un terribile dubbio: forse quella croce era una tentazione per i giovani e quindi era meglio che venisse abbattuta e rimossa.

Una sottoscrizione partì in tal senso tra alcuni cittadini che da sempre avevano visto di malocchio la presenza di questo simbolo di culto della fede cattolica.

La sottoscrizione raggiunse un buon numero di adesioni e pertanto venne discussa in un consiglio comunale aperto al pubblico. Il sindaco e i consiglieri discutevano sulla questione e tra loro non c’era accordo, come in tutte le cose politiche. Ad un certo punto il sindaco chiese ai cittadini presenti se qualcuno volesse intervenire e parlare a nome dei cittadini, di quelli che non avevano firmato la sottoscrizione. Mentre calò il silenzio su tutta l’assemblea, tra i presenti una piccola mano si alzò per chiedere la parola. Era un bambino delle scuole elementari del paese che pure durante il giorno insieme ai compagni di classe ed ai suoi amici si trovavano insieme presso la Croce del porto per giocare e parlare, perché quello era l’unico ritrovo dei giovani della città. Il ragazzo con grande coraggio disse esattamente le cose come stavano: “Non è colpa della croce, ma è colpa nostra se ci comportamo male e succedono fatti gravi”. Ed aggiunse: “Abbiamo fatto un sondaggio tra noi ragazzi e tutti siamo contrari alla rimozione della croce, perché per noi è una compagnia e soprattutto una protezione”. Espresse la solidarietà ai nonni del ragazzo morto, perché neppure in quella circostanza di lutto, i due genitori si erano fatti vivi, e chiesero che venisse respinta la petizione popolare e che la croce continuasse a restare li.

Dopo tale intervento ce ne furono altri cento del genere, tanto che il consiglio comunale iniziato alle tre del pomeriggio continuò senza soluzione di sosta, fino alle tre di notte. Dopo aver ascoltato i vari interventi dei cittadini, il sindaco mise a votazione la questione: votare o meno l’abbatimento della croce del porto. Tutti i consiglieri furono contrari e la demolizione non passò. Al contrario si decise di fare della croce del porto un momumento alla memoria del giovane morto. E da quel giorno non si chiamò più la croce dei giovani, ma la croce di Nicola.

Un ultimo providenziale prrovedimento del consiglio comunale per evitare che ci fossero altri incidenti. La croce fu messa in sicurezza, ricordando essa uno storico evento per quella città, di 100 anni prima, alla cui memoria era stata eretta dall’amministrazione del tempo.  

Si reallizzò una inferriata protettiva di tutta il basamento della croce in modo che i ragazzi non potessero salirvi sopra. L’inferriata veniva aperta due volte l’anno: nell’anniversario della morte del ragazzo morto e in Venerdì Santo, quando la Via Cruci si fermava alla Croce del porto per la XII stazione, in cui si ricorda la morte in croce di nostro Signore. Ed ogni anno in quella circostanza tutti ricordavano nella preghiera il giovane morto ai piedi della croce sul secondo gradino dedicato al Figlio di Dio.

Con Cristo morto in croce, tutti dobbiamo fare i conti. Bisogna battere la testa con questa pietra angolare per capire il vero senso della vita umana.

 L’edicola della Vergine Maria

Aveva almeno 300 anni di vita e di storia ed era sistemata in un posto centrale dell’antico borgo mediovale del paese.

Da lì passava praticamente tutta la gente, ogni mattina, dai più piccoli ai più grandi e per tutti quella piccola edicola della Beata Vergine Maria con bambino era un buon auspicio per la giornata.

C’era chi si faceva la croce e sostava un attimo a pregare e poi con la mano a toccare quelle bellissime piastrelle di maiolica che costituivano il mosaico della Madonnina, dolce e tenerissima con Gesù bambino tra le sue braccia, nell’atto di donargli il latte materno.

Altri facevano un semplice gesto del capo in segno di riverenza e saluto e gli anziani invece si toglievano il cappello ed abbassavano la testa in senso di rispetto. Era una liturgia mattutina e diurna, un insieme di lodi e vespri, un vero rito soprattutto di mattutino che lasciavano nel cuore di chi osservava da vicino o da lontano il segno dell’amore verso la Madre del Signore.

Un amore sincero ed un rispetto totale espresso anche attraverso il culto delle immagini sacre.

Una mattina di primavera, quell’icona non c’era più nella sua cappellinna. Era stata portava via da mano sacrileghe, che con mestiere ed esperienza avevano rimosse tutte le piastrelle con componevano la bellissima immagine della Madonna con Bambino.

In quel posto erano impegnati da mesi per lavori pubblici operai che nel loro linguaggio corrente non facevano nulla se non facevano scappare una bestemmia contro Madonna e il Padre Eterno. Anche davanti alla bellissima immagine della Vergine Santa non avevano ritegno di bestemmiare.

Restavano impressionati i bambini che vedevano ogni giorno quello sperpetuo contro la Madonna, i giovani che per quanti si dice comunque sono rispettosi della fede propria ed altrui ed hanno una grande venerazione per la Madre di nostro Signore, gli anziani che per loro quella immagine era familiare e cara e quando la si toccava con la bestemmia scattava in loro un forte risentimento a chi offendeva la religione e il culto delle immagini.

Tra i tanti operai c’erano vari che non credevano affatto o erano di altre sette e confessioni che non ammettono il culto alle immagine sacre. Si pensò subito in paese che potesse essere qualcuno di loro a portare via una immagine della Vergine Santa così bella ed espressiva. Perché si pensava che un cattolico vero oltre a non rubare nulla agli altri, non ruba particolarmente le immagini sacre, perché commette un reato, ma anche un peccato grave.

Sta di fatto che in quella cappellina l’immagine della Madonna con Bambino non tornò più. Ma la cappellina non poteva restare assolutamente così, vuota.

E allora la popolazione di organizzò e fece fare un copia esatta della stessa immagine della Madonna con Bambino e con lo stesso materiale in maiolicato. Il mosaico fu ricomposto anche perché tutti avevano l’immagine della loro Madonnina impressa sulle figurine o sui telefonini. Molti l’avevano messa come immagine di apertura del loro telefono cellulare, in modo che il pensiero fosse costantemente rivolta alla Madre di Dio ogni volta che questo squillava.

Il legame con quella immagine era profondo e solo chi era stato allevato al culto della Vergine Santa e a venerarla con sincerità poteva comprendere il vuoto che aveva lasciato nel loro cuore di ciascuno di loro, chi aveva portato via la loro Madonnina.

Si pregò a lungo per le mani sacrileghe, affinché ritornasse l’immagine originale; ma passarono anni e tutto rimase tale e quale.

La copia che era stata sistemata allo stesso posto, e questo aveva fatto  dimenticare in parte il gravissimo fatto, ma non eliminarlo del tutto dalla coscienza di quel popolo particolarmente devoto della loro Madonna, tanto da dedicare a lei la festa più importante del paese.

Un giorno per puro caso, un operatore ecologico andò a rovistare in mezzo ai detriti di una casa abbandonata e che era ceduta durante una forte scossa di terremoto. Praticamente di quella casa e di quella famiglia non era rimasta pietra su pietra e  ossa su ossa.

Tra le macerie trovò l’immagine spezzettata, come carta, della sua Madonna, senza poterla ricuperarla in toto, in quanto era stata praticamente annientata.

Si cercò anche di rimetterla a posto, ma non fu possibile.

I pochi pezzetti di maiolica di quell’immagine non potevano assolutamente ricostruire tutta la Madonnina, perché mancava la parte più importante: Gesù Bambino.

Una mamma senza il suo figlio, pensò il netturbino, è una vita senza amore e un amore con grande dolore. Ed un figlio senza la madre è una vita dimezzata e senza significato. Maria è Gesù in un inscindibile rapporto di amore e di redenzione, erano il chiaro messaggio a quanti la veneravano in quell’immagine dell’unità e dell’armonia familiare.

Rimettere la Madonna al suo posto, senza Gesù bambino, non sembrò giusto e allora si pensò bene a continuare a venerare la copia della sacra immagine nella sua completezza iconografica.

Perché così era stata realizzata dall’inizio e così doveva giustamente ritornare dopo il sacrilego gesto del trafugamento  fatto da mani indegne di toccare un’immagine sacra, cara a tutta la comunità, anche a chi credente non era.

I piccoli frammenti di quella immagine sacra, con oltre 300 anni di storia da raccontare, furono conservati nel museo della città, a perenne memoria di una vicenda di offesa al culto cattolico delle immagini, che solo una persona arrabbiata con Dio e il mondo intero poteva aver compiuto in una delle notti più oscure della sua vita di buio.

Sarà stata una circostanza, una casualità, ma quella casa in cui fu portata la Madonnina rubata non ci fu mai pace a quanto si seppe dopo il ritrovamento e quella famiglia finì con i suoi componenti sotto le macerie di un terremoto, distruggendo ogni cosa e lasciando visibile solo un pezzetto di paradiso: il doce viso della Madonnina.

  

Il barbone della stazione

 In tre mesi era cambiata radicamente la sua vita. Il fallimento dell’azienda di famiglia di cui era il direttore generale e soprattutto il fallimento del suo matrimonio con Angela, di cui era profondamente innamorato. Due figli piccoli, Luca e Matteo, di 7 e 5 anni, rispettivamente. Dopo il fallimento di entrambi le cose, dovette lasciare casa e paese, per trasferirsi altrove. Il giudice aveva pure stabilito il mantenimento dei figli e della moglie, rimasti senza nulla, anche con la casa ipotecata, ma con il permesso di abitarci. Stefano che provò a trovare lavoro altrove, dopo aver dato lavoro a tutti, non trovò nulla da nessuna parte. Aveva nel suo cuore il desiderio di non far mancare nulla alla sua famiglia. Cosa fare, di fronte alla chiusura totale di prospettive? Trovò una soluzione poco onorevole e non auspicabile per nessuno, anche se rispettabilissima, di fronte ad altre più difficili e problematiche decisioni. Decise di fare il barbone presso la stazione di una grande metropoli del nord. Ogni mattina, di buon ora si alzava e praticamente si travestiva per non farsi riconoscere, dal momento che era una persona in vista, noto ed un volto familiare. Parrucca, vestiti stracciati, barba incolta, una maschera di uomo per nulla riconoscibile, neppure ai più scaltri detective. Appenna arrivato alla stazione si posizionava all’inizio del binario ove arrivavano i pendolari. Evitava i binari della Freccia Rossa e degli Intercity sui quali viaggiavano i ricchi. Il motivo era semplice da capirsi: sono i poveri che aiutano altri poveri, mentre i ricchi difficilmente lo fanno. D’altra parte anche forte della conoscenza del vangelo, lui cattolico convinto, Stefano sapeva benissimo, una volta caduto in disgrazia, su quale versante operare per vivere la sua nuova sfida. La giornata praticamente trascorreva alla stazione a chiedere l’elemosina. Rientrava alla sera con l’ultimo treno delle 18,00, quando le fabbriche e i negozi chiudevano e, terminati i turni, gli operai ed i pendolari facevano ritorno a casa. Aveva per spostarsi un vecchio motorino che aveva fatto aggiustare e con il quale viaggiava senza neppure essere assicurato. Appena arrivava a casa si metteva in ordine, in quel bugigattolo che aveva avuto in prestito da un vecchio amico che abitava lontano e fuori l’Italia. Si era adattato alla meno peggio in quel monolocale a qualche km dalla sua vecchia e bellissima casa di proprietà, ove continuavano a vivere la moglie e i due figli. Ogni giornata riusciva a fare con la raccolta dai 30 ai 40 euro. Tolto qualche panino per lui e lo stretto necessario, il resto lo metteva da parte per dare l’assegno familiare alla moglie ed ai figli per non far mancare loro ciò di cui avevano bisogno. Anche i bambini avevano dovuto ridimensionare le aspettative, dopo che la madre e i parenti avevano detto esattamente come stavano le cose. Stefano soffriva per la mancanza della moglie, ma soprattutto dei suoi due piccoli angeli, una vera tempesta di gioia e felicità quando le cose andavano bene. Ora erano tristi, non tanto per le cose che mancavano, ma perché non potevano vedere il padre. Il tribunale dei minori aveva revocato al genitore la patria potestà, per incapcità di guidare la famiglia. Una sofferenza immensa, un colpo al cuore di questo ex-dirigente e imprenditore dell’Italia bene. Prima di scendere alla stazione, divenuta il luogo del suo lavoro, passava davanti casa per cercare di vedere i suoi bambini. Non gli riusciva mai, perché gli orari non confacevano. Egli doveva arrivare di buon mattino al capofila dei treni dei pendolari perché doveva racimolare qualcosa  per loro. E così succedeva. Nella postazione fissa che aveva preso, ormai la gente che passava di buon mattino o durante la giornata lasciava sempre qualcosa nel cestino che portava con sé e dove i viaggatori lasciano cadere qualche piccolo o più una più consistente mometina. Qualcuno di loro si era riproposto di fare la prima azione buona della giornata lasciando 1 euro al giorno a Stefano, l’ex-industriale, che ora viveva sotto mentite spoglie. Un giorno, ricorda bene il barbone della stazione, fu di quelli che ti restano per sempre nella memoria. Come sempre stava all’inizio del binario per chiedere l’elemosina. Ad un certo momento tra la folla dei pendolari, che correvano fuori della stazione, vede arrivare una giovane signora con un bambino tenuto per mano. A man mano che si avvicinava riconobbe che era la sua moglie e il primo dei suoi figli, che erano vestiti abbastanza bene. Erano scesi in città dal paese per un controllo medico per il bambino. Quando furono a pochi metri e la signora fece finta di non vedere, Luca, il primo figlio di Stefano, disse con candore alla mamma. “Mamma diamo qualcosa a questo signor, vedi in quale condizione si trova?”. La mamma trasse dal suo borsello 1 euro e lo passò a Luca per posarlo nel cestino del barbone. A quel punto guardando negli occhi quel signore, disse spontaneamente. “Papà. Ma tu sei il mio papa?”. “Ti sbagli” replicò Sfefano. Anche Angela aveva capito che sotto quelle mentite spoglie c’era suo marito. Strattonò Luca dicendogli che si era confuso e che doveva camminare altrimenti si faceva tardi per arrivare all’ospedale. Ma il bambino insisteva, che era suo padre. Appena si furono allontanati, Stefano si alzò dalla postazione dell’elemosina e corse nel bagno della stazione e incominciò a piangere senza fermarsi più. Quel giorno smise di chiedere l’elemosina e preso il motorino, ritornò a casa per non farsi vedere in quello stato dalla moglie e dal figlio. Nella sua mente risuonava la voce del bambino che più si allontanava e più chiamava: papà. Uno choc emotivo di quelli che ti segnano la vita. Da quel giorno, Stefano non scese più alla stazione per chiedere soldi e l’elemosina, per una questione di dignità per la sua famiglia. Ormai la moglie lo sapeva come racimolava il poco necessario per mantenerli a tutte e tre. Il giorno seguente Angela, dopo aver accompagnati i bambini a scuola, si recò da Stefano per chiarire la cosa. Entrambi convennero che non poteva andare avanti così e propose a Stefano suo marito di andare a lavorare con il padre di lei in campagna, a fare il contadino, pur di salvare la dignità sua, quella dei bambini e della sua famiglia. Stefano accettò e la giornata lavorativa che pecepiva di 50 euro al giorno con i contributi permise alla famiglia di vivere meglio e a Stefano di non fare una vita da mendicante della stazione per il bene della sua famiglia, ormai perduta ed in parte ritorovata. Angela, infatti, non volle che Stefano ritornasse a casa, ma permise di vedere i bambini e fece in modo che il tribunale revocasse, attraverso il suo legale, il dispositivo sulla patria potestà e sul frequentare i bambini. Un piccolo passo in avanti Stefano lo aveva fatto ed era più sereno, pur ammettendo i tanti errori gestionali che aveva fatto quando era dirigente dell’azienda familiare e faceva sprechi di ogni genere. Investimenti sbagliati, acquisti di auto, amava il lusso, la bella vita, le ferie all’estero, giocare, divertirsi perché i soldì erano tanti. Ma la crisi era arrivata anche per la sua azienda e l’aveva travolto buttandolo sul lastrico e coinvolgendo in questa cattiva gestione tutta la sua parentela e i vari dipendenti. Aveva imparato la lezione, ma dovette lavorare per anni per uscire dall’emergenza. I figli una volta diventati maggiorenni frequentarono regolarmente il papà, mentre Angela decise di rimanere sola e farsi una vita nel campo della professione, essendo ormai un architetto ben avviato.

 

 

La modella

 Da piccola sognava di diventare una delle modelle più belle e richieste, oltre che pagate del mondo. Non c’era dubbio. Era una bellissima ragazza. Tutto a posto per fare questo lavoro e magari anche per partecipare ad uno dei concorsi, quelli che si fanno per essere apprezzate e anche ben pagate. Il suo curriculum professionale si era svolto tutto regolare, aveva superato prove, aveva fatto provini, e si era sempre classificata tra le prime se non la prima in senso assoluto. In lei aumentava la stima e la personale autovalutazione arrivò alle stelle, tanto che nessuno si poteva più avvicinare per parlarle. Era una star almeno nella sua zona, anche se non ancora era decollata a livello nazionale e internazionale. In questo suo desiderio di realizzazione nel mondo della moda o dello spettacolo o della televisione era sostenuta dalla mamma che pure aveva sognato di fare lo stesso discorso, ma non le era stato permesso dai genitori, che la pensavano diversamente da lei. Non mancò anche il sostegno del padre, che pur di accontentare la figlia, con tanta sofferenza, vedeva sfilare la sua bambina, ormai donna, tra ali di uomini, molti dei quali cittadini del luogo. Gli apprezzamenti anche in dialetto locale non mancavano verso la figlia. Ed il padre nel silenzio doveva sopportare tutto, considerato che la figlia ormai si era esposta. Venne il giorno in cui ci furono le selezioni per un concorso importante e tra le aspiranti modelle c’era propria la sua figlia diletta. Doveva trasferirsi dal paese alla capitale per partecipare alle selezioni. La partenza dal paese fu in ritardo e qundi per arrivare in tempo con l’auto, guidata dal fidanzato della ragazza sulla quale c’erano leì e i due genitori, si correva a mille all’ora. Una corsa folle, senza rispettare limiti di velocità, facendo sorpassi azzardati, non considerando i rilevatori di velocità disseminati abbondanti lungo tutto il percorso. Nulla in quel momento era più importante: arrivare in tempo alla selezione, perché sarebbe stata un’ottima occasione per decollare nel campo della moda e dello spettacolo a livello internazionale ed avere un contratto lavorativo considerevole. Tutto bene fino alla periferia della città. I 300 Km di distanza il ragazzo l’aveva percorso in poco più di un’ora, alla media di 200 Km all’ora. Ma il dramma si sarebbe consumato a lì a poco, quando l’auto ad alta velocità in una curva sbandò e andò a sbattere davanti al muro. I sistemi di sicurezza dell’auto non causarono grossi traumi ai viaggianti,. Tutti gli airbag erano scattati e aveva protetti i quattro passeggeri da morte certa. La macchina distrutta e i viaggianti con vari escorazioni e ferite. Chi ebbe la peggio in questo terribile incidente fu proprio l’aspirante modella, che ebbe varie lesioni al viso e ferite più o meno profonde alle altre parti del corpo. Tutti i quattro furono portati in ospedalle per gli accertamenti e per le cure del caso. Tre poterono lasciare l’ospedale alla sera stessa, per la ragazza ci vollero diversi giorni per mettere a posto tutto il suo corpo e soprattutto la sua anima e la sua psiche. Il sogno di una vita si era infranto davanti ad un muro sull’autostrada. Ma da quella triste esperienza usci profondamente segnata, ma altrettanto matura per capire che la vita, vale più di una gara per modelle o di un posto di lavoro nel mondo dello spettacolo e della moda. La bellezza fisica non sempre gioca a favore di chi è in possesso di questo singolare dono di Dio, perché più importante è la bellezza del cuore e dell’anima che se ben curata e custodita ci accompagna per tutta la vita, mentre la bellezza esteriore si deturpa con il passare delle ore, dei giorni, dei mesi e degli anni. Da quel giorno Melissa non gareggiò più, si accontentò di trovare un onesto lavoro e sposarsi con il suo Giorgio, anch’ egli traumatizzato per il grave incidente. La più “suonata” di tutta la vicenda fu la madre di Melissa, che da quel giorno avvertiva un senso di colpa che portò con se fino alla tomba. Melissa ebbe tre bellissime bambine, anch’esse aspiranti miss. Ma come madre ormai forte della triste espienza non forzò la volontà delle sue figlie, né chiedeva di premere sull’acceleratore quando le ragazze viaggiano con i rispettivi fidanzati per partecipare ad un concorso di bellezza. Aveva il terrore che potesse succedere anche a loro, ciò che era successo a lei. Prevenire è meglio che curare si era detto nella sua mente di non più figlia, condizionata dalla madre, ma di madre che amava teneramente le sue figlie e non le esponeva a nessun pericolo né alllo sguardo indiscreto di tante persone che lavorano nel campo della moda e dello spettacolo.

 

Naim l’africano

 Era in quella scuola del Sud il primo bambino di colore che faceva ingresso nella scuola dell’obbligo ed aveva appena sei anni, come i tanti bambini italiani che in quell’anno facevano ingresso nella scuola elementare. Era originario del Benin ed è era un bambino bellissimo e simpaticissimo, sprigionava da tutti i suoi pori la voglia e la gioia di vivere. In quella prima classe della scuola elementare tutti gli altri erano bambini del posto, di colore bianco, e tra loro c’era un bambino dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Di quei bambini figli dei grandi signori delle aree del sud con l’aria della persona superiore. Vestiva benissimo, alla moda, aveva tutti i libri a posto, zaino firmato e tutto il resto di marca. Il bambino nero, pulitissimo, aveva pochissime cose con sé, l’essenziale per la scuola, ma era volenteroso nello studio. Comprendeva perfettamente e subito la lezione delle maestre, che insegnavano su quel modulo di classi elementari. In poche parole divenne subito il primo della classe, attirandosi, da un lato la benevolenza delle maestre, e dall’altra la gelosia del bambino biondo che poco riusciva negli studi. I dispetti quotidiani si rinnovavano ogni giorno e non solo in classe, ma anche durante l’orario del gioco all’aperto e durante la mensa. Qui scattava l’odio raziale del bambino bianco, che era stato mal educato dai genitori, perché essi non amavano per nulla i neri ed erano evidentemente persone per nulla tolleranti verso gli extracomuniari. Quel bambino biondo era cresciuto nell’odio razziale e quindi non vedeva di buon occhio la presenza dell’africano nella sua classe e per di più anche il primo in assoluto negli studi. Un giorno mentre giocavano negli spazi aperti della scuola, il bambino biondo cadde e si ruppe la gamba. Il primo a soccorrerlo fu l’africano che con parole di adulto cercava di incoraggiare e sostenere il bambino biondo nella sua sofferenza, in attesa che arrivassero i genitori e soprattutto l’autoambulanza per portarlo in ospedale. Senza farlo muovere, si accostò a lui e nel suo perfetto italiano che aveva appreso benissimo in pochi mesi, gli raccontava delle storie del suo paese d’origine, proprio quando i bambini cadevano e si facevano male e non potevano arrivare né dottore, né autoambulanza, ma solo la mamma o il padre quando c’erano ed erano capaci. A intervenire in quelle circostanze erano solo le suore missionarie o i sacerdoti missionari che in qualche modo cercavano di lenire il dolore dei piccoli e dei grandi con i pochi rimedi medici che avevano a disposizione. Di racconto in racconto, dopo quasi 10 minuti dall’incidente, arrivarono i due genitori del bambino biondo e trovano l’africano vicino al loro figlio. In un primo momento con la rabbia sul volto pensarono che fosse stato l’africano a far male al loro bambino. Il loro figlio capì dagli sguardi e nonostante il dolore che aveva in quel momento si fece avanti dicendo: “Mamma, papà, grazie a Naim sono qui a soffrire di meno. Lo ringrazio di cuore perché è stato un tesoro con me, mentre i miei compagni sono andati via per paura o per non darmi una mano”. I genitori del piccolo Alex, il bambino biondo, presero tra le braccia Naim, lo baciarono e lo ringraziarono per aver fatto compagnia al loro bambino. Nel frattempo arrivò l’autoambulanza e con tutti gli accorgimenti e la prudenza del caso il bambino fu portato in ospedale, curato ed ingessato. Dovette stare 40 giorni al letto e in casa. Ad andarlo a trovare tutti i giorni a fargli fare i compiti e a spiegare le lezioni ad Alex era Naim, l’africano, che nel colore della pelle del suo amico Alex non vedeva né il bianco, né il biondo dei capelli, né gli azzurri occhi del suo compagno, ma solo un suo caro amico al quale voleva bene. La lezione del piccolo Naim per lo stesso Alex e soprattutto per i suoi genitori fu efficace e da allora in poi, in quella famiglia il razzismo scomparve per sempre dai pensieri e dai comportamenti di quei nobili signori di un paese del Sud.

 

Il pianto del ragazzo

 Era tutto solo nella chiesa della Madonna del Carmine e piangerva a dirotto, davanti al santissimo sacramento dell’altare. Da poco si era conclusa la celebrazione eucaristica, durante la quale il sacerdote, nell’omelia, aveva trattato temi importanti come l’unità della famiglia. Evidentemente il ragazzo era rimasto scosso dalle parole del predicatore e riviveva nel suo cuore il dramma dei genitori separati e rivedeva tutte le volte che tra loro due c’erano stati diverbi e come essi avevano segnato la sua psicologia. Nella chiesa vuota era rimasto il ragazzo e una suora. La quale si avvicina al giovane per chiedere: come mai piangesse. “Niente, sorella”, disse. “Voglio stare un altro poco qui davanti a Gesù, per chiedere lumi sul mio futuro”. La suora lascia il ragazzo a meditare davanti all’altare e continua a fare le sue cose, visto che alla chiesa del Carmine era annesso il monastero delle Carmelitane di vita attiva. A distanza di un’ora ritorna nella stessa chiesa per vedere se il ragazzo era ancora lì a pregare e a piangere. Con grande gioia, nota che non c’era più, era andato via. La suora si accingeva a chiudere la porta della chiesa, quando all’improvviso sopraggiunge novamente il ragazzo con le lacrime agli occhi e con un magone nel cuore.La suora sconcertata e preoccupata dello stato d’animo del ragazzo, pensando che potesse farsi del male, chiede aiuto al sacerdote che era ancora in sacrestia a svolgere il suo ministero di padre spirituale. “Padre correte –grida la suora – un giovane si sente male ed ha bisogno di voi”. Il sacerdote lascia quello che stava facendo, dice alla penitente che stava confessandosi di aspettare un attivo che sarebbe ritornato subito. Va in chiesa e si accosta al giovane che continua a piangere a dirotto. Lacrimoni cadono abbondanti dal viso del giovane.  

“Cosa ti è successo, ragazzo mio” chiede il sacerdote.  

“Nulla padre, ho bisogno di pregare, di stare davanti a Gesù Sacramentato”.  

Al che il sacerdote disse di rimanere li finquando voleva.  

Il giovane rimase ancora un’altra ora davanti al santissimo sacramento e poi usci di nuovo.  

Il sacerdote visto che non c’era più nessuno in chiesa, incominciò a chiudere la porta dell’ingresso, quando all’improvviso nuovamente arriva il ragazzo, che piange fortissimamente e chiede conforto al sacerdote.  

“Cosa è successo?”, domandò il prete.  

“Una cosa terribile”, padre, ho visto mia madre nella macchina di un altro uomo, che non è mio padre, che stava in atteggiamento affettuoso, per non dire altro, con questo uomo. E’ stato un colpo mortale per me. Sono corso in chiesa a pregare, perché non sapevo cosa fare in quel momento. Ho chiesto l’aiuto al Signore. Ho aspettato un’ora e sono uscito con la speranza che mia madre avesse salutato quell’uomo e fosse tornata a casa. Invece non era così. Ogni ora sono uscito, ma lei stava sempre lì. Anche in questo momento sta con quella persona. Se vuole, padre, può rendersi conto personalmente della cosa”.  

Al che il prete: “Ti credo figlio mio, non ho bisogno di verificare nulla. Questi fatti purtroppo capitano sempre più frequentemente ai nostri giorni. Non  ci dobbiamo rassegnare alla situazione che si è creata. Ma ti chiedo cosa possiamo fare?”. 

Il ragazzo, replicò subito al sacerdote. “Tanto per iniziare, non le faccia più insegnare il catechismo, visto che è una sua collaboratrice, padre. Quale messaggio di vita cristiana può dare ai ragazzi che si preparano alla cresima?”.  

Al che il sacerdote. “Non posso che darti ragione figlio mio. L’insegnamento della vita vale più di un anno di catechismo. Tua madre da domani in poi, se è vero quello che dici, non potrà più insegnare ai bambini e tantomeno essere credibile per quello che ti raccomanda di fare a te che sei suo figlio. Ma ti posso chiedere una cosa?, aggiunse il sacerdote. 

 “Certo”, rispose il ragazzo.  

“Quando rientrerai –disse il prete- a casa e vedrai tua madre, fa finta di nulla di quello che hai visto. Aspetta che sia lei a dirti la verità, dal momento che sei l’unico figlio e l’unica persona con cui vive ufficialmente, nascondendo agli occhi degli altri la sua vera condotta di vita”.  

Al che il ragazzo. “E se non dovesse dirmi nulla?”.  

Replicò il sacerdote: “Fai una cosa semplice, evangelica, vai da lei e con un grande gesto di amore e di tenerezza, dille: mamma solo un figlio può amare sinceramente la sua mamma e sola una mamma vera può amare davvero il suo figlio”.  

E chiedele: “Mi vuoi ancora bene?. Se ti dice di sì sappi che sta attraversando un momento difficile della sua vita e tu come figlio devi starle vicino per recuperarla all’amore e alla famiglia”.  

Al che il ragazzo: “Io devo stare vicino a mia madre? Ma deve essere lei ad essere vicino a me”.  

Al che il sacerdote disse al ragazzo: “Chi più capisce, più comprende e patisce. Tu hai capito ora che tua madre non è quella che tu pensavi. Lei ora ha bisogno di te, più che tu di lei. Perché tu hai Gesù e sei corso da Lui in questo momento di sconforto. Lei purtroppo è corsa in braccia di un altro uomo, pensando di aver risolto i suoi problemi interiori. Non è così. Lei sta più male di te ed ha bisogno del tuo amore per uscire fuori da questa situazione di immoralità. Fammi il piacere –disse il sacerdote – ora che esci dalla chiesa e vai a casa, fa come ti ho detto e domani passa a dirmi come è andata”.  

Il ragazzo tornò il giorno dopo dal sacerdote, tutto felice e contento, ringraziando il padre per i buoni consigli che gli aveva dato.  

La mamma in quella sera stessa aveva chiamato il suo amante ed aveva detto che era finito, in quanto era più importante l’educazione dei figli che soddisfare i propri istinti e che era disonesto a svolgere il ministero di catechista, vivendo in quella situazione di immoralità, avendo ancora un marito ed un figlio, non solo sulla carta, ma ancora nel cuore.  

La conversione era avvenuta, frutto anche di quella preghiera e del pianto di quel ragazzo, preoccupato di perdere l’amore della mamma e la sua famiglia per sempre.  

La signora non tornò a fare catechismo, anzi fu lei stessa a dire al prete che non se la sentiva e svuotò il sacco di tutta la situazione personale che si era portata avanti da anni, subito dopo la nascita di quel bambino, ormai ragazzo, che tanta preoccupazione ed ansia le procurava in quanto era l’unico vero bene della sua vita.  

L’errore commesso richiedeva una seria purificazione e il modo per attuarlo fu quello di lasciare la parrocchia, dove la notizia in parte era risaputa, e ritarsi a pregare e a frequentare altri ambienti religiosi, ove non era conosciuta e pertanto poteva continuare a vivere la sua esperienza di fede, dopo una sincera confessione fatta al santuario della Madonna del Carmine, ai cui piedi versò tante lacrime di pentimento e di purificazione.  

Maria ormai si era pentita e incominciava una nuova vita, portando la gioia e il sorriso nella sua famiglia. Fece in modo che anche il marito ritornasse a casa e si ricominciasse tutti e tre insieme l’avventura della vita coniugale e familiare, nella sincerità dei rapporti interpersonali.

 

Il falso cieco 

Un giorno, un uomo non vedente, non conosciuto da quella gente, stava seduto, (come tanti specie di domenica) sui gradini di una chiesa con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: “Sono cieco, aiutatemi per favore”.  

Un signore che stava entarndo in chiesa si fermò a leggere il cartello e soprattutto a controllare quanto aveva finora racimolato. Notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello. Si chinò e versò altre monete. Poi, senza chiedere il permesso a quell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase: “Aiutatemi, perché ho una famiglia e non ce la faccio a vivere, sono senza lavoro”.  

Quello stesso pomeriggio il signore tornò dal finto non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote. 

Il miracolo della solidarietà e della carità si era rinnovato anche davanti a quella chiesa, dove di veri e finti chiechi si alternavano per chiedere l’elemosina ai fedeli che entravano ed uscivano dal luogo di culto. 

Il finto non vedente lo riconobbe e lo ringraziò per la scritta vera che aveva fissato sul cartello. Quel signore rispose: “No devi ringraziarmi di niente.  Ho solo scritto la verità, ben conoscendoti e sapendo le tue condizioni. Questa gente non ti conosce e non sanno chi sei. Ma non devi strumentalizzare coloro che davvero soffrono per la cecità”. Sorrise e andò via. 

Dire la verità, non vergognarsi della propria povertà, chiedere aiuto a chi può darlo è un atto di amore e rispetto verso di se e verso quanti dipendono dalle nostre sorti.  

Certo che non bisogna falsificare le carte o le condizioni di salute per ottenere un beneficio, sapendo di poter agire sulla sensibilità degli altri. 

I non vedenti veri sono in primo luogo ad essere nelle attenzioni delle persone sensibili, ma non bisogna sfruttare questa categoria di persone  per ottenere favori, quali pensioni ed altro, perché alla fine prima o poi i finti invalidi vengono scoperti.  

Ma al di là di questo è soprattutto la coscienza che dovrebbe mordere a chi non ha diritto ad una pensione di invalidità. Lo stesso chiedere l’elemosima fingendosi per cieco, offende la dignità, la sensibilità e la sofferenza di chi cieco è davvero.

 

I racconti più recenti di padre Antonio Rungiultima modifica: 2013-03-07T11:31:00+01:00da pace2005
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